A due secoli dalla sua pubblicazione, “L’uomo della sabbia” di E.T.A. Hoffmann costituisce tutt’oggi uno dei lavori letterari indispensabili per comprendere la poetica del “perturbante”, destinata ad influenzare le teorie psicanalitiche di Freud e Jentsch, le opere di Hesse e Machen, i film di Lynch e Polanski. di Marco Maculotti immagine: Mario Laboccetta, da “Tales of Hoffmann”, 1932 parte I di II È trascorso esattamente un secolo dalla pubblicazione del saggio (Das Unheimliche, 1919) [1] con cui Sigmund Freud, illustrando la categoria del “perturbante” (Unheimlich) nella psicanalisi e nella letteratura, eleggeva Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 – 1822) a suo massimo rappresentante, con una menzione particolare a Der Sandmann, capolavoro della letteratura gotico-surreale, incluso nei Nachtstücke (“Racconti notturni”), editi in due volumi nel 1816 e nel 1817 [2]. E sono, quindi, ben due i secoli che ci separano dalla pubblicazione di queste brevi storie del geniale — sebbene oggi, inspiegabilmente, sull’orlo dell’oblio — scrittore tedesco. Nonostante il tempo trascorso dalla loro diffusione, i “Notturni” conservano ancora oggi immutato tutto l’ambivalente fascino che già li accompagnava nei primi decenni del XIX secolo, in un mondo — com’è facile immaginare — sensibilmente diverso dal nostro. Eppure, non si creda che la fama dell’Hoffmann abbia risentito del mutamento di Zeitgeist intercorrente tra l’Ottocento e il Terzo Millennio: sarebbe assurdo immaginare che il lettore medio del tempo in cui Hoffmann visse (un tempo in cui, ricordiamolo, non esisteva ancora nulla di lontanamente accostabile alla teoria psicanalitica, già presente in nuce ne “L’uomo della sabbia” e in altri Nachtstücke, parimenti nelle componenti freudiane come in quelle jungiane) avesse strumenti intellettuali più adatti di quelli in nostro possesso per comprendere la straordinaria, eclettica, inetichettabile vena artistica del letterato tedesco. Certo E.T.A. Hoffmann fu un uomo dei suoi tempi, e anzi uno dei più significativi ed iconici fra tutti: ciò nondimeno, come non di rado accade ai genî più cristallini, egli si trovò al tempo stesso proiettato molto più avanti rispetto alla “visione del mondo” dell’epoca. In anticipo di qualche decennio su E.A. Poe e di circa un secolo su Arthur Machen e H.P. Lovecraft, Hoffmann riuscì in numerosi racconti a fare del “perturbante” la vera molla propulsiva, l’elemento segreto della sua arte: le sue intuizioni e ossessioni labirintiche non ispirarono solo grandi colleghi come i summenzionati, e inoltre Dostoevskij, l’Hermann Hesse più “esoterico” (Il lupo della steppa e Demian) e lo Schnitzler, ma fecero anche breccia nell’immaginario di alcuni dei registi cinematografici più rilevanti dei nostri giorni, quali David Lynch e Roman Polanski. In questo articolo ci proponiamo di mettere in luce alcune osservazioni che ci fanno propendere per questa tesi, e su cui il lettore è invitato a prendere una posizione autonoma. Ritratto di E.T.A. Hoffmann. AMBIVALENZA CONCETTUALE DEL “PERTURBANTE” Se vogliamo comprendere al meglio cosa si intende per “perturbante” dobbiamo necessariamente partire dal saggio di Freud e da quello precedente, citato dal viennese, del tedesco Ernst Jentsch. In prima battuta — su questo concordano entrambi –, è da vedersi nella parola tedesca unheimlich [“perturbante”] l’antitesi di heimlich [da heim, “casa”], heimisch [“patrio, nativo”], e quindi “familiare, abituale”, «ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare». Tuttavia, Freud aggiunge [3]: « Jentsch tutto sommato si è fermato a questa relazione tra il perturbante e il nuovo, l’inconsueto. La condizione essenziale perché abbia luogo il sentimento perturbante egli l’individua nella incertezza intellettuale. Il perturbante sarebbe propriamente sempre qualcosa in cui per cosi