(nell’immagine: Gunther Hans Friedrich Karl, “The Religious Attitudes of the Indo-Europeans”. Note sparse su origini e posizione della nostra famiglia etnolinguistica nel quadro della storia tradizionale. Riassunto della conferenza svoltasi in data venerdì 27 gennaio 2017 presso Trieste. In apertura di conferenza, è stata rapidamente tratteggiata la distribuzione geografica indoeuropea (dal Bengala all’Islanda), i suoi sotto gruppi (romanzo, germanico, celtico, slavo, indoiranico…) e la differenza con le popolazioni europee non appartenenti alla nostra famiglia etnolinguistica (Baschi, Maltesi, Uralici vari, Caucasici…). Rapidi accenni alle ricerche della prima indoeuropeistica (William Jones, Fratelli Schegel, Franz Bopp…) e alla progressiva definizione di una chiara entità unitaria, collegata anche ad aspetti di ordine spirituale/culturale (la tripartizione sacrale delineata da Georges Dumezil, le ricerche di Emile Benveniste, le tre caste Arya in india) con la ricostruzione di una lingua protoindoeuropea originaria (Ursprache) a suo tempo necessariamente parlata da un popolo coeso (Urvolk), che deve essersi enucleato in una patria specifica (Urheimat). Sulla base dell’iniziale importanza attribuita al Sanscrito, questa culla iniziale proto-indoeuropea venne dapprima collocata in prossimità dell’area indiana, localizzazione che poi fu progressivamente spostata verso occidente in una discussione che dura, e non accenna ad esaurirsi, ormai da un secolo e mezzo. Tra le tante ipotesi formulate, di particolare rilievo per il dibattito stimolato sono sembrate quella “kurganica” di Gordon Childe/Marija Gimbutas (patria originaria del V millennio a.c. nelle steppe della Russia meridionale con popolazione nomadica delle steppe), quella “anatolica” di Colin Renfrew (nucleo primario dell’VIII millennio a.c. nell’attuale Turchia con popolazione neolitica ed economia agricola) e quella “continuista” di Mario Alinei (coincidenza dell’indoeuropeizzazione del continente con la prima colonizzazione umana di almeno 40.000 anni fa). Quest’ultima teoria, pur da respingere nella sua accettazione, di fondo, della teoria “Out of Africa” (origine di Homo Sapiens in Africa e sua successiva diffusione planetaria), presenta peraltro l’aspetto interessante di retrodatare in tempi paleolitici l’età della nostra famiglia etnolinguistica, orizzonte cronologico utilizzato – o, quanto meno, non escluso a priori – anche da diversi altri studiosi (Sera, Devoto, Durante, Obermaier, Kuhn, Kossinna, Georgiev…). Trattasi di un’impostazione tutto sommato in buon accordo con le più recenti acquisizioni della paleogenetica che evidenzierebbero una netta preponderanza, nell’attuale genoma europeo, dell’eredità paleolitica rispetto a quella neolitica più recente, e ben integrabili con le ipotesi (Marek Zvelebil) di una diffusione dell’economia agricola attraverso modalità soprattutto culturali, da parte di popolazioni autoctone europee, piuttosto che demografiche, per mezzo di colonizzatori provenienti da zone calde a bassa latitudine. Aspetto geografico, quest’ultimo, che trova un ulteriore ostacolo nel rilievo (Marcello Durante, Giacomo Devoto) di come concetti e parole legati alla neve, all’inverno ed al freddo trovino espressioni molto simili nelle varie lingue indoeuropee, ad indizio di una probabile Patria primordiale collocata a latitudini ben più elevate di quelle anatoliche. La stessa probabile collocazione del protoindoeuropeo in macro-famiglie di più ampio respiro (il “Protoboreale” di Andreev, o l’ “Eurasiatico” di Greenberg) o comunque la presenza di connessioni linguistiche non trascurabili con