Attraverso la riattualizzazione mitica dello scontro tra il dio Marduk e il “mostro marino” Tiamat, l’Akītu si configurava, in ultima analisi, seguendo gli studi di Mircea Eliade, come un rito di passaggio collettivo: al principio del nuovo anno, mediante il rituale e la recitazione dell’antico poema cosmogonico Enûma Eliš, veniva “rifondato” il tempo e lo spazio. di Maurilio Ginex È possibile apprendere dalla lezione di Mircea Eliade una differenziazione tra ciò che rappresenta il Tempo Sacro e ciò che invece viene definito come Tempo Profano. Quest’ultimo si identifica con la normale andatura del tempo all’interno della vita di un uomo che si contraddistingue da ciò che rientra nella dimensione temporale di sacro attraverso la ricorrenza delle feste a sfondo religioso che rappresentano una forma di cesura del tempo, una rottura con il tempo ordinario. Le feste, costituite da articolati rituali che richiamano, nel loro manifestarsi periodicamente, l’importanza del mito nel contesto sociale, diventano un modo per poter passare, senza alcun pericolo, dal tempo profano al tempo sacro e viceversa. A tale proposito Eliade stesso dice (Il sacro e il profano, p. 47): « Partecipare religiosamente a una festa, significa uscire dalla “normale” durata temporale e reintegrare il tempo mitico riattualizzato dalla festa stessa. » Ciò che rientra nella dimensione di sacro la cui manifestazione viene definita come ierofania, che significa per l’appunto «manifestazione del sacro», abbraccia una mole svariatissima di fatti. Un rituale, un mito, possono essere ierofanie; ma ciò che è importante evidenziare è il fatto che il tempo assume sacralità in virtù della ricorrenza dell’evento e nel suo continuo manifestarsi, non mutando mai nella sua ontologia. La sua reiterazione e la sua manifestazione risultano monolitiche nel senso che in esso non vi è possibilità di applicare la razionalità temporale intesa come cambiamento imposto dal divenire del tempo. Il tempo sacro che traspira in una determinata festa o in un determinato rituale non cambia la sua essenza, diventa un tempo circolare la cui sacralità viene reintegrata attraverso le ierofanie. Sulla scia di questo breve preambolo sulla differenza tra le due tipologie di tempo vissuto dall’individuo, prendiamo in analisi un contesto storico-mitico che nei vari studi culturali che si sono occupati di società arcaiche spesso compare, ovvero, la realtà di Babilonia. Una città chiamata «Casa della base del cielo e della terra» o «porta degli dèi» (Etemenanki) (Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 31), ovvero una città da cui gli dei discendevano. All’interno del contesto babilonese, che nel nostro discorso abbraccia la differenza tra tempo profano e tempo sacro, innestiamo uno sguardo critico ed esplicativo di una specifica tipologia di festa, molto antica, risalente al periodo di Babilonia non soltanto per una localizzazione storico-temporale ma per l’appartenenza culturale della città. Questa festa è chiamata Akītu, ovvero il Capodanno babilonese. Essa era la festa più importante a Babilonia ed era un evento che poteva essere celebrato soltanto in presenza del re. Tale festa era costituita da una grossa struttura, in quanto la sua celebrazione si svolgeva in 12 giorni, nel mese di Nisān (Nissanu), che equivale al mese di Aprile in Occidente. L’Akītu rappresenta quello che nella letteratura etnologica, da Arnold Van Gennep, è stato definito rito di passaggio, ovvero una ierofania che causa un passaggio da uno stato di cose ad un altro. Una celebrazione che rappresenta un rito di passaggio, in cui nella transizione al nuovo anno viene rifondato il tempo e lo spazio. Tra i 12 giorni che si trascorrono nella festività dell’Akītu, il quarto assume una particolare importanza sacrale poiché in quel giorno, nella sera, il sommo sacerdote (šešgallu) del tempio — Esagila, una struttura eretta in Babilonia per il re degli dèi, Marduk — reciterà l’antico poema cosmogonico Enûma Eliš. Quest’ultimo metterà in risalto un aspetto strutturale della vicenda storico-mitica babilonese, ovvero il rapporto che intercorre tra il dio Marduk e il mostro marino Tiamat. Il poema rappresentava lo strumento attraverso il quale poter continuamente rinnovare nella memoria, mediante un processo di ritualizzazione, lo scontro tra Tiamat e Marduk; scontro in cui quest’ultimo riuscì a sconfiggere il mostro ricomponendo l’ordine e sconfiggendo il Caos. Il dio Marduk e il “Mostro Marino” Tiamat Marduk nella storia della mitologia e nel mondo antico rappresenta una figura controversa, in quanto soltanto nel momento in cui Babilonia diviene il centro politico dell’Eufrate – per mano di Hammurabi, nel secondo millennio a.C. — esso assunse le sue connotazioni positive e maggiore importanza di fronte alla