dire non ci si raccapezza. » Dal canto suo, dunque, l’austriaco si spinge oltre, individuando un’ulteriore sfumatura del termine heimlich che a prima vista potrebbe apparire del tutto in contrasto con quanto finora detto: si utilizza suddetto termine, infatti, anche per indicare qualcosa di «nascosto, tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare. Fare qualcosa heimlich (dietro le spalle di qualcuno)…». Conclude quindi [4]: « …siamo messi in guardia contro il fatto che questo termine heimlich non è univoco, ma appartiene a due cerchie di rappresentazioni che, senza essere antitetiche, sono tuttavia parecchio estranee l’una all’altra: quella della familiarità, dell’agio, e quella del nascondere, del tener celato. Nell’uso corrente, unheimlich è il contrario del primo significato, ma non del secondo. » Nondimeno, egli nota, parte dei dubbi così suscitati viene chiarita dalle indicazioni contenute nel dizionario tedesco di Jacob e Wilhelm Grimm [5]: « Dal significato di “natale”, “domestico” si sviluppa inoltre il concetto di: sottratto a occhi estranei, celato, segreto […] Heimlich quanto alla conoscenza: mistico, allegorico; un significato “heimlich”, mysticus, divinus, occultus, figuratus… sottratto alla conoscenza, inconscio […] II significato di “nascosto”, “pericoloso”, che affiora […] si sviluppa ulteriormente, sicché “heimlich” assume il significato abitualmente proprio a “unheimlich”. » Questa coniuctio contraria fra “heimlich” e “unheimlich” si realizzerà con risultati particolarmente elevati nell’opera del già nominato gallese Arthur Machen [6], nelle cui novelle l’esperienza del Sacro è al tempo stesso terrifica ed estatica, in linea con le successive intuizioni di Rudolf Otto (Das Heilige vide la pubblicazione nel 1917, esattamente un secolo dopo i “Notturni” di Hoffmann): l’incontro con il Divino, il “Totalmente Altro”, non può che essere al tempo stesso Mysterium Tremendum e beatitudine sovraterrena [7]. Si noterà come, nelle storie dell’Hoffmann, il “perturbante” sia sovente connesso a una dimensione che ben si può definire familiare, domestica: gli aborriti misteri deliranti in cui si imbattono i protagonisti dei suoi racconti (in una certa misura alter-ego dell’autore stesso) hanno il più delle volte a che fare con drammi familiari, situazioni tragiche che, proprio in virtù del loro essere heimlich (cioè domestiche, private, intime) finiscono per diventare necessariamente, quando vi si inserisce un elemento estraneo (solitamente il protagonista o voce narrante) unheimlich: è doveroso allora tenerle nascoste il più possibile, occultarle lontano da sguardi indiscreti. Puntualmente sarà il protagonista hoffmanniano a “metterci il becco”, come si suol dire, attirando a sé influenze malevole che meglio avrebbe fatto a non indagare — espediente narrativo, questo, che diventerà poi tipicamente lovecraftiano. E, a questo riguardo, è pregnante anche l’osservazione dello Schelling: « Unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. » Ed è proprio questa situazione pericolante, suddetta sensazione di fatalità incombente sui personaggi dei racconti di Hoffmann (ma anche di Machen, Lovecraft, ecc.) — questo sentirsi sospinti verso un destino inevitabile, come se l’intero percorso dell’esistenza fosse stato in qualche modo guidato da qualcuno o da qualcosa verso un esito prestabilito — a costituire uno dei motivi principali non solo della poetica del Nostro, ma in generale di tutti i romanzieri del Fantastico Sovrannaturale o, per meglio dire, del “Weird”. Va infatti rilevato con Thomas Ligotti che [8]: « […] l’aggettivo inglese weird, che sta per “misterioso, sovrannaturale, magico”, se sostantivato può significare “fato” […] Percepire che tutti i nostri passi dovevano portarci a un appuntamento prestabilito, capire che siamo faccia a faccia con qualcosa che forse ci