Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

Depresión / Melancolía
Neurosis - Estrés
Ansiedad / Angustia
Miedos / Fobias
Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

domingo, 14 de diciembre de 2025

Semana 14 de diciembre: Para caer en la cuenta…


…y ver más allá. Porque la realidad no es lo que parece.

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*No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí compartidos. No todo es lo que parece.

Invicto Soli


Invicto Soli

Il presente scritto costituisce il primo capitolo di un singolare libro di un altrettanto singolare personaggio: L’Unità della Natura, uscito nel 1933 per la Biblioteca del Secolo Fascista, autore Evelino Leonardi, medico, scienziato, archeologo ed omeopata, nato a Gubbio, dove lo spirito di San Francesco aleggia sui luoghi e le persone, ed impegnato nella rivitalizzazione della “tradizione italica”. Stimato da D’Annunzio, che lo ospitò a Gardone, amico dell’artista siciliano Ruggero Musmeci Ferrari Bravo (autore, con lo pseudonimo Ignis, del dramma Rumon – Romae Sacrae origines); nonché sodale di Arturo Reghini e di Amedeo Armentano, con cui condivise per un lungo tratto il lavoro interiore, Leonardi – autore anche di uno studio su “Che cosa è il Fascio Littorio?” – partecipò ad alcune iniziative evoliane, come La Torre (I problemi delle origini, sul n. 10), ed il “Gruppo di Ur”, almeno con un contributo firmato Primo Sole: La virtù dei nomi e il simbolismo anatomico (Ur, II, n. 7-8, 1928). Fabrizio Giorgio ipotizza (su Studi Evoliani 2016) che Leonardi avrebbe suggerito ad Evola il nome da dare al Gruppo (“Ur”) da lui guidato nel lavoro pratico e teorico. E, rimanendo sul piano delle ipotesi (ardite), non sarebbe nemmeno da escludere che egli possa essere stato molto vicino a “colui” che celò la propria identità dietro lo pseudonimo Ekatlos..

*   *   *

 

In questi ultimi tempi, il Sole è tornato di moda!

E come siamo in un periodo di cui la caratteristica principale è l’utilitarismo, così gli uomini si volgono a lui per chiedergli di raddrizzare le ossa ai bambini rachitici o di dare i globuli rossi alle ragazze dismenorroiche!

Coi concetti meccanici predominanti, il Sole non è altro che un grande serbatoio di energia da cui si potrebbe trarre chi sa quanti cavalli di forza per correre un po’ più col treno o con l’automobile, o per azionare un grande opificio di tacchi per le scarpe.

Più in là non si va! Ed è già molto se alcuni uomini fra i migliori, salutino l’aurora quando scioglie i veli con le rosee dita sul cielo di rame o sentano nel cuore la malinconia nostalgica dell’ora del tramonto!

*   *   *

Per quei barbari (sic) dei nostri antichi invece, la eliolatria non solo era conforme alle loro dottrine scientifiche, ma anche alle tendenze politiche dell’epoca.

Presso i Romani, l’adorazione verso il Sole si fondeva con quella verso l’Imperatore, perché i Cesari discendevano dal Sole.

È ancora persistente il ricordo lontano dei grandi Sacerdoti-Re, di quella prima razza solare che, senza farla venire dall’Oriente, possiamo benissimo ricercarla sui nostri lidi tirrenici, come speriamo di poter dimostrare a suo tempo.

Al dio tutelare, Aureliano consacrò presso la via Flaminia un edificio colossale. Il Sole invincibile, diventa l’Imperatore Invitto che ne è la diretta emanazione. Come il Sole domina in cielo, così l’Imperatore domina in terra, con la Monarchia Universale.

Macrobio nei suoi Saturnali dice che tutte le divinità conducono a un solo
Essere Supremo
, considerato sotto diversi aspetti e nominato con nomi molteplici. I quali sono tutti equivalenti a Elios o Elos che rovesciato, diventa Sole.

Da una radice Sur che significa splendere, si ha in sanscrito Suria che significa Sole. E abbiamo nel nostro Soratte (Catone diceva Sauracte) il Monte del Sole, sacrum Phoebo Soracte, come dice Silio: e a Terracina, il tempio ad An-Sur il non spento, l’inestinguibile, il Sole.

*   *  *

Le testimonianze più dirette e più complete del Culto del Sole, sono quelle che ritroviamo nei misteri di Mytra.

Era costume figurarlo tra due fanciulli che erano la doppia incarnazione di lui stesso: cioè l’astro di cui il gallo annuncia la venuta mattutina, che dopo essere passato trionfante sul cielo a mezzogiorno, sparisce lentamente verso il tramonto. Si appresta cioè a ritornare fanciullo, come fa l’uomo vecchio vicino a morire. Le tre fasi principali dell’astro solare sono riportate alle tre fasi principali della vita umana e, in senso astronomico, l’analogia è ancora conservata. Perché il Sole entra nella costellazione del Toro in primavera, cresce in ardore nel cuore dell’estate, e attraverso lo Scorpione diminuisce incominciando l’inverno. Mytra si faceva nascere da una roccia e si chiamava il Dio sortito dalla pietra.

Due pastori avevano osservato staccarsi dalla massa rocciosa una forma umana, che portava una torcia che illuminava le tenebre.

Allora, adorando il Divino Fanciullo, i pastori erano venuti a offrire le primizie dei loro greggi e dei loro raccolti.

*   *   *

È naturale che come il Sole era il centro dell’osservazione dei sapienti, così dovesse essere il centro della venerazione degli uomini in un culto ragionevole e scientifico che accordava un posto predominante all’astro da cui dipende l’esistenza del nostro globo. I corpi celesti presso gli antichi erano stati sempre riguardati come esseri animati e divini. Lo stoicismo apportò nuovi argomenti in favore di questa opinione, mentre il pitagorismo e il neoplatonismo insistevano sul carattere sacro della luce che crea l’immagine presente del Dio intelligibile.

Le speculazioni filosofiche dei greci, dovevano risalire alla dogmatica speciale che ha per primi autori sacerdoti antichissimi, ai quali è conservato per noi il nome di Kaldei.

Per essi, il Sole occupa il quarto rango nella serie dei pianeti, posto in mezzo ad essi come un Re circondato dai sudditi principali (Basileus Elios). Regola il corso degli astri erranti e il suo globo incandescente, dotato di un potere alternativo di attrazione e repulsione, determina la marcia degli altri corpi Siderei.

Egli è dunque il Cuore del Mondo.

Questa teoria meccanica ha come un presentimento della gravitazione universale in un sistema eliocentrico che faceva del Sole la fonte della vita sulla terra. E il potere alternativo di attrazione e repulsione, corrisponde perfettamente a una sistole e a una diastole undecennale dei campi elettromagnetici delle macchie solari. Plinio chiamò il sole principale naturae regimen ac numen. Il Sole, luce intelligente, deve considerarsi come la ragione direttiva del mondo, mens mundi et temperantia (Cicerone). E per conseguenza questa ragione universale diventerà la creatrice della ragione umana, scintilla distaccata dai fuochi cosmici.

Come l’astro brillante conduce intorno a sé i pianeti, così muove gli uomini nel loro cammino sulla terra; e come manda al nascimento le anime nei corpi, così, dopo la morte, le richiama nel suo seno.

*   *   *

Quando l’uomo vuol conoscere il lontano passato, non può risalire indietro nel tempo oltre un certo limite prestabilito dalle leggi matematiche del ritmo solare: il quale, in cerchio più stretto, è quello stesso che regola la vita di ogni singolo individuo.

Così che la storia non può arrivare mai al di là di cinque o sei periodi che si dicono civiltà per una certa loro fisionomia predominante, che si confonde per altro ai margini, fra il periodo che tramonta e quello che sorge.

Venendo a mancare a un certo punto qualsiasi testimonianza e documentazione perché, come dice Sofocle: «ogni lungo e immemorabile tempo produce le cose oscure e nasconde quelle manifeste», quando vogliamo penetrare il profondo misticismo religioso degli antichi verso il Sole, quest’anima collettiva non ci può essere rivelata che dall’indagine di qualche fatto caratteristico. E infatti, tre fasi tipiche, separate da secoli, concordano su piani diversi, nell’adorazione pel Sole e sono personificate da tre uomini eccezionali che, pur avendo vissuto in condizioni di tempo e di luogo completamente diverse, furono presi, rispetto al Sole, da uno stesso movimento spirituale profondo e intenso, identico perfino nelle espressioni verbali della loro venerazione.