gruppi geograficamente nordici come l’Eschimese (Uhlenbeck) o l’Uralico (Koppen) appaiono altamente indicativi. Proprio in relazione a quest’ultima ipotesi, e ad una molto probabile prossimità della protopatria indoeuropea con quella uralica (che, al contrario della nostra, viene dai linguisti collocata abbastanza sicuramente nelle stesse aree attualmente occupate dalle relative popolazioni), non sembra azzardata l’ipotesi di una Urheimat ariana localizzata nei pressi del Mar di Barents e del relativo “anfiteatro” circostante (sponde russo-settentrionali/bacino del Pechora, Novaja Zemlja, Terra di Francesco Giuseppe, Svalbard, Capo Nord, penisola di Kola): quadrante che a suo tempo godette, come tutto il Mar Glaciale Artico, di condizioni climatiche migliori delle attuali (analisi di Saks, Belov, Lapina) e non risulta sia mai stato occupato dalla calotta glaciale wurmiana in quanto pare assodato che lo “scudo scandinavo” non sia mai arrivato ad unirsi ai ghiacciai, più ridotti, delle penisole siberiane di Jamal e Tajmyr. In tale quadro, rivestono particolare interesse i reperti rinvenuti da Valerij Diomin nella penisola di Kola, risalenti a circa 20.000 anni fa. Si tratta di evidenze in chiaro accordo con le analisi di carattere più mitico/sacrale elaborate da Bal Gangadhar Tilak il quale, nella sua principale opera “La dimora artica nei Veda”, ipotizza un’origine nettamente boreale della Tradizione Indù, sulla base di passaggi vedici di carattere astronomico spiegabili in modo soddisfacente (il movimento della volta celeste paragonata a quello di un ombrello sopra la testa; lo sviluppo molto prolungato e dalla dinamica “rotante” delle Ushas, le albe vediche…) solo da un punto di osservazione collocato a nord del Circolo Polare Artico. Ma anche in altre tradizioni indoeuropee sono presenti elementi simili: in quella iranica ad esempio si cita l’Airyanem Vaejo, “culla degli Ariani”, terra contraddistinta da 7 mesi di inverno e 5 d’estate, nonché l’Avesta equipara un anno umano a un giorno divino (nel senso di un’alternanza luce/oscurità di 6 mesi ciascuno), mentre nella Tradizione Ellenica vi è il mito di Persefone che analogamente ripropone l’alternanza inverno/estate dividendo semestralmente la sua presenza tra l’Ade sotterraneo e la madre Demetra. Va detto che il mondo tradizionalista, che di questi Miti arcaici è ovviamente attento esploratore, ha tuttavia registrato, in merito al tema indoeuropeo, una netta divaricazione di vedute tra Julius Evola (che ha sempre collocato gli Arioeuropei al centro delle sue analisi storico-tradizionali ed ha ampiamente fatto riferimento a ricercatori quali, ad esempio, Herman Wirth) e Renè Guenon (che invece li ha sempre considerati nulla più che una mera astrazione di alcuni eruditi indoeuropeisti della scuola glottologica germanica): valutazioni, queste ultime, che sembrano francamente eccessive anche alla luce di più di un secolo di seria ricerca linguistico-archeologica, ma che in ogni caso non impediscono di riprendere dallo stesso Guenon alcuni concetti comunque utili per una più precisa collocazione, in termini temporali, dell’etnogenesi ariana. Bisogna preliminarmente ricordare che il francese, nelle sue analisi di carattere storico, si rifà al concetto indù di Manvantara – ciclo globale di un’umanità con durata di circa 65.000 anni – a sua volta suddiviso in 4 Yuga (Satya, Treta, Dvapara e Kali Yuga, ciascuno di durata decrescente nella misura 4-3-2-1) oppure anche in 5 Grandi Anni (ciascuno, invece, di ampiezza uguale e pari a circa 13.000 anni, ovvero la metà di un ciclo precessionale completo); quest’ultima suddivisione