aspettava da sempre: questa è l’impalcatura necessaria, lo scheletro che sostiene la stranezza del weird […] Questo strano senso del destino è senza dubbio un’illusione. E l’illusione crea la stessa materia che rimpolpa la scheletrica impalcatura del mistero. È l’essenza dei sogni, della febbre, degli incontri inauditi; avvolge le ossa del mistero e ne riempie le varie forme e ne riempie le tante facce. » E, non a caso, nel novero delle più grandi «storie del mistero basate su enigmi cruciali», Ligotti non può esimersi di menzionare Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann. Mario Laboccetta, da “Tales of Hoffmann”, 1932. “L’UOMO DELLA SABBIA” Ancora prima di Freud, il già citato medico e psicologo tedesco Ernst Jentsch [9] elesse Hoffmann al livello di “Maestro del perturbante”, giustificando tale asserzione menzionando uno degli aspetti più significativi de “L’uomo della sabbia”: «Uno degli artifici più sicuri per provocare effetti perturbanti mediante il racconto — scrive Jentsch, — consiste nel tenere il lettore in uno stato di incertezza sul fatto che una determinata figura sia una persona o un automa» [cors. ns.]. Ma c’è di più: lo svelamento del fatto che dietro a chi si pensava essere una persona in carne e ossa (Olimpia) non vi è che una bambola suggerisce implicitamente e inconsciamente (o meglio subconsciamente) a Nataniele la possibilità di essere egli stesso, in fin dei conti, una marionetta, e così pure, nella conclusione del racconto, la fidanzata Clara. Ciò viene rilevato anche da Jentsch, secondo il quale ci troviamo di fronte a un esempio di “perturbante” quando [10]: « l’individuo smette di apparire integrato nella sua identità e assume l’aspetto di un meccanismo [esattamente come si comporta Nataniele nel finale del racconto, come “telecomandato” dal mefistofelico Coppelius, ndr], un insieme di parti fatte come sono fatte, che è un processo a orologeria anziché un essere immutabile nella sua essenza. » Lo stesso discorso si può fare prendendo a modello l’epilettico che, similmente all’automa, fa balenare nella mente subcosciente dell’osservatore l’impressione che l’essere umano non sia altro che un congegno a orologeria, suscettibile di guastarsi e di rompersi [11]: « Non soltanto l’epilettico è percepito come qualcosa di perturbante dall’osservatore […], ma l’osservatore percepisce il perturbante anche in se stesso, perché gli è stata chiarita la natura meccanica di qualunque corpo umano e, per estrapolazione, il fatto che “processi meccanici avvengono in quella che fino a lì egli era abituato a considerare una psiche unitaria”. » Tuttavia, pur essendo il motivo della donna-automa centrale nell’economia weird di Der Sandmann, altri e non meno importanti artefici sono stati messi in gioco dall’Hoffmann per tessere il più fitta possibile la “rete del perturbante” (the wyrd of weird): ciò viene notato da Freud, che tuttavia — comme d’habitude — finisce per darne una lettura quasi esclusivamente edipica. Uno di questi espedienti narrativi è la divisione della storia in due “atti” ben distinti in termini temporali: il primo è narrato dal punto di vista di Nataniele bambino, il secondo da quello del N. adulto. La voce del piccolo Nataniele ci rende edotti su alcuni agghiaccianti ricordi della sua infanzia, legati alla morte del padre e alla leggenda dell’ “Uomo della sabbia” (o “Mago Sabbiolino”), una sorta di “Uomo Nero” paventato dalla madre di N. per farlo coricare presto che punirebbe i bambini disobbedienti gettando loro sabbia negli occhi [12]. Successivamente il bambino individuerà l’identità dello “spauracchio” nella persona dell’avvocato Coppelius, un individuo repellente sin nella fisionomia (altro topos hoffmanniano) che di tanto in tanto fa visita al padre. I due si intrattengono in misteriose operazioni di evidente carattere occultistico-alchemico