di FRANCESCO SPAGNAoriginariamente pubblicato sul profilo Academia.edu dell’autore. « Nessuno conosce le strade del vento e del caribù. » (Proverbio chipewayan) In antropologia, come nelle favole, parlare di animali è un modo traslato di parlare di faccende umane. Gli animali ci offrono un’infinità di metafore. Travestendoci nella pelle di un animale, guardiamo all’umanità dal di fuori, da un punto prospettico esterno. Viviamo in un universo immaginario di animali umanizzati e di umani animalizzati. La linea di confine tra umanità e animalità può essere labile, indefinita o al contrario molto rimarcata o enfatizzata. Su questo tema, che appare universale, le differenze culturali sono notevoli. Lo scopo di questo articolo è introdurre alla visione dell’animalità (e del rapporto tra umanità/animalità) presso le culture native dell’America subartica. Le tradizioni culturali aborigene di questo ambiente sono infatti un interessante esempio di cosmovisione fortemente centrata sulla sfera animale e sulle sue simbologie. Rèmi Mathieu, con un’espressione particolarmente felice, ha definito l’orso nelle rappresentazioni asiatiche come un piège à symbole, una trappola di simboli (MATHIEU R. 1984:12). L’orso non è unico in questo genere e l’America subartica mostra non solo la pregnanza di questo ordine di significazioni ma anche la loro relativa intraducibilità rispetto alle nostre categorie di pensiero. Con le favole di Esopo, come faceva giustamente osservare Gregory Bateson, il pensiero occidentale ha imboccato una sua strada particolare, che ci ha portato fino a Disneyland. Presso le tradizioni sciamaniche è diverso: gli animali non sono semplicemente creature euristiche, sono artefici e fondatori del significato. Emily Carr, “Big Eagle”. Tre antropologie Possiamo individuare tre diversi approcci antropologici a questo tema. Lévi-Strauss, ne Il pensiero selvaggio (LÉVI-STRAUSS C. 1964 [1962]), approfondì in modo originale e innovativo l’analisi del rapporto tra animalità e umanità, concentrandosi sul piano mentale e simbolico. La conclusione – divenuta un classico – fu che gli animali, per gli umani, sono anche “buoni da pensare”: che siano istrici, cavalli o uccelli, le loro caratteristiche si prestano per elaborare sistemi concettuali e classificatori. Gli animali, secondo Lévi-Strauss, si offrono al pensiero umano come fossero categorie filosofiche. Nel folto delle foreste amazzoniche come nei deserti australiani, il pensiero astratto viene universalmente esercitato. Più prosaicamente, oltre vent’anni dopo l’opera di Lévi-Strauss, Marvin Harris scrisse il suo “Good to eat”: buono da mangiare (HARRIS M. 1990 [1985]). Sebbene si tratti di un divertente e istruttivo libro sulle consuetudini alimentari, il riferimento/confronto con la posizione di Lévi-Strauss è evidente. Lo stomaco collettivo è prioritario, secondo Harris, alla mentalità collettiva. La relazione tra umanità e animalità, concepita principalmente sul versante edule, viene risolta nei termini di un rapporto costi/benefici. Una forma di riduzionismo scientifico, che lascia come presupposto implicito la capacità dell’antropologo occidentale di interpretare e spiegare razionalmente le pratiche degli altri. Interessante e innovativa mi sembra la più recente posizione di Tim Ingold. Antropologo scozzese, che per anni ha condiviso la vita con i pastori di renne lapponi della Finlandia, ha inaugurato una nuova impostazione di ricerca con la pubblicazione del libro collettivo What is an animal, del 1988. L’obiettivo di questo testo è stato su due fronti: da un lato riaprire la domanda sullo status di “animale”, che non è più l’automaton aristotelico o l’organismo/congegno cartesiano, ma – nelle parole di Brian Goodwin – “un centro di potere immanente, autogenerantesi e creativo” (INGOLD T. ed. 1988: 2). Dall’altra parte, osservare dove effettivamente passa la linea di demarcazione tra le categorie di umanità e animalità nelle diverse culture. Ingold fa tesoro del pensiero