Il misterioso Re Egizio Akenaton, il grande Imperatore romano Flavio Giuliano e l’umile fraticello d’Assisi, ebbero una stessa visione del mondo, espressa in modi di pensiero e di azione che possono parere diversi solo per la diversità delle condizioni esteriori.

*   *   *

Al Messico come al Perù, in Egitto come in Grecia, si ritrovano simboli solari con somiglianze così sorprendenti da far pensare a una lontanissima origine comune, forse nella misteriosa e inarrivabile Atlantide.

La Eliopoli d’Egitto, la città del Sole, aveva viali di obelischi, dischi solari di oro puro, templi trapezoidali come quelli messicani e peruviani. Il culto del sole era il più antico dei culti egiziani: e dal manoscritto di Torino si apprende che al Sole era associata una lunga tradizione confusa ma tenace di rivolte, di incendi, di cataclismi. Dei quali, la mitologia ci ha conservato l’avventura di Fetonte, figlio del Sole, che volendo guidare, inesperto, il carro del padre avvicinatosi troppo alla terra, provocò un periodo di cataclismi disastrosi.

Ora, Akenaton, un Faraone unico nella storia d’Egitto, figlio di Amenophis III e di una principessa berbera dagli occhi celesti e dai capelli biondi, volle ristabilire il puro culto del dio solare Aton e restaurare il ritorno a usi e costumi antichissimi, di origine atlantica.

Il suo tentativo fallì di fronte alla onnipotenza dei collegi sacerdotali, quando il Faraone volle lasciare l’antica capitale Tebe per costruirne una nuova dedicata al Sole.

Salutava il Sole nascente con una processione sacra, cui partecipava tutta la Corte, e dalle alte terrazze alzando le mani gridava: «Abbiate timore del Signore!». Lasciò un inno al Sole che noi leggiamo tradotto da una lingua lontana, fonicamente diversa dalla nostra. Ma la parola risuona in ritmo col proprio tempo.

Il linguaggio è la veste sonora che il rombante telaio del tempo tesse all’Eterno (Goethe): e quindi le nostre stesse parole di oggi hanno un ritmo di risonanza con la nostra anima, nel solo momento in cui vengono pronunciate.

Poi il tempo corre veloce e con esso la nostra anima: oggi non è ieri e non sarà domani.

Tuttavia, quando le parole sono intonate al vasto ritmo solare che si ripete periodicamente, esse possono ritornare nel loro ambiente a distanza di secoli, anche se intanto esteriormente gli aspetti delle cose sono completamente cambiati.

Ecco la magia di certe parole che risuonano vastamente in eterno come speranze e verità che la tradizione, anche non sussidiata da grafici e da glosse, risuscita ogni tanto nei cuori degli uomini.

*   *   *

Quando sorgi all’orizzonte

riempi la terra della tua bellezza.

I tuoi raggi baciano le creature

tutti i viventi conquidi

e li stringi in un vincolo d’amore.

Tu sorgi e la terra s’illumina.

Mandi i tuoi raggi e la tenebra fugge.

Gli uomini si alzano,

stendono le mani e pregano.

Ogni animale si pasce al prato

ogni pianta verdeggia nei campi.

Gli uccelli volano sopra il nido

alzando le ali come braccia supplicanti.

Gira ogni moscerino

Ogni agnellino saltella.

Della tua vita s’animano o Signore.

I pesci danzano nell’acqua

i tuoi raggi vanno nel cuore del mare.

Tu formi il germe nel corpo della sposa.

Tu crei il seme nel corpo del marito.

Hai creato la terra secondo il tuo cuore

quando nessuna cosa esisteva nell’eternità

tutto ciò che cammina coi piedi in terra

e che vola con l’ali nell’aria.

Hai fatto i lontani cieli

per contemplare da essi il tuo creato.

Vieni, te ne vai, ritorni!

Da te solo crei, da te, Unico.

È la vita il tuo sorgere,

è la morte il tuo tramonto.

Tu sei, Padre, nel mio cuore

e nessuno ti conosce.

Ti conosco io solo, tuo figlio.

Così cantò Akenaton, Gioia del Sole.

*   *   *

In una fulgida aurora del giugno 363 di Cristo, nel piano di Maranga in Persia si spegnava sotto la tenda, l’imperatore Flavio Giuliano, a soli 32 anni. E della sua mirabile morte scrisse Libanio: «La scena era simile a quella della prigione di Socrate. I presenti parevano i discepoli che avevano circondato il Maestro. La ferita sostituiva il veleno. Eguali le parole, eguale l’impassibilità di Socrate e quella di Giuliano dinanzi alla morte.

Ferito sul campo da una freccia conficcatasi nella parte inferiore del torace destro, dopo essersi tolta da sé l’arma micidiale, chiamati intorno i generali e gli amici: «Già da tempo – disse – né mi vergogno di confessarlo, io sapevo, per via di una predizione, che mio destino era perire di ferro. Perciò ringrazio l’eterno Iddio che mi fa morire non di tradimento, non dopo le sofferenze di una lunga malattia, non per mano del carnefice, ma con questo fulgido trapasso, nella pienezza di una carriera gloriosa. La mia ora è venuta o compagni, forse troppo presto, ma da buon debitore, io sono lieto di rendere la mia vita alla Natura».

E agli amici piangenti ricordò il suo inno al Sole: «Dio Sole, Re dell’Universo: tu provieni dalle sostanze generatrici del bene. Brilli dall’eternità nel mezzo del cielo e lo riempi di tanti numi, quanti ne comprendi nella tua intelligenza. In virtù della tua continuità generativa e della potenza benefica emanata dal tuo corpo circolare, armonizzi la compagine di questa sede sub-lunare, prendendo cura di tutta la schiatta umana e in special modo di questo nostro Impero. Ancora una volta io supplico il Sole, Re del Tutto, per la devozione mia di essermi benevolo, di darmi una vita felice, un pensiero sicuro e, infine, al momento destinato, una liberazione tranquilla dalla vita.

Mi conceda Egli di ascendere e di restare presso di lui, possibilmente in eterno. E se ciò fosse superiore ai miei meriti, almeno per molti periodi di anni numerosi».

L’alba intanto montava sul cielo infocato di Persia. A uno a uno cantarono i galli degl’indovini etruschi al seguito dell’Imperatore. «Gioite uomini – mormorò Giuliano. – La morte è… il Sole. Oh! Elios prendimi: io sono come te!».

*   *   *

Il 3 ottobre 1226 nell’umile celletta della Porziuncola, Francesco d’Assisi rendeva lo spirito.

Ma prima di chiudere gli occhi alla luce, anche lui, volle salutare il sole che tramontava, mentre le allodole trillavano sopra la capanna e Jacopo dei Settesoli giungeva da Roma a portare la coltre funebre e la sua tenerezza. E i compagni piangenti intonarono con lui quel canto al Sole in cui Francesco aveva racchiuso il suo simbolo e il suo sentimento.

Laudato sia mio Signore con tutte le tue creature, specialmente per lo frate Sole: il quale giorna et illumina nui per lui: et ello è bello et radiante com grande splendore: de te Signore porta significazione.

Laudato sia mio Signore per suora luna e per le stelle: che in cielo hai formate chiare e belle.

Laudato sia mio Signore per frate vento et per l’aire et nuvole et sereno et ogni tempo: per le quali dai a tutte le creature sostentamento.

Laudato sia mio Signore per suor acqua: la quale molto è utile preciosa et casta.

Laudato sia mio Signore per frate fuoco: per lo quale tu alumini la nocte: et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato sia mio Signore per nostra madre Terra: la quale ne sostenta et governa: et produce diversi fructi et coloriti fiori et herba.

Questo vangelo d’amore predicato da Francesco, aveva sciolto il gelo nell’anima degli uomini. Correnti impetuose e fresche corsero sotto l’azzurro cielo dell’Umbria in nuove visioni di bellezza nei campi dell’arte, della poesia, della pietà umana.

Non era trascorso un secolo dalla morte di Francesco, che già Dante vedeva lo spirito glorioso di lui in quella radiante sfera Solare che Giuliano invocava per sé nello slancio della sua devozione.

Dai conventi sperduti fra i monti della verde Umbria, le mistiche leggende si diffondevano come un profumo soave, come un balsamo per il dolore diuturno della vita.

I sussurri degli ulivi agli zeffiri, le fresche acque cadenti, i colori dei fiori danzanti alla luce solare, i fuochi sparsi nelle campagne per la oscura notte, parlavano di nuovo ai cuori degli uomini, rilevando le bellezze del creato e l’essenza etica dell’universo. E sulle orme del dolce Maestro, Jacopone da Todi correndo con passione mistica il paese umbro, fra tanto sorriso di cielo e di terra, cantava con cantilena di stornello:

Voglio invitar tutto il mondo ad amare

Le valli e i monti e le genti a cantare

L’abisso e i cieli e tutte l’acque del mare

Che faccian versi davanti al mio amore.