di fronte ad una fornace fiammeggiante. Una sera, fattosi coraggio, il piccolo Nataniele si introduce nello studio del padre con il desiderio di spiare le enigmatiche pratiche [13]: « […] tutti e due indossarono lunghe tuniche nere […] Mio padre aprì i battenti d’un armadio a muro; ma quello che per tanto tempo avevo ritenuto un armadio era invece una caverna nera nella quale sorgeva un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e suscitò una fiamma azzurra e scoppiettante. Intorno c’erano strani oggetti. Dio mio, com’era trasfigurato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore orribile e lancinante avesse stravolto i suoi lineamenti dolci e onesti trasformandolo in un demonio brutto e ripugnante. Assomigliava a Coppelius, il quale con le tenaglie incandescenti toglieva dal fumo denso sostanze sfavillanti che poi martellava furiosamente. Mi pareva di vedere intorno tanti volti umani, ma senza occhi: al posto degli occhi erano cavità nere e profonde. — Qua gli occhi! Qua gli occhi! — gridava Coppelius con voce cupa e tonante. » Accade però che, nel bel mezzo della “seduta”, Nataniele finisca per farsi scoprire da Coppelius, il quale minaccia di gettargli negli occhi un pugno di granelli incandescenti provenienti dalla brace cerimoniale. Solo un fulmineo e disperato appello del padre riesce a far desistere il sinistro figuro da compiere tale barbarie: ma quello che accade in seguito, almeno secondo i ricordi confusi del ragazzo, è ancora più perturbante [14]: « Coppelius rise rumorosamente e disse: — Se li tenga, gli occhi, il ragazzo e frigni la sua parte nel mondo; ma vediamo un po’ da vicino il meccanismo delle mani e dei piedi! — Così dicendo mi strinse con forza le giunture facendole crocchiare e mi svitò le mani e i piedi e andava rimettendo a posto ora quelle, ora questi. » In seguito a questa esperienza traumatica (nonché apparentemente indecifrabile razionalmente), Nataniele cade svenuto e rimane convalescente per mesi. Il padre, da parte sua, morirà un anno dopo, nel mezzo di un altro esperimento alchemico con il diabolico avvocato Coppelius. Qui si conclude la parte del racconto dedicata all’infanzia del protagonista. Nel secondo “atto”, per così dire, cambiano gli attori ma non le maschere: a sostituire il padre defunto troviamo il professor Spallanzani, professore di fisica e meccanico; al posto dell’avvocato Coppelius c’è il quasi omonimo ottico e venditore di barometri Giuseppe Coppola [15]. Naturalmente l’avvocato Coppelius e Coppola sono la stessa entità, e sarà proprio l’ottico italiano — che il ragazzo stesso ricollega immediatamente, sin dalla fisionomia, al temuto Mago Sabbiolino — a vendergli un cannocchiale che contribuirà in modo decisivo a precipitare il protagonista verso l’abisso della follia: questo perché il cannocchiale, ma anche lo specchio in altri racconti hoffmanniani, apre nuovi spiragli all’organo della vista, in senso lato e al tempo stesso esoterico, sovrannaturale. Sarà infatti grazie ad esso che Nataniele prenderà l’insana abitudine di spiare alla finestra Olimpia, figlia di Spallanzani, algida fanciulla di cui il giovane si innamora perdutamente, dimenticando temporaneamente la fidanzata Clara. Eppure, nonostante l’esaltazione platonica di Nataniele, qualcosa di “perturbante” si prospetta all’orizzonte; l’amico Sigismondo, in particolar modo, tenta di metterlo in guardia, dicendogli: «Com’è possibile che un ragazzo intelligente come te si sia innamorato di quella faccia di cera, di quella pupattola di legno laggiù?» [16]. Olimpia, infatti, si rivela infine essere non una ragazza in carne e ossa, ma un automa artificiale: ci troviamo qui di fronte ad un aggiornamento moderno del mito della “sposa cadavere”. Lo shock definitivo arriva quando Nataniele, giungendo a casa di Spallanzani per chiedere la mano di sua “figlia”, assiste a