dei pionieri dell’ecologia sistemica, come Jacob Von Uexküll e Gregory Bateson. La riconsiderazione di Bateson sul totemismo – interpretabile come dispositivo pedagogico, sapienziale o religioso, che postula la corrispondenza tra la sfera umana e quella animale, con particolare riferimento alla famiglia (BATESON G. 1984: 189-90) – risulta estremamente importante ai fini del nostro discorso. Se di solito si considera come tipicamente umana la creazione dei significati – la “produzione del senso” – questa prospettiva nel totemismo si rovescia, perché sono gli animali, nei miti totemici, a creare il mondo anche per l’uomo. Sono loro, come sottolinea Ingold, che definiscono il “disegno” della società umana e del suo ordine, sono loro a esserne responsabili. All’inverso, nella nostra concezione corrente, è l’uomo che deve amministrare gli animali, sfruttandoli come risorsa, prendendosi carico della loro sopravvivenza, o la responsabilità della loro estinzione (INGOLD T. ed. 1988: 12). George Catlin, “Medicine Man, Performing his Mysteries over a Dying Man”, Blackfoot/Siksika. Totemismo e sciamanismo Totemismo e sciamanismo nel subartico canadese sono legati a doppio filo. La stessa parola totem, oltre a essere diventata una categoria generalizzante dell’antropologia, è un termine derivato dalla lingua algonchina che significa “clan”. Makwa nin’dodem significa: “Orso è il mio clan”, intendendo sia una dimensione sociale – il clan familiare, che poteva essere trasmesso in linea materna o paterna, a seconda dei gruppi – sia una dimensione spirituale. L’appartenenza al clan viene tuttora rimarcata nelle cerimonie di iniziazione sciamanica. Il legame con l’animale non è mai semplicemente nominale o “araldico”. Impegna la persona in un esercizio costante di empatia – o di ricerca intellettuale – nei confronti del proprio animale. A maggior ragione se si tratta di un totem segreto e personale, ricevuto in sogno o durante la ricerca di Visione. Negli ultimi decenni, i fili della tradizione sciamanica si sono riannodati ed essa si è riattivata in modo inedito e interessante. La ricerca dottorale che ho svolto nell’area dei Grandi Laghi – verso la metà degli anni novanta – si è orientata proprio attorno alle nuove forme di trasmissione dell’eredità sciamanica (SPAGNA F. – LANOUE G. 2000). L’animale, in questo sistema di pensiero, è concepito come aiutante o come messaggero. Nella cerimonia della Tenda Tremante, un rituale divinatorio un tempo molto comune nel Canada subartico, lo sciamano chiamava a raccolta diversi aiutanti animali, impersonandone le voci e il carattere. Gli animali evocati portavano notizie e messaggi per il gruppo che assisteva al rito. Nelle iniziazioni della Capanna di Medicina, o Midewiwin – una sorta di accademia sciamanica attualmente praticata nella regione dei Grandi Laghi – la presenza degli spiriti animali, degli emblemi totemici e delle loro simbologie è preponderante. Ossa, penne, pellicce, squame, denti, artigli sono entità vive, irradianti. Potentemente simboliche e magicamente trasformative. Gli animali, di qualunque specie, sono considerati esseri spirituali. Si potrebbe dire ancora più spirituali degli umani, appartenendo alla natura selvaggia, intesa come luogo di purezza. Lontana dalla sporcizia e dal disordine contaminante dei villaggi. Gli umani si distinguono per la versatilità. Per la sacra follia, impersonata dal Trickster. Per la dimensione mediana che occupano, fisicamente, tra terra e cielo: capaci di saltare, di strisciare o di nuotare come tanti altri animali, e soprattutto di permanere in posizione eretta. Senza per questo attribuirsi alcuna superiorità, piuttosto una responsabilità, a ricambiare i doni portati dagli altri esseri e dalla natura in generale. L’animale cacciato, nell’ideologia sciamanica, si offre spontaneamente al cacciatore come dono, o perché impietosito. L’offerta rituale di tabacco – e tutto il cerimonialismo di caccia – sono interpretabili come forme di reciprocità