  *   *   *

Può qualche mente estenuata e superficiale attribuire a inconsapevole panteismo ciò che è vincolo d’amore pel mezzo delle creature fra l’uomo e Dio e che non può non tradursi in giocondità e serenità di spirito nella contemplazione delle cose naturali.

«Il transito da un ordine all’altro nella vita dello spirito, non costituisce affatto una variazione della fede – dice Gioacchino da Fiore – perché là dove una perfezione universale succede ad una perfezione particolare, non ci può essere rammarico, né lotta, né resistenza».

Non esiste quindi alcuna irriverenza nel paragone fra tre uomini così diversi e così lontani fra loro.

I grandi maestri vivono immortali appunto perché il martirio della loro anima lento e macerante è costretto o sepolto dalle contingenze esteriori delle cose e delle incomprensioni dei contemporanei.

Un altro grande – Wolfango Goethe – al momento supremo, rese omaggio al Sole con due sole parole: «Più luce».

Perché è legge generale che l’ultimo bisogno del morente sia la luce, che è la trama su cui s’intesse la Vita.

Evelino Leonardi

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sábado, 13 de diciembre de 2025

Andreu Marfull: Ciudad Juárez, Capitalismo y la Frontera con EE.UU. | Análisis Geopolítico


¿Qué está sucediendo realmente en el norte de México? En esta conferencia exclusiva para Plural 21, el arquitecto, urbanista y profesor de la Universidad Autónoma de Ciudad Juárez, Andreu Marfull, nos ofrece un análisis crudo y revelador sobre la realidad de Ciudad Juárez, la frontera con El Paso (Texas) y las dinámicas del capitalismo global que perpetúan la desigualdad.

A lo largo de esta charla, Marfull desmonta la narrativa del "progreso" asociada a las maquiladoras y expone la "chinificación" de México: un proceso donde el país asume el rol de manufactura barata para Estados Unidos, sacrificando tejido social y medio ambiente. Analizamos cómo el sistema financiero y la especulación inmobiliaria han diseñado una ciudad fragmentada, donde conviven urbanizaciones amuralladas de lujo con asentamientos irregulares sin servicios básicos como pavimentación o alcantarillado.

Marfull no se limita al urbanismo; profundiza en la teoría marxista para explicar la acumulación del capital y cómo las crisis económicas (ajustes drásticos) son inherentes al sistema para reiniciar el ciclo de ganancia. Se aborda con valentía el tema de la violencia, los homicidios y la crisis migratoria, mostrando datos impactantes sobre la realidad que enfrentan miles de personas que intentan cruzar el Río Bravo.

Puntos clave que aprenderás en este video:
- 🏙️ Contrastes Fronterizos: La diferencia abismal entre el urbanismo de El Paso y el caos planificado de Juárez.
- 🏭 El Modelo Maquiladora: Cómo la inversión extranjera explota la mano de obra sin dejar riqueza real en la ciudad (falta de impuestos municipales).
- 💰 Teoría del Capital: Explicación didáctica sobre cómo funciona el "Monopoly" del capitalismo, la plusvalía y la creación de dinero ficticio (deuda).
- 🚧 Geopolítica Actual: El impacto de las amenazas arancelarias de Donald Trump y el futuro incierto del T-MEC.
- 🥀 Violencia y Sociedad: La relación entre la falta de planificación urbana, la pobreza extrema y el aumento de la delincuencia y el narcotráfico.

Desde Plural 21, buscamos la Verdad y la Identidad. Este video es una herramienta fundamental para entender que la pobreza y la violencia no son casualidades, sino consecuencias de un diseño económico global que necesita ser cuestionado.

Sobre el ponente: Andreu Marfull es profesor investigador de tiempo completo en la UACJ, especializado en planificación urbanística y desarrollo económico y social. Su visión crítica aporta una perspectiva única desde la experiencia de vivir entre Barcelona y la frontera mexicana.

Visitad el blog de Andreu Marfull en https://andreumarfull.com/

🔗 Conecta con Plural 21: Visita nuestra web: https://plural-21.org/ Suscríbete para más contenidos sobre Vida, Verdad, Libertad e Identidad.

#CiudadJuarez #Geopolitica #AndreuMarfull #Capitalismo #FronteraMexicoEEUU #Plural21 #UrbanismoCritico #EconomiaGlobal

Grabado el 25 de julio del 2025

00:00:00 Introducción y bienvenida de Plural 21
00:01:17 ¿Qué está pasando en Ciudad Juárez? Visión general
00:02:24 La Frontera: El Río Bravo, el muro y las alambradas
00:05:15 La "Chinificación" de México y la cadena de valor global
00:14:00 ¿Qué es el Capitalismo? El juego del Monopoly y la magia financiera
00:24:46 El fallo del sistema: La tendencia decreciente del beneficio
00:33:08 Ajustes drásticos: Crisis, guerras y cambios de paradigma
00:41:00 El Norte Global vs. Sur Global: Hegemonía y explotación
00:48:50 El factor Trump: Aranceles y el peligro para las maquiladoras
00:54:45 Urbanismo comparado: El orden de El Paso vs el caos de Juárez
01:03:25 La economía de la calle: Comercio informal y supervivencia
01:11:40 Asentamientos irregulares y la autoconstrucción
01:19:25 Historia industrial: Del algodón a la maquila global
01:27:35 Especulación inmobiliaria y falta de servicios públicos
01:35:27 La ciudad exclusiva: Muros y seguridad privada
01:36:45 Realidad social: Homicidios, pobreza y datos duros
01:45:00 Crisis migratoria y el papel de los albergues
01:50:30 Conclusiones: Vulnerabilidad y futuro de la frontera
01:58:50 Despedida

Recuerda que te puedes hacer socio de Plural 21 en https://plural-21.org/alta-nuevos-socios
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#Shorts Las armaduras de Kiribati


En la exposición “Voces del pacifico” hemos encontrado esta coraza o armadura curiosa.
Se trata de una armadura te otanga que simboliza la cultura isleña de Kiribati.
Dientes de tiburón y fibras de coco se integran en ella y reflejan la ingeniosidad y el talento de los guerreros kiribati.
Kiribati es una isla de la República del mismo nombre y que está formada por cuatro grupos de 33 pequeñas islas del Pacífico
Esta armadura se usaba generalmente cuando individuos o grupos se involucraban en disputas territoriales o reclamaban venganza. Los kiribati estaban acostumbrados a vivir con recursos limitados y consideraban inaceptable cualquier desperdicio. Acabar con la vida de alguien se consideraba un desperdicio de un recurso muy valioso. El propósito de la lucha era herir, no matar. El matar necesitaba una compensación, en ocasiones, se trataba de donar tierras.

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#arqueologia #egiptologia #cultura #historia

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Small Island, Big Impact


Dear Classical Wisdom Reader,

It is hard to imagine that such a stark, rocky little island could have held such importance, that it would feature so prominently in the history and mythology of ancient Greece. After all, like fish in the sea, there are countless islands scattered across the Aegean...many with lusher hilltops, more dramatic coastlines, and sweeping, cinematic vistas.

And yet this small, austere outcrop, barely capable of sustaining even the most modest population, stood at the very heart of antiquity. Delos was a linchpin of the ancient world, a keystone of the Hellenes, binding together a people otherwise dispersed across seas and shores.

Perhaps that is its magic, something miraculously still perceptible today. Even now, when crossing the narrow channel from the much larger and livelier Mykonos, Delos rises from the water like an inspiration, an idea made of stone. It makes the ancient proverb “singing as if sailing into Delos”, a phrase that once conveyed lighthearted joy and hopeful anticipation, feel strangely alive...

Despite its modest size (just 3.43 km² or 1.32 sq mi), Delos was revered long before Homer ever put stylus to papyrus. In his epic verse, he immortalized the island as the birthplace of the twin gods Apollo and Artemis. According to myth, their mother Leto, hounded relentlessly by the jealous Hera, found refuge only on this barren, floating island...one unanchored to the earth itself, and therefore beyond Hera’s reach.

In welcoming the divine birth, Delos was said to have been fixed in place forever, transformed from a drifting rock into sacred ground.

Latona (Leto) and Her Children, Apollo and Diana, by William Henry Rinehart, 1870. Source: Metropolitan Museum of Art

Such was its sanctity that centuries later, in the 6th century BC, the Athenian tyrant Pisistratus ordered all graves on the island to be exhumed and removed, an act intended to preserve Delos’s ritual purity.