sembrerebbe più coerente con le indicazioni del greco Esiodo, che infatti segnala anch’egli 5 Età: Oro, Argento, Bronzo, Eroi, Ferro. Ebbene, anche se non tratta praticamente mai degli Indoeuropei, Guenon ricorda comunque con una certa frequenza il tema delle origini iperboree della presente umanità, nel suo momento aurorale all’inizio del nostro Manvantara (ovvero circa 65.000 anni fa, dal momento che quelli attuali sembrerebbero i tempi finali del Kali Yuga, dopo il quale dovrebbe verificarsi una netta cesura cosmologica ed iniziare un nuovo Manvantara, con una nuova umanità); tali riferimenti guenoniani di carattere nordico, letti parallelamente a quelli evoliani (molti sono i riferimenti nella seconda parte di “Rivolta contro il mondo moderno”) e magari accostati alle analisi di Tilak o ad altre più recenti (p.es. quelle di Felice Vinci su “Omero nel Baltico”) a mio parere hanno sortito l’effetto di condurre ad indebite sovrapposizioni di luoghi, ma soprattutto di tempi e di soggetti coinvolti nelle vicende boreali. È bene ribadire, cioè, che Guenon parla di origine iperborea dell’umanità nel suo complesso, mentre Evola sulla scorta di Wirth sembra invece fare principalmente riferimento ad un’entità meno ecumenica (la “Razza Prenordica”) e forse ad una minore profondità temporale (probabilmente non superiore ai 40.000 anni); Tilak si riferisce alla sola cultura vedica in un orizzonte che non sembra superare i 10-12.000 anni fa al massimo. Vinci infine si riferisce ad un gruppo ancora più ristretto, gli Elleni prima del loro stabilirsi in Grecia a partire dalla precedente sede nordico-scandinava, che avrebbero abitato solo pochissimi millenni a.c. In questo panorama un po’ confuso, la mia opinione è che l’etnogenesi Indoeuropea – oggetto specifico di questo incontro – andrebbe collocata in tempi paleolitici e certamente ben più remoti di quelli ipotizzati da Renfrew e Gimbutas, ma tuttavia non così antichi da sovrapporsi alla fase umana primordiale, pur anch’essa iperborea, ricordata da Guenon. Probabilmente il Quarto Grande Anno, posto tra 26.000 e 13.000 anni fa, ne può costituire l’arco temporale più logico e l’alveo razziale di riferimento sarebbe quella Razza Eroica – per utilizzare le categorie esiodee ed interpretarle in un’ottica quinaria, parallelamente ai 5 Grandi Anni del Manvantara – dalle caratteristiche fenotipiche nordiche che comunque, va ricordato, non avrebbe fornito la base antropologica alla sola famiglia indoeuropea se è vero che elementi eloquenti come il biondismo sono presenti anche tra Uralici, Caucasici e addirittura tra i Berberi nordafricani. Tale Razza Eroica rappresenterebbe una variante depigmentata e forgiata tra gli anfratti dei ghiacci paleolitici di un tipo precedente, ma anch’egli fondamentalmente europoide, come il Cro-Magnon, le cui caratteristiche originarie furono forse meno nordiche rispetto a quelle “eroiche” in quanto derivanti più direttamente dalla quella fase edenica primordiale immersa nell’antica “Eterna Primavera”, una mitezza climatica che appare poco coerente con lo sviluppo di tipi depigmentati. Peraltro, a questi Cro-Magnon antecedenti e non ancora “nordizzati”, sarebbe da attribuire una primissima stratificazione etnica forse corrispondente alla famiglia linguistica Sino-dene-caucasica (che raccoglierebbe idiomi oggi piuttosto isolati tra loro, quali ad esempio il basco, il ceceno, il ket siberiano, il burushaski pakistano, il sinotibetano, il nadene nordamericano). In ogni caso, nel Quarto Grande Anno, dopo una prima fase più statica che vide la nascita della Razza Eroica, è probabile che l’avvento di una