tra la sfera umana e quella animale. [cfr. MACULOTTI, Il Sacro Cerchio del Cosmo nella visione olistico-biocentrica dei Nativi Americani e La tradizione orale delle “Big Stories” come fondamento della legge delle popolazioni native del Canada] Évariste-Vital Luminais. Non è immediato comprendere questa ideologia, se pensiamo alle dure condizioni ambientali del subartico. Il cacciatore che porta al villaggio una grossa preda – che sia un alce, un orso o un caribù – la distribuisce equamente nella comunità. Egli porta cibo in abbondanza per tutti, si organizza una festa. La fortuna a caccia è però alterna, gli spostamenti degli animali sono imprevedibili. In un ecosistema a delicato equilibrio, come quello del subartico, la carestia è sempre possibile. Basta poco perché un branco di caribù si renda invisibile, introvabile nelle vastità della tundra. Eppure non sono queste difficili condizioni a discriminare una precisa tendenza culturale: spiritualizzare gli animali. Otto animali ci aiuteranno a comprendere il pensiero dei nativi del subartico: il caribù, il salmone, il castoro, la lontra, l’orso, il rospo, il lupo e il corvo. Tutti animali fortemente spiritualizzati: ma non sono certo gli unici! Altre serie potrebbero essere ugualmente considerate, ad esempio: alce, lince, ghiottone, porcospino, picchio, topo muschiato, cigno, trota. Il caribù e il salmone sono fondamentali per l’alimentazione e per la stessa vita nel subartico. L’orso è “buono da mangiare”, ma non fondamentale. Il corvo e il rospo non sono commestibili, o sono reputati “non buoni”, come il lupo, la lontra e il castoro. Anche se, in tempi di carestia, tutto può andare. Napatchie Ashoona (Inuit), “A shaman transforming into a caribou”. Caribù Mi trovavo in un accampamento estivo degli Innu di Maliotenam, in Quebec. Una donna stava trafficando, su un bancone di lavoro, con un pezzo di carne di caribù. Separò dal resto una scapola, la ripulì e poi la gettò sui rami di un pino, appena dietro di lei. “Perché non se la prendano i cani”, disse. Si trattava, pensai, di un gesto minimo di sacri-ficio, nel senso di “render sacro”. I cani, portandola in giro e rosicchiando la scapola, avrebbero dissacrato lo spirito del caribù. La cura per le ossa di caribù è un gesto rituale che in queste zone attraversa i millenni. L’antica scapulimanzia Innu era praticata al tempo dei primi missionari. Frank Goldsmith Speck la descrisse minuziosamente all’inizio del Novecento, e altrettanto fece Adrian Tanner, nella seconda metà del secolo. Si fa passare una scapola di caribù sopra una fiammella, annerendola e arrostendola leggermente. Le macchie, le crepe e gli annerimenti formano un codice cifrato, o una mappa. La mappa del futuro territorio di caccia, dove altri caribù potranno essere trovati. Mentre gli sciamani Innu erano impegnati a decodificare le loro mappe d’osso annerito, gli antropologi si impegnarono a loro volta a decodificare il fenomeno. Negli anni sessanta l’antropologo Omar Kayaam Moore propose una curiosa interpretazione: si trattava a suo parere di dispositivi random. Le mappe/scapole innu, tracciando percorsi puramente casuali – secondo questo modello di spiegazione razionalistica – avrebbero indebolito le abitudini dei cacciatori a battere sempre determinati territori di caccia, aumentando così le possibilità di incontro con l’altra serie di eventi imprevedibili: i percorsi dei caribù (MOORE O. K. in VAYDA ed. 1969: 121-128). L’ipotesi è in sé interessante, presupponendo da una parte un antropologo in grado di capire e spiegare quello che realmente succede, dall’altra i nativi selvaggi che non sanno quello che fanno, anche se lo fanno bene. Vanno comunque considerati anche altri aspetti. La scapulimanzia è un rituale divinatorio molto antico: alcuni reperti conservati al Royal Ontario Museum di Toronto lo testimoniano nella Cina del 14° secolo a.C.. In secondo luogo, presso i gruppi amerindiani del subartico, la scapola di caribù non era la sola a essere