This was no isolated event.

Time and again, the island was ritually “cleansed” of both the living and the dead, its population relocated elsewhere so that no birth or death would profane the sacred soil. And yet, despite these purges, Delos never faded into obscurity. Its central position in the Aegean, as well as in the collective imagination of the ancient world, ensured that its importance did not vanish, but rather evolved.

By the early 5th century BC, Delos had taken on a new role, no longer only mythical but unmistakably political.

In 478 BC, in the aftermath of the Persian Wars and the depredations of Cyrus and Darius, Delos became the meeting point of a powerful alliance: the Delian League. City-states from across the Greek world...from Rhodes and Karpathos in the south, to Byzantium and Samothrace in the north and east, and westward to the rising power of Athens...joined together in mutual defense against further Persian aggression.

Their shared treasury was housed on Delos itself, placed deliberately beside the sacred Temple of Apollo, where divine oversight and neutral ground were thought to guarantee fairness and trust. For a time, this rocky island functioned as both spiritual sanctuary and financial heart of the Greek world.

That balance did not last.

In 454 BC, the Athenian statesman Pericles ordered the treasury removed to Athens...along with all the funds it contained. The justification was security; the reality was power. Those resources soon transformed into marble and gold, financing Athens’s ambitious building program, most famously the Parthenon that still crowns the Acropolis today.

While modern visitors marvel at that magnificent monument, it is difficult to imagine that Athens’s allies were equally impressed. To them, Pericles’ act must have felt less like prudent stewardship and more like outright confiscation...and the result was predictable: trust fractured, tensions mounted, and before long the Greek world slid into the long and devastating conflict of the Peloponnesian War.

Thus Delos, once a drifting rock, then a divine birthplace, then the symbolic heart of an alliance, stands as a reminder of how myth, power, and geography can converge on even the smallest patch of land, shaping the course of history far beyond its shores.

Today, walking on Delos is to step into a rare silence. It’s an island emptied of life... yet incredibly dense with meaning. Indeed, there are few places where myth, politics, poetry, and stone align so precisely...

You do need to hold onto your hat however…

And to experience it in the company of Emily Wilson, whose translations have returned Homer’s voice to its original sharpness and humanity, is to see Delos not as a ruin, but as a living text. On our 2026 The Sea of Homer voyage, Delos is not an isolated stop but part of a carefully woven journey through the landscapes that shaped Greek thought itself. From Athens and Mycenae to Patmos, Ephesus, and Istanbul, each site illuminates another facet of the world that produced the Iliad and the Odyssey .

If Delos’ strange power entices you, then this voyage is for you. Join us July 1–13, 2026, for The Sea of Homer, and encounter Delos not as a footnote of history, but as it was always meant to be experienced: by sea, in company, and in dialogue with one of the great classical voices of our time.

Spaces are limited, so you must act fast:

Discover Delos

I hope you can join us!

All the best,

Anya Leonard

Founder and

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PARA DESCARGAR: Fichas Técnicas de propagación de especies vegetales andinas por INAIGEM (2025)


Título
Fichas Técnicas de propagación de especies vegetales andinas

Autora
Arroyo-Alfaro, Sandra Jackeline, & Calderon-Quispe, Fernando Harold

Año
2025

Editorial
Instituto Nacional de Investigación en Glaciares y Ecosistemas de Montaña (INAIGEM)

Referencia
Arroyo-Alfaro, S. J., & Calderon-Quispe, F. H. (2025). Fichas técnicas de propagación de
especies vegetales andinas [Folleto]. Instituto Nacional de Investigación en Glaciares y
Ecosistemas de Montaña (INAIGEM). (Web, publicación online).

Enlace de descarga:
Aquí.

Resumen

El documento Fichas técnicas de propagación de especies vegetales andinas presenta una recopilación de información científica elaborada por la Dirección de Investigación en Ecosistemas de Montaña (DIEM) del Instituto Nacional de Investigación en Glaciares y Ecosistemas de Montaña (INAIGEM). Su propósito es difundir conocimientos sobre los procesos de germinación, crecimiento y manejo de diversas especies altoandinas, tanto leñosas como herbáceas, con el fin de contribuir a la conservación y restauración ecológica de los ecosistemas de montaña. Cada ficha incluye datos sobre la clasificación taxonómica, descripción morfológica, distribución geográfica, usos, aspectos ecológicos, y resultados de ensayos de germinación realizados en laboratorios del INAIGEM.

Las fichas abarcan especies emblemáticas como Oreocallis grandiflora (chacpá), Puya raimondii (cuncush), Gynoxys caracensis, Gynoxys oleifolia, y varias gramíneas altoandinas (Bromus catharticus, Festuca fiebrigii, entre otras). El documento brinda recomendaciones técnicas para la propagación y el establecimiento de plántulas, considerando la importancia de las condiciones ambientales, los sustratos y los tratamientos pregerminativos adecuados. Este material constituye una herramienta valiosa para investigadores, comunidades locales y gestores ambientales interesados en la recuperación de ecosistemas y el manejo sostenible de la biodiversidad andina.

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Photos exclusives de la fête annuelle de la Confrérie Alawiya en 1924.


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Presentación de «El Black Metal como fenómeno espiritual: del nihilismo a la trascendencia», de Weltanschauung Italia


El libro interpreta el black metal como una vía espiritual invertida: una reacción a la desacralización moderna que, mediante negación, estética extrema y simbolismo arcaico, expresa un anhelo de trascendencia y una búsqueda de lo absoluto más allá de lo musical y subcultural.

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De Recolector a Abusador: La Caída de Valores hace 6.000 años, según Antonio Tagliati y Steve Taylor


Antonio Tagliati comenta las ideas del historiador Steve Taylor en su libro "La Caída". Según Taylor, hace unos 6.000 años , se observa un profundo cambio de valores en la humanidad.

La sociedad transitó de estar centrada en el respeto a la vida y la búsqueda continua de un cierto equilibrio a centrarse en el uso y después el abuso de la vida.

Este cambio conceptual vino acompañado de una transformación en la estructura social. Se pasó de pequeños pueblos de unas 100 personas que se nutrían del ambiente y la naturaleza, donde el pueblo no producía ni hacía agricultura, a un modelo donde el ser humano se volvió productor.

En la sociedad original, el hombre era recolector, entendiendo que el verdadero productor era la naturaleza misma, no la persona.

Visita nuestra web para más información holística y sobre Tagliati: https://www.plural-21.org

#AntonioTagliati #SteveTaylor #LaCaída #Plural21 #Historia

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Otras Miradas | Un recorrido por el Monasterio de Santo Domingo el Antiguo



 -          Es el monasterio más antiguo de la ciudad, las nueve pinturas realizadas por el Greco para su retablo, el primer encargo que recibió el cretense. Pero más allá de su patrimonio artístico, la verdadera riqueza son las siete monjas cistercienses que lo habitan, las que nos abren las puertas para recorrerlo junto a Laura García García-Tapetado. Hagamos ese recorrido con ellas. Vale la pena.

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viernes, 12 de diciembre de 2025

El dogma del discernimiento entre esencia y energía en la Iglesia Ortodoxa, según san Gregorio Palamás


  El dogma del discernimiento entre esencia y energía en la Iglesia Ortodoxa, según san Gregorio Palamás Por Basilio, Obispo de Trimizunta, Profesor de Teología.   Repasado 12/12/2025 San Gregorio Palamás en la historia y en el presente Actas de los Congresos Internacionales de Atenas 1998 y de Limasol de Chipre 1999 Editado por Santo …

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Tratado sobre el ser liberado


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Este tratado nace de un lugar donde nada se mueve, donde no hay pensamiento que iniciar ni palabra que sostener. Surge, paradójicamente, desde un silencio que no conoce autor, desde una claridad que no requiere esfuerzo. Lo que aquí se expresa no es doctrina, ni creencia, ni filosofía; es apenas un intento de apuntar hacia aquello que ya eres, antes de que aparezca cualquier idea de ti mismo. La indagación sobre el Ser no puede ser comprendida por la mente, porque la mente es precisamente el fenómeno que se disuelve cuando el Ser se reconoce a sí mismo. Sin embargo, mientras la...

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The Re-Birth of Venus


Dear Classical Wisdom Reader,

There’s only a handful of them.

Whether it’s the ambiguous smile of Mona Lisa, or the brush stroked skyline of Van Gogh’s Starry Night, some paintings transcend their origins and become part of our common cultural shorthand.

In the truest sense of the word, they are iconic.

And more than a few of them are inspired by the world of the Classics!