recrudescenza wurmiana – il secondo massimo glaciale di circa 18-20.000 anni fa – abbia costretto all’abbandono forzato della summenzionata Airyanem Vejo posta nei pressi del Mar di Barents ed all’incontro/scontro, a sud, tra il ramo più occidentale della compagine nordico-eroica, i Protoindoeuropei, e le popolazioni cromagnoidi non depigmentate di area atlantica: da cui il ricordo della discordia tra i Tuatha de Danann ed i Fir Bolg (mito celtico) e degli Æsir con i Vanir (mito norreno). Conflitto infine conclusosi con la definitiva fusione – in quella sorta di “melting pot” ante litteram che dovette essere Atlantide – tra le due stirpi sorelle forse rimembrata dal fatto che i Vanir più valorosi vennero accolti nel consesso degli Æsir. Ma dopo quelle glaciali, fu ora la volta di catastrofi di tipo diluviale che iniziarono a colpire la parte più meridionale del continente oceanico (ma, per qualche millennio, lasciandone ancora illese le aree più settentrionali) costringendo le popolazioni ivi stanziate ad un nuovo spostamento di massa. Si tratterebbe di quella “migrazione orizzontale” ricordata anche da Julius Evola, la quale avrebbe portato nel bacino mediterraneo tutte quelle popolazioni atlantiche, ma già proto-indoeuropee, ravvisabili ad esempio nei Pelasgi pre-ellenici, di cui rimane forse traccia nella idrotoponomastica europea studiata da Hans Krahe, che ritenne di poter ricondurre a radici indoeuropee-arcaiche i nomi di gran parte dei fiumi europei: in questo modo, ridimensionando nettamente l’elemento “preindoeuropeo” fino ad allora ritenuto primario da altri ricercatori (elemento sicuramente presente in precedenza, di cui la summenzionata famiglia Sino-dene-caucasica, ma annichilito quasi integralmente dall’ondata “ario-arcaica” occidentale, tranne le pochissime enclaves ancor oggi visibili: Baschi, Ceceni, forse i Circassi). Nel settentrione delle terre atlantiche erano intanto rimaste temporaneamente illese alcune aree presumibilmente collocate tra Irlanda-Scozia-Faer Oer ed Islanda, delle quali il residuo odierno è forse il “Banco di Rockall”: tali aree corrisponderebbero a quella che ne mito iranico è la “Mo-Uru”, la seconda terra occupato dopo Airyanem Vaejo e menzionata anche da Herman Wirth, che forse viene ricordata con maggior precisione rispetto alle aree atlantiche più meridionali (e sommerse per prime) perché si può presumere abbia rappresentato un Centro sacrale ad immagine della culla originaria, quindi più protetto dalle dinamiche conflittuali/fusionali con le popolazioni atlantiche non depigmentate. Ma questa “nordatlantide” non tardò, anch’essa, ad essere colpita da altre catastrofi diluviali: le evidenze paleo climatologiche infatti evidenziano almeno tre distinti episodi di repentino innalzamento del livello oceanico tra 14.000 ed 8.000 anni fa, uno dei quali dovette essere la “frana di Storegga” che fu provocata da un enorme smottamento del fondale marino sul bordo della piattaforma continentale norvegese. Si rese quindi necessario l’abbandono anche della sede nordatlantica e l’avvio di quella che anche Evola definisce come “migrazione trasversale” – di direzione nordovest-sudest – da cui il ricordo dei Celti della perduta Avallon, collocata in un quadrante nordoccidentale: forse questa catastrofe nordatlantica viene ricordata nel mito ellenico come il Diluvio di Ogyges. La prima area occupata dalla migrazione trasversale dovette essere il Doggerland, l’antica pianura anglo-scandinava ora sotto le acque del Mare del Nord, che dovette rappresentare un habitat ideale per i cacciatori-raccoglitori-pescatori mesolitici (cultura di Ertebolle); la