utilizzata: scapole di porcospino, di lepre, l’osso pelvico del castoro, le scapole e l’osso del ginocchio dell’orso erano ugualmente utilizzate dagli Innu per la divinazione. Infine, in tempi più recenti Adrian Tanner ha osservato che i Cree del lago Mistassini, in Quebec, praticavano la scapulimanzia per sapere quando sarebbe arrivato l’aereo con i rifornimenti (TANNER A. 1979: 119). Spostandoci a ovest della Baia di Hudson, in area athapaska, troviamo altri complessi mitico-rituali legati al caribù. Il mito del Signore dei Caribù (e, più in generale, dei Signori della Selvaggina) è diffuso in tutta l’area subartica. La versione chipewayan fu raccolta da Kaj Birket-Smith negli anni venti. Il protagonista è figlio dell’unione tra una donna e un maschio di caribù, è dunque un essere per metà umano e per metà caribù. Vive parte della sua vita tra gli umani, ma essi lo maltrattano. Si reca dunque a vivere definitivamente tra i caribù. Continuerà però a mantenere rapporti con gli umani. Se chiamato con il rito sciamanico, manderà in dono i caribù ai cacciatori (BIRKET-SMITH K. 1930). I Cree della Baia di James concepiscono la caccia al caribù in modo molto particolare. Tutti gli animali sono per loro “persone” e il caribù, così importante per la sopravvivenza degli umani, è considerato miichim, “persona-cibo”. Il suo concedersi come cibo agli umani è considerato un atto d’amore. La caccia viene rappresentata come un gioco amoroso, fatto di atteggiamenti seduttivi e di “avances”. Il caribù fa le prime mosse, mostrandosi, palesandosi a poco a poco, e dunque è al cacciatore prendere l’iniziativa (PRESTON R.1975: 222). Questa forma di intimità tra il cacciatore e la sua preda, viene espressa dai Kutchin (o wich’in) dell’Alaska in termini di affinità interiore e mescolanza corporea: “ogni caribù”, dicono i Kutchin, “possiede dentro di sé un pezzetto di cuore umano. Ogni persona umana possiede dentro di sé un pezzetto di cuore di caribù” (SLOBODIN R. in HELM J. ed. 1981: 526). In Canada orientale ritroviamo, espresso in altre forme, lo stesso ordine di concetti. Presso i Cree del Quebec, nel mito “L’uomo che sposò la ragazza caribù” il giovane cacciatore protagonista vede una donna bellissima laddove i suoi compagni vedono una femmina di caribù. Ammaliato da questa sua visione, il cacciatore decide di sposare la ragazza-caribù. Andrà a vivere presso la sua famiglia, al villaggio dei caribù, e anche questi gli appariranno nelle sembianze di esseri umani (TANNER A.1979: 136). Le ricerche compiute da Tanner tra gli Innu del Quebec e del Labrador hanno fatto emergere le tracce di un antico e importante culto femminile legato al caribù. Il rito veniva compiuto durante una particolare notte d’inverno, nella quale una pelle di questo animale veniva preparata e decorata con tinte vegetali, e poi esposta – all’entrata della tenda – al primo raggio di sole dell’alba, come offerta allo spirito di Donna Caribù. La pelle poi veniva subito riavvolta e conservata con cura in un posto segreto (TANNER A. 1984: 91 e s.). Robert Davidson, “Salmon Transformation Mask”. Salmone Sulla spiritualità del salmone e sulla sacralità dei suoi luoghi di riproduzione si è creata una curiosa – e forse unica – forma di coincidenza culturale. Tanto che questi luoghi, siano essi lungo i fiumi che dall’Artico sfociano nel Pacifico o nell’Atlantico, vengono oggi chiamati ufficialmente “santuari”. Il salmone ha rappresentato una fondamentale risorsa alimentare per i popoli nativi canadesi, sia sul versante orientale, lungo gli affluenti del canale di San Lorenzo, sia sul versante occidentale, lungo il fiume Fraser, i salmoni hanno sempre saziato i popoli della Bassa Cordigliera alaskana. Le popolazioni della Costa di Nord Ovest, appena sotto il limite del subartico, si sono sedentarizzate – elaborando società complesse e stratificate – proprio in corrispondenza dei luoghi di risalita del salmone, che offrivano una costante e abbondante risorsa alimentare. I salmoni americani