The image of a red-haired Aphrodite emerging on the shores of Cyprus in Botticelli's Birth of Venus is one such example.

So, as a bit of a follow up to our discussion of beauty earlier in the week, I thought it would be a good time to take a closer look at the origins of Aphrodite (or Venus to the Romans).

As the ancient Greeks’ embodiment of beauty, Aphrodite's has beginnings that are both mythic and historical.

It turns out, there’s more than meets the eye to this Greek goddess…

For one, strictly speaking, she's not Greek!

So read on below to discover the real birth of Venus, and how the ancient ideal of beauty is forever changing, and forever reborn…

All the best,

Sean Kelly

Managing Editor

Classical Wisdom


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The Rebirth of Venus

by Sean Kelly, Managing Editor, Classical Wisdom

What do we mean when we talk about the “origins” of Aphrodite?

There is, of course, the tales from mythology. A different type of ‘origin’, however, also exists – how various different cultures and similar, earler figures from other mythologies coalesced over time to create a distinctive and enduring member of the Greek pantheon.

What is surprising, however, is how the mythic and ‘real world’ origins are interlinked.

Aphrodite in Mythology

In the oft repeated tale from Greek mythology, Athena is said to have sprang fully formed from the head of Zeus. Such an immediate and complete actualization was not to be the case for her fellow Olympian, Aphrodite.

In mythology, Aphrodite was said to have been born when the Titan Kronos castrated his father Uranus and cast his genitals into the sea. Aphrodite then emerged from the foam at the place in the sea where it happened. Although common, this myth has come to be understood as a way of explaining Aphrodite’s unusual name – “Aphro” being Greek for “foam”. The similarity to the word foam is probably accidental, as “foam” has no relevance to Aphrodite’s worship.

What this suggests is that the similarity to the Greek word “Aphro” may have been accidental, and the story an attempt to explain it away. What this points to, then, is that unlike Athena (with a clear connection to the city of Athens), Aphrodite is not a goddess of Greek origin.

In fact, it appears that there is little Greek about Aphrodite.

The Birth of Venus by Sandro Botticelli

Aphrodite is most commonly identified in myth as originating from the east, and having her home at Paphos in Cyprus. Although there is a suggestion of her being foreign, it is clear within the context of Homer that Aphrodite is nevertheless understood to be a fully-fledged Greek god and member of Mount Olympus’ pantheon. This certainty can also be assured by references to the goddess in Hesiod, particularly the Theogony.

So, as one of the Olympian gods, it is clear that she had “arrived” in Greece by the time of the composition of Homer’s poems; she is referenced across the Epic cycle, not just in Homer but in tales such as that of the Judgement of Paris. Things start to become more complex, however, in Herodotus’ Histories.

The Judgement of Paris
The Judgement of Paris

Herodotus claims that the Paphian sanctuary of Aphrodite was not the original site of the goddess’ worship. He says that this sanctuary was preceded by a cult of Aphrodite in Ashkadon in the Southern Levant, and furthermore, that the Phoenicians brought the cult to Cyrprus. Pausanias takes us back a step further. He claims the cult originated among the Assyrians, who brought it to the Phoenicians, who, in turn, brought it to Cyprus.

The further we move forward with historical sources, the further back Aphrodite’s origin seems to stretch.

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These various disparate cultures that make up Aphrodite – both indigenous and foreign – reflect the “melting pot” nature of Cyprus, as a barrier between East and West. There are various theories on how these cultures came together, so that the goddess as we know her came to be.

Aphrodite’s Influences

The three most prominent theories are that Aphrodite was of eastern origin, and as such was an essentially Hellenized version of the goddess Ishtar. The second is that the real model and antecedent for Aphrodite was the famous Great Mother Goddess of Cyprus. The third, and most unconventional argument, is that Aphrodite was indeed initially an indigenous Greek god, that was subsequently “buried” under layers of foreign influence.

Ishtar
Ishtar

The first of these arguments is the most compelling. The eastern aspects of Aphrodite have always been emphasised. That the cult of Aphrodite would have it’s routes in the east would serve as a fascinating parallel to the Homeric assertion that the literal goddess herself originated in the east. Beyond the eastern origins, however, Aprhodite has undoubtedly a great connection with Cyprus. Indeed, she is so synonymous with Cyrpus that she is at times simply referred to as “the Cypriot.”

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When examining the origin of a female deity connected to Cyprus, one cannot leave the Mother Goddess unacknowledged. This however, brings us to a particular set of problems and debates regarding Aphrodite. Much of the Mother Goddess’ iconography centers upon fertility. The understanding of fertility in relation to the Mother Goddess in particular is not based particularly on human fertility, but rather extends to include crops and animals. It represents productivity and a good harvest. Aphrodite, on the other hand, is marked by emphasis on sexuality. The two elements, of course, have a connection, but the question of emphasis remains an important one.

The final argument remains controversial. It does however bring to bear one of the many complexities when looking into these origins. There is undoubtedly an element of mixture that occurs, and within that it may be difficult to identify the constituent elements.

Regardless of the specifics, centuries after this process could have been seen to have ended – and approximately two millennia after Homer and Hesiod showed us her “complete” form – the image of Aphrodite may still be influenced and altered in different ways. The goddess is reinvented time and again across various novels, TV shows, and films, and our cultural understanding of her shifts with them.

Much like how she is shown in perhaps her most famous interpretation, Botticelli’s painting, the Birth of Venus, the goddess perpetually exists in the moment of being born, and is forever new.

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INSULTAR ES ENSUCIAR


Con el paso del tiempo se ha ido imponiendo lo que podríamos llamar una “cultura del insulto”. En las redes, en los debates televisivos, en la política y, desgraciadamente en la calle y en la vida de cada día. Curiosamente, la mayoría de la gente parece no ser consciente de qué significa y de qué supone insultar.

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Insultar, ¡es tan fácil! El verbo “insultar” viene del insultare latino, que significa literalmente «saltar sobre» o «saltar contra» alguien. Originariamente, implicaba un ataque físico o militar, como «saltar encima» de alguien, y con el tiempo, esta imagen corporal se desplazó hacia el terreno del lenguaje.

El salto físico acabó siendo un salto simbólico: se trata de invadir el espacio del otro con palabras que hieren, de vulnerar su dignidad, de arremeter contra su valor como persona. De ahí que insultar mantenga, todavía hoy, la noción de agresión verbal: denigrar, ofender, rebajar.

A la misma familia etimológica de insultare pertenecen el verbo “asaltar” o el sustantivo “sobresalto”.

Pero insultar no es simplemente decir cosas desagradables. En términos profundos, es expulsar energía negativa hacia alguien, proyectar una carga de negatividad que busca reducirlo.

Esta idea se vuelve aún más clara en hebreo. El verbo insultar se expresa con Lekalel (לקלל), que también significa maldecir. Procede de la raíz Kalal (קלל), cuyo sentido primario es tener poco peso, ser ligero, trivial, carente de importancia. En el pensamiento antiguo, lo que no pesa no tiene consistencia, honor ni presencia. Por eso, Kalal no sólo describe algo liviano, sino algo rebajado, deshonrado, sin valor. Kal (קל) también quiere decir fácil; y es que ¡insultar es tan fácil! ¡Lo difícil es contar hasta 10 antes de abrir la boca!

Insultar, entonces, no es únicamente atacar verbalmente: es declarar que el otro “pesa poco”, que su dignidad es reducida o inexistente. Maldecir y despreciar comparten el mismo gesto semántico: convertir al otro en algo que no pesa, algo que no importa.

Por otra parte, Lashkol (לשקול), “pesar” comparte raíz con Shekel, que significa “peso” y se refiere a algo valioso como es una moneda.

En resumen, insultar es bastante más que reducir el valor o el peso del otro, es ensuciar su alma con una porquería propia que no deberíamos arrojar sobre él, sino recoger nosotros mismos como haríamos, por mero civismo, con los excrementos de nuestro perro.

Pero muchísima gente no se toma el esfuerzo de agacharse, y así vemos nuestras calles como las vemos.

JULI PERADEJORDI

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Mayéutica sobre la Conciencia


«Existe una vieja ilusión, la de querer acercarse al Absoluto con la ayuda de la mente, como si no hubiera entre la punta más fina del concepto y la Realidad una discontinuidad inconmensurable. Esta punta extrema del concepto, del símbolo doctrinal, lejos de tocar la Realidad, es como una aguja levantada contra el espacio ilimitado… La concepción teórica puede complicarse hasta el infinito en función de las intuiciones intelectuales: no es nada en comparación con lo Real. Pero esta meditación especulativa lo es todo para el hombre que, con la ayuda de la idea revelada, y mediante la asimilación de los aspectos más profundos de ésta, se pone en las disposiciones requeridas para que se cumpla el milagro de la intelección.»