una furiosa discussione fra il meccanico e Coppola, litigio durante il quale i due fanno a pezzi la sua amata Olimpia. Si definisce così una volta per tutte la sua natura di automa, e viene specificato che Spallanzani ha inserito il meccanismo (l’orologeria) e Coppola gli occhi [17]: « Nataniele rimase di sasso: fin troppo chiaramente aveva visto che il volto ceruleo di Olimpia era senza occhi; al posto degli occhi caverne buie; era una bambola inanimata. Spallanzani […] incominciò a gridare: — […] Coppelius… mi ha rubato l’automa migliore… venti anni di lavoro… ci ho messo corpo e anima… l’orologeria… la parola… i passi… tutto mio… gli occhi… gli occhi rubati a te… » A questo punto, Spallanzani getta a Nataniele sul petto gli occhi sanguinanti di Olimpia che giacevano al suolo, dopo avergli rivelato che Coppola Ii aveva rubati proprio a lui. Comprensibilmente, lo studente viene colto da un nuovo attacco di follia: nel delirio il ricordo della morte del padre si interseca e si confonde con il trauma appena vissuto e grida [18]: «Uh… uh… uh! Cerchio di fuoco… cerchio di fuoco… gira gira… allegro… allegro! Pupattola di legno, uh, bella pupattola, gira gira!». Si getta quindi, fuori di sé come un epilettico, sul meccanico, tentando di strangolarlo. In seguito a un lungo periodo di riabilitazione, e dopo essersi riavvicinato alla fidanzata Clara, un ultimo episodio di delirio metterà fine ai giorni di Nataniele. Durante una visita in cima a una torre, egli nota con il cannocchiale la presenza dell’abietto avvocato Coppelius nella folla e istantaneamente aggredisce la compagna, con la netta (seppur inspiegabile) volontà di farla precipitare, sbraitando follemente: «Gira, pupattola di legno… Gira gira, pupattola di legno… Cerchio di legno, gira… Gira gira, cerchio di fuoco… O begli occhi, occhi belli!» [19]. Dulcis in fundo, dopo questa crisi finale, l’attore esce letteralmente di scena: come guidato da una volontà esterna (che si suppone essere quella del redivivo Coppelius), si getta giù egli stesso, sfracellandosi al suolo. Mario Laboccetta, da “Tales of Hoffmann”, 1932. DA HOFFMANN AL GRANDE SCHERMO [20] Abbiamo ipotizzato in apertura un’influenza decisiva dell’Hoffmann sul cinema di Roman Polanski: se infatti si confrontano i motivi salienti de “L’uomo della sabbia” con alcune delle ossessioni del regista polacco (in special modo L’inquilino del terzo piano, con tutti i rimandi al tema del “doppio” e della disgregazione dell’ego; ma si pensi anche a Repulsione e, per altri racconti più a tema stregonesco, che analizzeremo nella seconda parte di questo studio, il classico Rosemary’s Baby) non si potrà fare a meno di convenire con noi. Le sensazioni vissute e le suggestioni subite da Nataniele in Der Sandmann ricalcano a meraviglia il protagonista polanskiano par excellence, soprattutto per quanto riguarda la cosiddetta “trilogia dell’appartamento”, in cui emergono prepotentemente i temi del doppelgänger, del “perturbante”, del carattere “burattinesco” dell’uomo e del Weird inteso come destino implacabile ed inevitabile: « Egli [Nataniele] si sprofondava in tetre fantasticherie e apparve presto così strano come non lo si era mai visto. Ogni cosa, la vita intera gli era diventata sogno e presentimento; e continuava a dire che ogni uomo, pur credendosi libero, era asservito al gioco crudele di poteri oscuri contro i quali era vano ribellarsi, mentre invece bisognava rassegnarsi umilmente al proprio destino. » [21] E non certo di meno questo e altri “Notturni” hoffmanniani hanno ispirato David Lynch [22]: la struttura a nastro di Moebius delle sue pellicole, gli svariati doppelgänger esistenti in segmenti spazio-temporali indipendenti eppure interconnessi, il ricorso disinvolto al “perturbante” in tutte le sue diramazioni possibili e immaginabili sono quanto si avvicina di più all’Hoffmann