sommersione di questa distesa rappresentò l’ultimo episodio oceanico di un certo rilievo, ancorchè sviluppatosi con una dinamica più lenta e meno improvvisa dei precedenti, e probabilmente nel Mito ellenico corrisponde al Diluvio di Deucalione. Le popolazioni così sospinte verso l’entroterra europeo determinarono in questo modo la struttura più profonda dell’attuale diversità genetica europea, la “prima componente principale”, individuata da Cavalli Sforza, che mostra infatti un gradiente nettamente trasversale; il fatto che tale evidenza venga invece interpretata dai ricercatori sotto un’ottica completamente opposta – cioè un avanzamento da sud-est verso nord-ovest in relazione all’espansione neolitica dell’agricoltura – si scontra con due dati non trascurabili. Il primo, già accennato sopra, è che sempre più sta emergendo il fatto di come l’economia agricola non sembra essersi spostata tanto in termini “demici” (ingresso diretto di nuove popolazioni medio-orientali), quanto piuttosto in termini culturali (sostanziale permanenza delle genti paleo-mesolitiche autoctone con sola acquisizione delle nuove tecniche produttive). Il secondo dato è valutabile direttamente dall’andamento della prima componente principale sulla carta geografica, dove uno dei due valori estremi di scala – approssimativamente attestato tra Scandinavia occidentale, costa baltica, Danimarca, Germania del nord, Olanda e settentrione delle isole britanniche – sembra disegnare un’area semicircolare: una conformazione che richiama piuttosto l’idea di una zona di espansione e non di un punto di arrivo. Inoltre, come opportunamente notato anche da Francisco Villar, il valore dell’estremità opposta della scala delle grandezze rilevate non parte dall’Anatolia, come dovrebbe essere se il fenomeno rappresentato fosse quello della diversità genetica portata dai contadini neolitici, ma dall’Iraq, se non dall’Arabia settentrionale, che sono zone del tutto incongrue nell’ottica dell’espansione agricola. Una delle culture che dovettero essere centrali in questo movimento trasversale fu la cultura neolitica del “Bicchiere imbutiforme” che coprì un territorio abbastanza simile a quella di Ertebolle. Ma l’unità indoeuropea, a parte la ben precedente stratificazione “ario-arcaica” legata alla vecchia migrazione “orizzontale”, iniziò a disgregarsi quando una parte di queste popolazioni si mossero a oriente della Vistola, andando probabilmente a costituire il primo nucleo delle lingue “satem” (Baltici, Slavi, Iranici, Indoarii), mentre invece il ramo “kentum” (Celti, Italici, Germani, Elleni) dovette residuare da coloro che invece rimasero ancora nelle sedi nordeuropee. Nella prosecuzione, quindi, del movimento generale nord-ovest / sud-est, dalla Polonia i gruppi indoeuropei più orientali si infiltrarono in Russia ed Ucraina fino alle sponde del Mar Nero, probabilmente andando a costituire le prime fasi delle culture kurganiche: quelle che, secondo le summenzionate linee di Marija Gimbutas, avrebbero costituito un nucleo di irradiazione della nostra famiglia linguistica ma soltanto, lo vediamo ora, in chiave secondaria, cioè non rappresentando quest’area la primordiale Urheimat indoeuropea, ed infatti incidendo sulla genetica della popolazione del nostro continente molto meno (venendo individuata solo dalla “terza componente principale”) rispetto al fondamentale movimento nord-ovest / sud-est. Bibliografia consigliata: Giuseppe Acerbi – Il culto del Narvalo, della balena e di altri animali marini nello sciamanesimo artico – in: Avallon, n. 49, “Il tamburo e l’estasi. 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