Frithjof Schuon. «Perspectivas Espirituales y hechos humanos».

Todo amante de la Verdad busca como puede, desde esa chispa de Intelección que el Intelecto Divino depositó en su interior, como Luz de luces, el misterio de su existir.

Como decía Sir Arthur Eddington. “Ya por la búsqueda intelectual de la ciencia o por la búsqueda mística del espíritu, la luz hace señas y el propósito que brota adentro de nuestra naturaleza responde.”

Hoy quería caminar en estas líneas junto a la ciencia occidental, la que nació de la Filosofía, de la Metafísica y luego renunció a “su madre”, que hunde sus raíces en el Cielo y que por ello se perdió en la materia, en lo medible, pues renunció al principio metafísico que le daría validez gnoseológica. Incapaz durante siglos de abordar el milagro de la conciencia, su primacía. Poniendo su foco en la materia olvidando la dimensión espiritual de la realidad. Incapaz de entender la consiguiente inconmensurabilidad entre la subjetividad y la materia, ya fuera esta un grano de arena, o el majestuoso astro rey del sol de cada día, parece que desde hace unas décadas se vuelve al Misterio de los misterios y retoma desde la neurociencia la incógnita de la conciencia. ¿Qué o quién en nosotros sabe?

Con ese  lenguaje tan poco poético, que la caracteriza, frío, lógico y matemático, que dio origen al egregor de la Técnica, que diría Ellul, y a sus hijas las 3 terribles revoluciones industriales, sus guerras mundiales respectivas y la Cuarta revolución en ciernes,  tan contrarias a la Vida, hablan del “problema duro de la conciencia”.

Pero hoy no me quiero encerrar en mi postura crítica sino a acercarme con curiosidad a los últimos artículos sobre la conciencia, pero con esa prevención de que lo menor no puede explicar a lo mayor, sintetizando de alguna manera la cita con la que inicio. Con la prevención a esa retórica que se inició con libros  como “El Tao de la Física” de Fritjof Kapra, de que las conclusiones de la ciencia moderna son las mismas conclusiones que alcanzaron los Vedas, pues como decían los físicos creadores de la teoría rechazaban la idea de que la física y el misticismo describían los mismos fenómenos. Acaso una relación metafórica. Como diría, de nuevo Sir Arthur Eddington «Debemos sospechar una intención de que Dios sea reducido a un sistema de ecuaciones diferenciales.”

Si nos alejamos de la posiciones más cerebrocentristas, como en esta entrevista que realicé a Francisco J. Rubia en Ariadna Tv, de que la conciencia puede definirse por las estructuras y funciones en las que se expresa, como si la comprensión de un televisor pudiera explicar de dónde viene la película que proyecta. Este mecanicismo reduccionista del milagro de la vida está dando paso a nuevas aproximaciones como la del neurocientífico Giulio Tononi con su «teoría de información integrada», en la que  «la conciencia existe para sí misma y por sí misma. Así, debe tener causa y efecto en sí misma». Que parece coincidir con la explicación de la conciencia que dio Platón hace más de 2000 años, mejor dicho, con el término que más se le asemeja ‘psyché‘, «inteligencia», ‘nous‘ o «ser», ‘ousia‘ que para él era poder. Ese “brotar de las cosas” que diría Zubiri. O la propuesta desde la psicología transpersonal de que “la conciencia es ontológicamente primaria, no una propiedad emergente de los procesos neuronales, sino la realidad fundamental de la cual surgen la mente y la materia.” Integrando ideas de tradiciones espirituales no duales como Advaita Vedanta y el budismo tibetano, que proponen  cambiar el centro ontológico de la materia a la conciencia.

No es nada nuevo, está en todas las metafísicas tradicionales, pero como la ciencia ha pecado de una soberbia tremenda, relegando ese conocimiento a una época pre-lógica, mítica y demás lindezas reduccionistas, cree que ha descubierto América. Autores más recientes que Pármenides, Platón o Plotino ya lo explicaban magistralmente, como Titus Burkardt lo clamaba en el desierto de los académicos en su libro “Cosmología y ciencia moderna”.

El sujeto es la única garantía de la constante lógica del mundo; y que ese sujeto, a quien no debe entenderse sólo en su naturaleza relativa al yo, sino, antes bien, en su esencia espiritual, es el único testimonio de toda la realidad objetiva”.

Algo que cualquier meditador avezado puede comprobar por sí mismo. Las ciencias contemplativas han ido siempre a la búsqueda de esa pregunta de ¿Quién soy Yo? ¿Quién conoce en mí? ¿La identidad es un yo, un qué? ¿Es un ser, un sobre ser, una relación trinitaria, cosmoteándrica? ¿Un Principio, un Uno que acoge la multiplicidad, el Todo? ¿El Sujeto Absoluto es sólo real en función de su proyección sobre un objeto exterior, forma y vacío al unísono o como dice F. Schuon “Dios es Luz en Sí mismo, y no porque ilumine nuestras tinieblas; al contrario, Él ilumina las tinieblas porque es Luz en Sí; Él es Amor, no porque ama, sino que ama porque es Amor.”?

Como dice Albert Masdeu, en un debate que mantenemos en las redes: “Aquello que explica toda inteligibilidad no puede depender de la inteligibilidad que él mismo origina. El soporte común de todas las experiencias es un Sujeto único que no aparece entre los objetos porque es lo que permite que algo aparezca. Un yo empírico es un contenido; el Sujeto es la instancia que hace posibles los contenidos. Lo que cada individuo experimenta como “mi” conciencia es un modo particularizado, limitado, refractado, de esa conciencia.”

¿Quién soy yo? Se preguntaban los sabios de la India. Para conocer a Tu Señor has de conocerte a ti mismo dicen los sufís. En contraste la especulación racional moderna, que no verdadera filosofía, hija de la ilustración se pregunta en la deriva de un nihilismo que lo permea todo, como conciencia ¿Es ilusoria la conciencia como decía Hume. Una ilusión metafísica? Qué contraste con ¿Es el espejo en el que el fenómeno del mundo se revela? ¿Es la Conciencia ontológicamente primaria: la realidad fundamental de la que emergen la mente y la materia como decían los Vedas? ¿Lo divino es el resplandor de la luz de la Conciencia que irradia sobre los mundos conformándolos?

¿La matriz de la conciencia es la manifestación primera de la Divinidad que crea al ser humano para reconocerse a sí misma y superar su absoluta soledad ontológica? ¿La Unidad se hace multiplicidad para contemplarse en la realidad a través de la mente. ¿Ese Tesoro escondido que quiso ser conocido?

¿Conciencia y Vida son sinónimos, lo que está Vivo -que es uno de los Nombres de Dios en el Islam Al Hayy- es eso que permea a la piedra y al alma que transmigra? pero ¿la piedra sabe que no sabe, aunque emita, lata, en una frecuencia constante? O El que sabe sabe en todo.

¿La mente que dicen los vedas, que es solo materia y por tanto inconsciente, sabe que es un diamante donde se refracta la Conciencia Divina, en forma de Luz incolora, y ella la otorga una creatividad policrómica tal como el ojo hace con las ondas que percibe? ¿Sabe la mente que esa luz interna viene del núcleo más allá de ella? ¿Solo el iluminado o el despierto sabe que sabe y los demás estamos a oscuras aunque pasemos al otro lado de la muerte, como nos sucede en la mayoría de nuestros sueños, que no reconocemos la luz que crea todos los fenómenos oníricos?

¿Es la Conciencia la Luz de luces, la luz del alma, el núcleo verdadero de la personalidad? ¿Qué Luz tiene el hombre en este mundo cuando se apaga el sol, la luna, el fuego como preguntaba Janaka? La Voz, la palabra, es esa luz, dicen las Upanishads. ¿Es la conciencia la voz de Dios en el cosmos que dice a cada cosa sé, o es, cuando Su voz se apaga y solo queda la luz que antecede a la Palabra en el interior del corazón, que ilumina tanto la oscuridad como el silencio?

¿Es la conciencia su cálamo que escribe todos los versos existenciales del Universo con una tinta prodigiosa que se hace inteligible en el lienzo privilegiado del Hombre, y se hace visible en el lienzo milagroso del cosmos?