visionario nell’ambito della “settima arte”. Si tenga a mente quanto detto su questo labirintico racconto che della poetica hoffmanniana è l’emblema e lo si metta a confronto, per esempio, con i parossismi onirici di Lost Highways o Mulholland Drive, film in cui diversi personaggi, interpretati dai medesimi attori, rappresentano frazioni distinte della stessa persona in linee spazio-temporali differenti, o più prosaicamente — e freudianamente — differenti personalità in conflitto conviventi all’interno della stessa persona: « Allora forse, caro lettore, ti convincerai che non vi è nulla di più strano e di più folle che la vita reale e che, in fondo, il poeta può afferrare la vita solo come pallido riflesso di uno specchio opaco. » [23] Mario Laboccetta, da “Tales of Hoffmann”, 1932. NELLA SECONDA PARTE PROSEGUIREMO L’ANALISI QUI AVVIATA, CONCENTRANDOCI SU ALTRI “RACCONTI NOTTURNI” DI E.T.A. HOFFMANN Note: [1] FREUD, Sigmund: Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio; Bollati Boringhieri, Torino 1991 [2] Lo scrivente ha avuto modo di consultare l’edizione L’uomo della sabbia e altri racconti, Rizzoli, Milano 1950 [3] FREUD, op. cit., p. 171 [4] Ivi, pp. 174-175 [5] Ivi, p. 176 [6] Cfr. MACULOTTI, Marco, Arthur Machen e il risveglio del Grande Dio Pan, su AXIS mundi. [7] OTTO, Rudolf: Il Sacro; SE 2009 [8] LIGOTTI, Thomas: Nottuario; il Saggiatore, Milano 2017; pp. 11-12 [9] JENTSCH, Ernst: Sulla psicologia del perturbante, 1906 [10] LIGOTTI, Thomas: La cospirazione contro la razza umana; il Saggiatore, Milano 2016; p. 79 [11] Ivi, pp. 80-81 [12] Esiste una fiaba di Hans Christian Andersen, Ole Lukøje (in italiano “Ole Chiudigliocchi”, 1841), dal nome del personaggio fiabesco che concilia il sonno dei bambini, spruzzando nei loro occhi, con la sua siringa magica, un po’ di latte. Nella fiaba dell’autore danese si tratta di un personaggio positivo: il “Mago Sabbiolino” del racconto di Hoffmann ha, di contro, una connotazione molto più sinistra. [13] HOFFMANN, E.T.A.: “L’uomo della sabbia”, in L’uomo della sabbia e altri racconti; Rizzoli, Milano 1950; p. 18 [14] Ivi, p. 19 [15] Freud rileva che in italiano Coppola è equivalente al “crogiuolo” su cui il padre di N. e Coppelius realizzavano le loro operazioni magiche, e Coppo sta per “cavità dell’occhio” (FREUD, op. cit., p. 282, nota 1). Si faccia caso alla nostra scelta di evidenziare in corsivo, visto l’elevato valore simbolico, le rispettive professioni: il meccanico ha a che fare con i meccanismi, con la funzione di riparare congegni usurati o rotti; l’ottico, naturalmente, con l’occhio e la vista, temi archetipici prevalenti nella poetica dell’Hoffmann e particolarmente nel racconto analizzato in questa sede. [16] HOFFMANN, E.T.A., op. cit., p. 39 [17] Ivi, p. 43 [18] Ibidem [19] Ivi, pp. 46-47 [20] Segnaliamo al lettore che una versione cinematografica di Der Sandmann è stata girata da Giulio Questi: si tratta dell’omonimo L’uomo della sabbia, primo episodio del ciclo I giochi del diavolo. Storie fantastiche dell’Ottocento trasmesso dalla Rai nel 1981. [21] HOFFMANN, E.T.A., op. cit., p. 29. Si aggiunga che in un altro racconto di Hoffmann (Frammento della vita di tre amici) si parla di un giovane che, trasferitosi nella casa della zia defunta, inizia ad essere “posseduto” dal suo spirito, espediente narrativo perturbante estremamente simile a quello utilizzato da Polanski ne L’inquilino. [22] Su Lynch, cfr. MACULOTTI, Marco: I segreti di Twin Peaks: il “Male che viene dal bosco”; su AXIS mundi [23] HOFFMANN, E.T.A., op. cit., p. 27 - Artículo*: Marco Maculotti - Más info en psico@mijasnatural.com / 607725547 MENADEL Psicología Clínica y Transpersonal Tradicional (Pneumatología) en Mijas Pueblo (MIJAS NATURAL) *No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí enlazados
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