non hanno mangiato, come i loro parenti europei dei miti celtici e delle leggende gallesi, la nocciòla della conoscenza. Tuttavia, forme di cerimonialismo per i loro resti vengono osservate presso molti popoli nativi del subartico canadese. La preghiera ai salmoni dei Kwakiutl, raccolta da Franz Boas negli anni venti, sprizza di sincero entusiasmo, assieme a un profondo sentimento di rispetto per questo animale. Esempio di un’ideologia di caccia che innanzitutto esalta il dono che gli animali, con il loro nutrimento, portano agli umani. Un dono inseparabile dalla loro stessa benedizione (BOAS F. 1930: 206-207; COMBA E. ed. 2001): « Siamo venuti per incontrarti vivo, Nuotatore. Non pensare male di quello che ti ho fatto, amico Nuotatore, perché questo è il motivo per cui sei venuto, affinché io ti cogliessi con la fiocina, affinché io ti mangiassi, Essere Soprannaturale, tu, Donatore di Lunga Vita, tu Nuotatore. Ora proteggici, (me) e mia moglie, affinché possiamo rimanere in salute, affinché non vi siano difficoltà per noi nell’ottenere quello che desideriamo da te, Donna-Che-Produce-Ricchezze. Adesso chiama, dopo di te, tuo padre e tua madre e gli zii e le zie e i fratelli maggiori e le sorelle, che vengano anch’essi da me, voi Nuotatori, voi Saziatori. » Robert Davidson, “Beaver”, 1969. Castoro Le informazioni mancanti sul cerimonialismo del castoro nelle tradizioni native canadesi sono di per sé molto significative: il castoro ha seriamente rischiato l’estinzione, a causa di una caccia intensiva e mirata, attuata secondo un modello europeo e a profitto di un incipiente processo diglobalizzazione. La moda europea, nel 16° e 17° secolo, prevedeva copricapi di pelliccia di castoro,che sostituivano i vecchi cappelli di feltro. Fu questa una della ragioni principali che spinse i commercianti della Nouvelle France a inviare i propri voyageurs e coureurs de bois alla ricerca delle pregiate pellicce. L’incontro e la collaborazione pacifica tra cacciatori di pellicce francesi e nativi algonchini fece la storia della civilizzazione canadese (TRIGGER B. 1985; SPAGNA F. 2002). Il prezzo da pagare fu però caro. Le malattie portate dagli europei – soprattutto il vaiolo – alle quali gli indigeni non erano immunizzati, si diffusero lungo i corsi d’acqua, portate dagli animali, e sterminarono intere popolazioni. L’imposizione di un sistema di caccia basato sull’accumulo e sul profitto alterò irrimediabilmente gli ecosistemi naturali e le relazioni comunitarie tra i gruppi nativi. La pelliccia di castoro divenne, nel 18° secolo, una sorta di moneta locale. Con l’istituzione della Compagnia della Baia di Hudson inglese e poi della rivale americana North West Company la caccia al castori e agli altri animali da pelliccia assunse proporzioni industriali. Secondo fonti storiche, nei primi anni Venti dell’Ottocento lungo i fiumi Churchill e Nelson i castori erano estinti e gli altri animali da pelliccia quasi scomparsi ( MARTIN C. 1978; LEACOCK E. 1954). In precedenza, quando la caccia faceva ancora parte di un sistema integrato con l’ambiente, il castoro aveva un ruolo particolare. Dalle sue ghiandole si secerneva un particolare olio, che veniva cosparso sulle trappole per allontanare da esse l’odore umano e attirare gli animali. Con gli incisivi di castoro si fabbricavano raschietti per la concia delle pelli. Dalle poche e lacunose informazioni appare comunque che anche il castoro, prima del 17° secolo, era un animale fortemente spiritualizzato. Tra i reperti della cultura Blackduck – localizzata nella regione dei Grandi Laghi e del Manitoba meridionale, in un periodo, il Woodland terminale, corrispondente all’incirca al nostro Medioevo – vi sono amuleti di pietra a forma di castoro. L’antico cerimonialismo per il castoro può avere avuto un’intensità simile a quello per l’orso. Se si risale indietro con le fonti, si trovano notizie di crani di castoro appesi agli alberi, o di rituali compiuti sulla sua pelliccia. In un mito di fondazione