Mis preguntas siempre encuentran respuesta en el decir poético de las revelaciones, los textos inspirados. Según los vedas la mente es inconsciente, material, no espiritual, es un diamante que no brilla en la oscuridad, pero que al abrir una rendija de luz en esa habitación oscura, en cuyo un rayo de esa luz cae sobre él, que está en el centro, la luz blanca y neutra de esa conciencia se romperá en un haz del arcoirís que reflejará todos los colores. La mente hace esa función de reflejar la luz del Atman y mostrarnos la policromía del mundo, pero ella en sí misma no es luminosa, por eso identificarse con la mente cierra el paso a la verdadera identidad.

Es como el cerebro que interpreta las longitudes de onda de la luz que los objetos reflejan, en un mundo de ondas y partículas el diamante de la mente da de comer colores a la Conciencia divina para su deleite y el nuestro. Pero no somos el cerebro, no somos la mente solo, por diamantina que sea ha de ir más allá de ella misma, su inmanencia, reflejo del prodigio de quien todo lo crea, es a la vez su necesidad de trascendencia.

Somos la receptividad de la mente a  la Conciencia, el receptáculo y lo percibido en una amalgama relacional cosmoteándrica, una “interface”, un nódulo de conexiones, espíritu-materia, entre el decodificador del cerebro, la mente, el mundo a nuestro derredor, y la luz divina que lo manifiesta, y lo recrea en cada uno de forma única. No hay frontera, pero solo los locos y los sabios la difuminan.

Hay que morir a la identidad con la mente, con el arco y con sus flechas, religarlo todo a lo que antecede la creación misma, para sanar la esclavitud de la identidad contractuada. No hay que tirar el diamante sino pulirlo, pues a través de él se expande la conciencia iluminado el mundo “in divinis” y  la vez orienta a la psique hacia el infinito. Es como el signo del infinito, Conciencia, mente, Conciencia. Espíritu, psique, espíritu, en términos más cásicos. La ilaha Illa Allah, dirían los sufíes, no hay más realidad que lo Real, y la mente, las riendas del auriga, han de estar mantenidas firmemente por el corazón intelecto, pues en la parte de atrás está el Ser siendo toda esta historia de preguntas y respuestas.

Nos alegra que la ciencia esté girando al fin hacia el sujeto, que refleja al Único Sujeto, pero no es suficiente manejar teorías, hay que prácticarlas, y para eso no existe nada mejor que girarse hacia la Luz, estudiando las Ciencias Tradicionales olvidadas, la Metafísica denostada es la única que puede corregir este error de visión de quienes somos, y posee distintos caminos para prepararnos para ello, adentrarnos en la comprensión y vivencia de todas estas preguntas, que surge de ese silencio dorado, de esa nube del no saber, donde por obra del intellectus agens se abre la puerta del Paraíso, de la redención de la escisión, de la separación, donde uno por fin descansa en los brazos de Eso que nos deja balbuciendo, toda ciencia trascendiendo, donde todas las preguntas se hacen respuesta, pues Solo Dios basta, o si preferís, solo lo Real calma nuestra sed eterna de Verdad, Bondad y Belleza.

Beatriz Calvo Villoria

 

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Los libros ocultos moriscos


Un cómic para acercar a los más jóvenes a la historia intelectual, religiosa y cultural de los moriscos

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jueves, 11 de diciembre de 2025

#Shorts Los malangan de canoa


Estas esculturas de madera, llamadas "malangan" se colocaban en las canoas de Nueva Irlanda, Papúa Guinea.
Datados , aproximadamente, entre 1800 y 1900.
Están hechos de madera pintada.
Se presentaron en la exposición de Caixaforum, "Voces del Pacífico" y se conservan en el Museo Británico, de Londres.

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Va de coplas (y de afrancesados)


 

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Ahí va una entrada sobre nuestra copla; cada vez más nuestra según se incrementa el umbral de aculturación promovido por el globalismo hegemónico. Es lo que tiene vivir en tiempos crepusculares. Dos y dos nunca son cuatro. Hace unos días me encontré, casualmente, un librito de letras de copla. Literatura de gran valor en tanto el cancionero popular que es. En la copla el español de mediados del siglo XX queda retratado en su imaginario. Nuestros abuelos compartiéndonos la piel y chorreando vida por sus poros. La persona singular, desde lo más popular, respondiendo con su capacidad de vida a la ordenación y administración de la vida propia de los tiempos modernos. Se afirma la pasión desatada y la indomabilidad del espíritu. La pasión y la sangre vivificando la vida castigada. La vida afirmándose, incluso, en contextos extremos… Más allá de la copla una metareflexión; ¿hasta qué punto los españoles nos miramos desde ojos ajenos interpretando un guión que escinde a las elites del pueblo?.


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Las coplas, si las coplas. Las coplas de nuestros mayores radiografiándonos el alma. Las coplas que los menos jóvenes de hoy en día aun escuchábamos en nuestra niñez; toda una suerte que se nos brindó. La canción española que decían; memoria viva que fue. Mi padre, Marcelo Aguirre, en su juventud se dedicó al oficio de escritor y, de hecho, estrenó alguna obra de teatro además de escribir “El macetero”, el primer éxito de Antonio Molina. Eran los años difíciles de la todavía posguerra. La copla formando parte de la vida de los españoles y narrando los trabajos y los días, que dijera Hesíodo. Miguel de Molina, el gran maltratado, cantando La bien pagá “nada te debo, nada te pido/me voy de tu vera/olvídame ya); la letra, de una dureza extrema, nos narra cómo un señorito se despide de su querida, prostituta y chica de compañía a la antigua usanza.  Estrellita Castro, memorable en “Suspiros de España”, un cante sobre la emigración española con las lágrimas en los ojos. Concha Piquer, la más grande, vibren con “Ojos negros”, muy pocas coplas pueden compararse a su compás y a su derroche de pasión narrando la visita a una mancebía (burdel); el contexto prostibular no hurta al encuentro sexual la pasión transformándose en amor de sangre y fuego; la sangre bien caliente afirmándose incluso ad inferos –“ven tu tomalá en mis labios/que yo fuego te daré… Ojos verdes, verdes/con brillo de facas/que se han clavaito en mi corazón”… Para mi no hay soles luceros ni luna//no hay más que unos ojos que mi vida son-. La Niña de la Puebla cantando el amor tan delicadamente pero chorreando pasión en “Los campanilleros”. Juanita Reina divisando el toreo con el más encendido corazón en la copla “Francisco Alegre”…

He de reconocer que la mayor parte de las siguientes generaciones de intérpretes de copla me interesan poco, básicamente por una cuestión de contexto, aunque ahí les dejo la magnífica interpretación que Amparo Soler hace de “Cántame un pasodoble español”, luciendo una voz de excepción. Entre las nuevos voces que se han adentrado en la copla destaca la catalana María Rodés. No se pierdan a la indie Rodés en una versión muy al día de la copla de toda la vida. Se deja de lado la voz de poderío y clara de tantas coplistas para encontrarnos con una voz singular que nos arrulla y mece hasta los mismos tuétanos. Extraordinario el trabajo de la Rodés.

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También hay a quien no le gustan las coplas. Los más bobos del lugar, que los hay, la asocian burlonamente con el franquismo sin darse cuenta que coplas eran lo que cantaban los soldados republicanos en el frente. En tal sentido no dejen de ver la fabulosa escena de la película “Soldados de Salamina” de David Trueba que lleva al cine la novela del mismo nombre de Javier Cercas y que elabora lo narrado por el escritor falangista Sánchez Mazas sobre su fusilamiento fallido. La escena se remite a un hecho concreto. Un joven miliciano anarquista, dirigiéndose ya hacia la frontera francesa tras la derrota republicana en El Ebro y ante la inminencia del exilio, se arranca cantando bajo la lluvia “Suspiros de España” mientras canta y baila abrazado a su propio fusil. Los prisioneros custodiados, los compañeros milicianos; todos se unen festivamente ante algo tierno, aéreo, desolado y bello… Dejando España y suspirando por ella de la mano de la Castro¡Ay de mi!, como dice la letra de la copla.

En esta anécdota constatamos con nitidez cómo operaba la copla, ese canto que aquilataba el sentir de tantos españoles; dejando ir las pasiones y sublimando dolores, elaborando el desgarro desde una narrativa y un son entregado a la supervivencia. Así era la copla, capaz de bajar al sótano para volver vestida de un cante no necesariamente alegre pero si de fuste y tronío; en plena guerra civil, en la dura posguerra. Por eso, acertó tanto el gran Basilio Martin Patino en “Canciones para después de una guerra”. La copla ayudando -y no poco- a sublimar la dureza de la posguerra; la dureza de la derrota y, también, la dureza que afrontó el vencedor. No olviden que en una guerra civil todos pierden hasta el punto de encontrarnos en una derrota compartida. En su imprescindible película Patino nos va mostrando las imágenes y secuencias más cotidianas y la copla las va acunando. Véanla en pantalla grande abriéndose a la copla y a la narrativa visual de esa España de posguerra para sentir la dureza y la capacidad de sublimación de un pueblo herido por el destino.