della cerimonia della Tenda Tremante, tra i Cree orientali, troviamo un curioso passaggio relativo a una trasgressione alimentare compiuta dal protagonista, che aveva dato da mangiare carne di castoro ai suoi bambini, perdendo così la sua fortuna a caccia (FLANNERY R. – CHAMBERS M.E. 1985: 12-13). L’industriosità del castoro, la sua vita societaria e la sua intelligenza colpirono le menti dei nativi come quelle degli europei. Il castoro abita il suo ambiente, costruendosi ripari che rassomigliano a piccoli villaggi. La metafora umanizzante prodotta da questo animale è fortissima. Secondo un mito anishinabe, i castori discendono direttamente da un’antica famiglia indiana (BROWN J. –BRIGHTMAN R. 1988: 121). Secondo i Cree di Missinippi, i castori erano da considerarsi “più saggi” degli umani.. Molto interessante a questo proposito un mito Nez Percé, citato da Lévi Strauss (LÉVI STRAUSS C. 1993: 109-110), nel quale un castoro-trickster, come un piccolo Prometeo, ruba il fuoco: « Al tempo in cui gli animali e gli alberi parlavano, soltanto le Conifere possedevano il fuoco. Durante un inverno particolarmente rigido tutti gli esseri viventi rischiarono di morire di freddo. Mentre i Pini erano radunati attorno a un bel fuoco, Castoro ne rubò un tizzone e lo distribuì agli altri alberi. Da quella volta si poté fare il fuoco sfregando due pezzi di legno uno contro l’altro. » The American Beaver and his Works è il titolo di un’opera pubblicata nell’Ottocento dal celebre antropologo Lewis Henry Morgan, uno dei primi ricercatori sul terreno in area canadese (MORGAN L. H. [1868] 1970). Anche Alfred Irwing Hallowell, nel sua opera dedicata al cerimonialismo dell’orso, paragonò il livello di intelligenza del castoro a quello del grizzly, tra i più alti nella scala animale (HALLOWELL A. I. 1926: 149). Un racconto sullo spirito cannibale Windigo, che ho raccolto in una riserva anishinabe non distante dal lago Superiore riassume, significativamente, il tema dell’umanità del castoro con quello della umana follia: « Un tempo vi era un cacciatore particolarmente bravo a prendere castori. Riusciva a cacciarne in gran quantità. In realtà non faceva altro, nella vita, che uccidere castori, passava così tutto il suo tempo. Non parlava che di castori. Un giorno entrò nel suo villaggio e non vide esseri umani, ma castori. Vide una famiglia di castori in un villaggio di castori, e cominciò a ucciderli e a mangiarli. Era la sua famiglia che stava uccidendo e divorando. Era stato posseduto dal Windigo. » [cfr. MACULOTTI, La psicosi nella visione sciamanica degli Algonchini: Il Windigo e MOLLAR, Jack Fiddler, l’ultimo cacciatore di Wendigo] Abraham Anghik Ruben (Inuit), “Shaman Transforming into Polar Bear”. Orso Sugli aspetti umani dell’orso, sulla sua intelligenza e sul suo particolarissimo carattere, vi è – nelle tradizioni native del subartico canadese come in tutta l’area circumboreale – una sovrabbondanza di miti, leggende, simbologie, rappresentazioni le più svariate, canti, proverbi, indovinelli. Si dice che il grizzly sia in grado di escogitare astuzie per confondere i cacciatori, ripercorrendo a ritroso le sue stesse orme per poi attenderli al varco nascosto in un cespuglio. Sembra che l’orso polare sia consapevole del fatto che il suo naso nero risalta a distanza nelle bianche distese del pak, e dunque mentre caccia le foche ha l’accuratezza di coprirselo con una zampa. La capacità di mantenere a lungo la posizione eretta rende l’orso particolarmente affine agli umani, anche sul piano simbolico. Osservando l’interno delle tane degli orsi, si possono vedere giacigli preparati con cura, separati per il maschio e per la femmina. Si dice che la madre orsa, quando allatta i suoi cuccioli, emette un basso brontolio che assomiglia a una ninnananna. Tanto che alcuni, tra le mille derivazioni dalla radice indoeuropea bher, annoverano anche “berçeuse” (SHEPARD P. – SAUNDERS B. 1985). Il tema mitico della madre orsa è senza dubbio il più importante e