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Luego están a los que no les gusta la copla por recrear eso que, tan perversamente, atrajo a los viajeros románticos franceses del XIX y que, siendo una periferia folklórica marginal, convirtieron en nuestra imagen de país; lo que asumió sin mayores problemas una burguesía afrancesada y distante de lo popular. Probablemente se haya abusado de la imagen de lo folklórico; el propio Estado Español para atraer el turismo lo hizo acaso con exceso. Todos -o casi todos- sabíamos que tirar tanto de lo folklórico saturaba; especialmente a los más letrados y de ciudad. Por su parte el Estado lo tenía claro: llenarlo todo de turistas dejándose los dineros. La ecuación funcionaba. Eran los años sesenta y setenta del pasado siglo. La copla ya estaba de capa caída y los españoles se abrían sin demasiado criterio a una conciencia globalizada.

Por lo demás, la España que recreaban esos viajeros románticos, generalmente franceses, buscando el exotismo y la disonancia respecto de su país de origen, la encontraron en determinadas figuras marginales convertidas por ellos mismos en esa imagen de país; la maja, el torero, el chulo de capa, la puta de verbena, la folklórica, el bandolero, el buhonero, el vendedor de feria ambulante, el señorito perverso jugando a las cartas en los bares de los bajos fondos… Un imaginario asumido por la aristocracia cortesana borbónica y la burguesía emergente, incluso por la propia corona mirando al pueblo desde su monóculo. Un excelente libro “El torero: Héroe literario” de Alberto Gonzalez Troyano nos desvela ese proceso en el que lo popular, en el imaginario, quedará asumido desde lo marginal y lo disonante por una aristocracia y una burguesía afrancesadas -también por los intelectuales-. Tal proceso habría quedado servido por la llegada de los borbones y de la mano de la gran difusión internacional de la cultura francesa en el XVIII. La resultante fue una cultura que vivía como natural la escisión entre el pueblo y sus élites afrancesadas además de empujarnos a entendernos desde ojos ajenos.

Los alemanes se sacudieron la influencia cultural francesa a finales del XVIII y para ello se miraron, entre otras instancias, en la cultura española del Siglo de Oro. Lo que sacó del olvido un momento decisivo de nuestra historia olvidado por los propios españoles.  La cultura española del XVIII, tan afrancesada, no dio de sí tal capacidad de reacción ni se planteó la más mínima reserva crítica respecto de ese imaginario afrancesado.

En todas esas figuras conjuradas por los viajeros románticos la pasión más desbordada desplazaba a la racionalidad y el cálculo en la gestión de las cuestiones personales; lo que dejaba paso a una cierta brutalidad encendida de manta en hombro protegiendo el cuerpo como escudo y faca al aire saliendo de la funda; lo que podía alcanzar, incluso, un duelo al sol de amanecida tras el malevaje noctívago. España como la aventura perversa de esos viajeros románticos franceses traspasando ciertos umbrales... Recuerden la “Carmen” de Bizet. Aun resonaba en la memoria del compositor francés la dureza extrema de las guerras napoleónicas desangrando los ejércitos franceses en un entorno que gustaba mirarse desde el exotismo, la visceralidad emocional y la disonancia.

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A todo esto, lo que terminaría cuajando como flamenco se cantaba a raudales en toda esa marginalidad social. Ese flamenco al que la sociedad bienpensante se fue acercando tan poco a poco… Todo un debate el del origen del flamenco. La hipótesis de su origen gitano pierde fuelle al contrastarse que los gitanos de fuera de España no presentan un perfil musical parangonable. De un modo o de otro, el flamenco; música de los márgenes, de gente errante. La gente de las caravanas que recorrían la península yendo a las ferias de ganado, tratando con caballos o reses y vendiendo de todo un poco; gitanos, mercheros... También música del pueblo llano que se metía en las minas a extraer el carbón y otros minerales en las serranías murcianas y andaluzas. Aun se homenajea el cante de las minas en el festival anual de La Unión. Músicas que surgían de la piel y del sudor amargo del pueblo más olvidado, de las clases y sectores sociales más marginales y periféricos. Ese sector de la población al que el desarrollo de la sociedad industrial arrinconó más allá de todo margen. Cantares del alma cuajando en joyas como las del cante hondo o la copla; el alma operando como atanor y destilando sus figuras... Esa mirada afrancesada miraba al pueblo atendiendo a sus sectores más marginales; y estos, dando una lección, nos legaron su genio…

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No nos mintamos. El rechazo que suscitan en algunos estas artes, en realidad, es por su perfil salvajemente popular. Si, salvajemente; salvajes por vivas. Lo vemos en las letras de las coplas saturadas de emociones extremas, de amores desgarrados e imposibles… Las “Cartas Marruecas” de Cadalso esbozaron el patrón del rechazo que el afrancesado siente por su propio país en sintonía plena con los ojos de la enciclopedia parisina; lo que, dicho sea de paso, nos deja en pésimo lugar y es que los enciclopedistas si denostaban un país era España. Había que pasar factura al viejo Imperio que acaso, más allá de luces y sombras, había postulado una modernidad alternativa… El resultado: esa mirada tóxica hacia el pueblo por parte de unos afrancesados desmemoriados y desarraigados además de cargados con un énfasis crítico, muy pasado de revoluciones, que desnortaba cualquier regeneracionismo imaginable…La España del progreso y los intelectuales traicionando al pueblo. Paralelamente, la reacción política monopolizándo la apelación a toda traditio desde su tradicionalismo desgastado. Las dos Españas… Menudo sambenito y menuda disyuntiva de pesadilla. Ya lo sentenció Machado. Por cierto, no se si recuerdan a ese primer ministro de Carlos III, Esquilache, que quería obligar a los españoles, por ley, a quitarse la capa y a vestirse como franceses -literal-. La España progresista le dedicó una elogiosa y delirante película… Pasan los siglos y no nos libramos de esa mirada envenenada ni de sus hondas repercusiones. Es lo que tiene mirarse desde ojos ajenos.

Finalmente haber leído un libro de coplas, de sus letras, según leía en paralelo a los románticos del XIX -recuérdese el tema de la anterior entrada- me dejaba claro lo extremadamente románticas que podrían sonarnos esas letras no muy distantes a la sensibilidad del Sturm und Drung, eso si, en clave completamente popular y más allá de refinamiento alguno. En su tonos y en su sensibilidad quedara dicha una poderosa resistencia al proceso racionalización que promueven los tiempos modernos; la verdad vivida de las pasiones, saber desbocarse, salir de si, del guion que se nos asignó, fracturar lo bienpensante, atender los amores imposibles… Lo dicho no deja de suscitarme una reflexión sobre las alcobas en las que se refugia lo humano en los procesos de programación y modelización existencial que la modernidad implementa. Sientan y vivan nos dicen los coplistas, a la sazón escritores de alto nivel no siempre reconocidos en su verdadera valía. Piénsese en las letras de Rafael de León, o las de Valverde, Ochaita o Sodano. En fin, de la copla beban su vino de vida desatada…

La copla como escuela del vivir, como catarsis de las pasiones llevadas al extremo y, en tal medida, indicándonos una vereda: la de la vida misma. En sus letras y en los sentimientos a los que empujaba su música, la sociedad se miraba en un espejo y los sentires maduraban y encontraban sus quilates. No olviden vivir, no olviden la pasión, nos dicen las coplas. Leyéndolas me venía a la cabeza la reflexión griega sobre la tragedia. No diré que las coplas compartan una mentalidad trágica -muchas si- aunque lo cierto es que desgranan el sentimiento desatado y a veces descarriado arremolinándose en las venas. Invitan a una catarsis y a una toma de conciencia, educan, en suma, en el magisterio del corazón bullente y la aventura sentida bien lejos del programado y aséptico modo de vida promovido en la era de la razón. Muestran veredas excesivas que, indicando la vida desgranada, al tiempo, alertan de excesos reclamando medida para la vida vivida. Como telón de fondo, la programación creciente y el frío diseño de las existencias en el tiempo de la administración de la vida. La copla como línea de fuga que empuja a vivir siendo recibida intravenosamente por el gentío, y como respuesta sublime de un pueblo maltratado tanto por esos viajeros románticos que le retrataron como por las clases pudientes que asimilaron ese retrato distorsionado.


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