fondamentale. La ricerche che ho compiuto sulle simbologie dell’orso – in particolare nell’America subartica e in generale in tutta l’area circumboreale – mi hanno portato a considerare la centralità degli elementi femminili in questo complesso mitico-rituale (SPAGNA F. 1998: 217-246). Molti studiosi di storia delle religioni, non senza fondamento si sono lasciati tentare a vedere nel culto circumboreale dell’orso una delle più antiche forme di religiosità elaborate da Homo Sapiens. Sulla venerazione dell’orso presso i Neanderthal e sull’esistenza di santuari per le ossa si è a lungo dibattuto. Le statuette devozionali della cultura Vinča, rinvenute nella ex-Yugoslavia, risalgono ad almeno 7000 anni fa (GIMBUTAS M. 1990: 116). Appendere il cranio dell’orso agli alberi, dipingerlo di ocra rossa, trattare ritualmente la pelliccia, le zampe, gli artigli i denti o gli organi interni, organizzare feste collettive durante le quali la carne dell’orso viene consumata ritualmente, o riti sciamanici di iniziazione centrati su simboli dell’orso, sono tutti tratti culturali diffusi tra i popoli nordici, dai Lapponi della Scandinavia agli Irochesi (HALLOWELL A. I. 1926). Lungo l’area subartica circumboreale sono individuabili almeno quattro distinti “centri” del culto dell’orso: uno in Siberia occidentale, nella terra dei Mansi-Shanti. Un secondo tra i popoli dell’estremo oriente siberiano e gli Ainu dell’isola di Hokkaido. Un terzo nell’area dello Yukon e della Costa di Nord Ovest, tra i Tlingit o gli Tsimsyan. Un quarto nell’area dello Scudo canadese e in particolare presso gli Anishinabe del lago Superiore. Sul piano mitico, il tema dei fanciulli rapiti e ospitati nella tana di un orso – considerabile come mito di fondazione del culto dell’orso – riunifica tutta l’area circumboreale in un unico complesso di varianti che si intrecciano e si sovrappongono. Nell’area dello Yukon è una ragazza che va in sposa a un orso, e sono predominanti i temi della femminilità e della maternità. Nella variante Tsimsyan, la protagonista viene accolta al villaggio degli orsi e preparata al matrimonio attraverso una cerimonia evidentemente iniziatica, nella quale le viene fatta indossare una pelliccia d’orso (MCCLELLAN C. 1973 – BARBEAU M. 1945). Nelle versioni del Canada orientale le capacità sciamaniche dell’orso sono molto in risalto. L’orso fa comparire cibo abbondante nella tana, oppure usa i suoi poteri per cancellare magicamente la memoria umana del ragazzo e sviare i tentativi compiuti dal padre per recuperarlo. Insegna al ragazzino elaborate istruzioni rituali, o gli lascia una sua zampa come amuleto. Tornato al suo villaggio, il protagonista diverrà un grande cacciatore, avendo ereditato dall’animale il potere sciamanico (BARRIAULT 1972; BARNOUW 1977; TANNER 1979; SCOTT C. 1993). Nelle cerimonie di iniziazione della Capanna di Medicina (Midewiwin), Orso è tra i principali spiriti tutelari. Le affinità rituali tra il culto circumboreale dell’orso e le cerimonie Midewiwin del lago Superiore saldano in modo indubitabile il complesso dei riti di caccia con quello sciamanico (SPAGNA F. 1998). Dalla taiga siberiana alle woodlands canadesi, sciamani orsi e orsi sciamani si scambiano continuamente le parti. Lontra Robert Davidson, “Otter”. A fianco dell’orso, a portare il dono sciamanico della Vita nella tradizione Midewiwin, appare la lontra. Con agilità ed eleganza, la lontra si muove indifferentemente sott’acqua e sulla terra. Integra dunque due mondi – terrestre e acquatico – di solito considerati in opposizione. Quest’agile e guizzante metafora ci porta un elemento nuovo: il gioco. La lontra è un animale molto giocoso, il suo latrato ricorda una allegra risata. Gli sciamani la hanno scelta a simbolo della gioia di vivere, della giocosità, della speranza di felicità e della continuità della vita nell’oltremondo (HARRISON J.1989: 90). Le borse di medicina ottenute con una intera pelliccia di lontra, finemente decorata e munita di sonagli, costituiscono il principale corredo iniziatico Midewiwin. Un mito di creazione Quando apparve il primo raggio di luce – raccontano i Cree – Madre Terra partorì i primi spiriti del mondo. Il primo figlio fu Biney-sih, l’Uccello Tuono. Appare come folgore nella sua eterna lotta con il Serpente delle Acque. Il secondo figlio fu Oma-ka-ki, il rospo. Aiuta con i sui poteri sciamanici gli altri animali. Il terzo figlio fu l’Uomo Soprannaturale – il trickster – Wi-sa-key-jak, con il potere di trasformarsi in qualsiasi cosa. Il quarto figlio fu Ma-hi-gan, il lupo, compagno del trickster. Compaiono in questo mito due esseri soprannaturali – la principale divinità celeste e il trickster – e due animali “comuni”. Sorprende il ruolo così importante attribuito al rospo. In realtà, anche in alcuni codici Midewiwin – pittografie su corteccia di betulla – appare il rospo come portatore di poteri sciamanici. Il lupo è fratello dell’uomo. La metafora dell’homo hominis lupus, per i popoli del subartico, è esattamente invertita. I lupi sono gregari, ma anche solitari, proprio come gli umani. Diversi miti sottolineano questo rapporto di fratellanza. Per gli Anishinabe, un tempo uomini e lupi vivevano insieme, poi si divisero: in mezzo rimase il cane. Il lupo, come l’uomo, è cacciatore. I Chipewayan vedevano il loro stile di vita – cacciatori di caribù – riflesso in quello dei lupi. Il lupo suscita teorie sulla rinascita: lupi che rinascono umani e umani che rinascono lupi. Il ritorno dei lupi nelle foreste canadesi è stato interpretato, da un leader spirituale anishinabe, come segno della recente ripresa di vigore delle comunità native americane. Abraham Anghik Ruben, “Shaman With Raven Helpers”. Corvo Il corvo, Dotson’, è il principale animale al quale i Koyukon dell’Alaska rivolgono le loro preghiere. Come l’aquila e molti altri uccelli, il corvo è aiutante sciamanico, e soprattutto messaggero. Nell’area alaskana – e su ambedue i versanti dello stretto di Bering – Corvo è il Trickster. Eroe culturale che crea, ricrea e trasforma il mondo. Ma anche spirito della contraddizione, “clown onnipotente, truffatore benevolo, buffone, divinità” (NELSON R. 1983: 17). Nel mito Koyukon del Furto del Sole, Corvo si trasforma in ago di pino, si fa inghiottire da una donna che lo partorisce in forma d’uomo. Abbastanza grande per giocare, va a srotolare la coperta nella quale il sole era stato nascosto, e così il mondo poté avere la luce. In conclusione, il tema della metamorfosi e della alterazione percettiva – caribù visti come donne, orsi visti come sposi e sciamani, parenti visti come castori – è sicuramente centrale nelle rappresentazioni di questi popoli. Metamorfosi che si coniuga alla visione sciamanica: la principale via spirituale dei popoli del subartico. Il tempo mitico – il tempo in cui gli animali erano umani e gli umani animali, in cui gli animali parlavano agli umani e gli umani agli animali – è un tempo vivente, che scorre al di sotto o intorno al tempo attuale. Esso è considerato, dai tradizionalisti nativi, più reale del tempo reale. È il tempo attuale, il tempo quotidiano e secolarizzato a essere, a loro parere, frutto di una distorsione percettiva. Il tempo mitico, per le culture del subartico, rappresenta il principale riferimento assiomatico: morale e valoriale. Le storie raccontate. Idee per una continua ridefinizione del posto dell’uomo nella natura? Bibliografia delle opere citate: BARBEAU Marius, 1945, Bear Mother, “Journal of American Folklore”, 59. BARNOUW Victor, 1977, Wisconsin Chippewa Myths & Tales and their Relation to Chippewa Life, University of Wisconsin Press, Madison. BARRIAULT Yvette, 1972, Mythes et rites chez les indien Montagnais, La Société Historique de laCôte Nord, Québec. BATESON Gregory, 1984 [1979], Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano [ed. orig. Mind and Nature. A Necessary Unity]. BIRKET-SMITH Kaj, 1930, Contributions to Chipewyan Ethnology. 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