popolazione, tanto da dedicare alla sua effige mitica uno spazio sacro, come l’Esagila, luogo in cui si incarna l’importanza di Marduk che mitologicamente, sconfigge Tiamat. Quando si parla di spazio sacro si parla implicitamente di una costruzione cosmogonica attraverso tale spazio. La costruzione rappresenta una reiterazione all’infinito di un archetipo, sotto forma di «rivelazione primordiale» (Eliade, Trattato di storia delle religioni, p. 382). Ma l’aspetto che più interessa il discorso sviluppato in questa sede è ciò che riguarda la dimensione cosmogonica, sopra citata, della creazione dello spazio sacro. Nel Trattato di storia delle religioni (1958), Eliade, quando parla della costruzione della dimensione spaziale del sacro, sviluppa un discorso inerente all’erezione di altari e santuari, identificando nella stessa costruzione dei medesimi l’atto di una ricostruzione del cosmo, ma la stessa portata cosmogonica può strutturalmente essere applicata a qualsiasi altra intenzione di costruzione di uno spazio sacro. Come per esempio, nel nostro caso, l’Esagila che diventa — attraverso il richiamo alla figura del sacro identificata nel dio Marduk — reiterazione archetipica e primordiale. Il sacro, presso le popolazioni che, sulla base di una certa tradizione di studi che va da Eliade ad Van der Leeuw, vengono definite come tradizionali o primitive, diventa qualcosa che nella sua reiterazione e valorizzazione promuove una visione metafisica dell’esistenza. La società babilonese è per l’appunto, un esempio di tali sistemi sociali, che vedono nella realtà terrena una forma di imitazione della dimensione celeste (Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 18). Dunque un altro aspetto determinante all’interno di un processo di analisi, volto alla comprensione della razionalità di una società antica viene rappresentato dal simbolismo del centro e dall’importanza che quest’ultimo riveste culturalmente. In questo specifico aspetto del contesto babilonese analizzato, la centralità dell’Esagila ne attesta la sacralità non soltanto per il fatto che esso diventa un elemento costitutivo della festa rituale dell’Akītu, ma propriamente perché nella sua centralità si sintetizza l’innesto tra culto del Dio e passaggio dal caos (Tiamat presente) all’ordine (Tiamat sconfitto). Luogo, che per il suo specifico simbolismo, diventa perfettamente consono all’idea di rito di passaggio che vi è nella festa di capodanno. Marduk sconfigge Tiamat Le forme del sacro sono innumerevoli, ma ciò che bisogna rammentare di fronte a qualsiasi decostruzione analitica che se ne fa, è che ogni fenomeno culturale nasce come espressione di una data esperienza psichica, per dirla con Leo Frobenius. Tutto è soggetto a una contestualizzazione tematica, concettuale, sociale e culturale, oltre che temporale, ma tale contestualizzazione non deve essere sintomo di pregiudizio implicito. Esempi come l’Akītu o istituzioni sacre come l’Esagila, rappresentano un dato importante, in quanto in esse possiamo leggere come nell’antichità non si scorga un ipotetico discorso separatista, da parte del moderno europeo, basato sulla presenza o meno di razionalità nelle ierofanie specifiche. Si può percepire invece come, in realtà, sia più comune la presenza di un rapporto diretto con il sacro. Un rapporto che influenza l’identità della struttura sociale che baserà la sua esistenza sul rapporto primordiale e continuo con una dimensione celestiale. Questo aspetto specifico identifica l’assoluta peculiarità delle società presocratiche e arcaiche in cui il sacro si consumava sin dal quotidiano. Quel sacro che allude a una dimensione in cui vige l’importanza della ripetizione, attraverso cui le società rifondano il tempo mitico e la validità dello spazio rituale — come il centro rappresentato dall’Esagila nel discorso svolto — al fine di un’autocoscienza totale che evidenzia continuamente il rapporto con il trascendente. Infine, in un orizzonte in cui il sacro acquisisce un suo specifico spazio anche nel quotidiano, risulta determinante identificare come il mito acquisisca un’importanza di particolare rilievo, poiché è in esso che bisogna ritrovare l’origine di quella dimensione sacra. Il mito racconta come si sono evoluti i fatti in forma primordiale e attraverso di esso si può risalire all’identificazione di un cultura, decostruendo usi e costumi di un popolo. Dunque, il mito rappresenta qualcosa di totale nei confronti dell’identità del sistema sociale di appartenenza e da esso si può individuare la morfologia — simbolica e culturale — dei vari rituali festivi. Una rappresentazione moderna dell’Akītu Bibliografia: ELIADE, Mircea: Il mito dell’eterno ritorno, 1949 ELIADE, Mircea: Il sacro e il profano, 1959 ELIADE, Mircea: Trattato di storia delle religioni, 1958 - Artículo*: Maurilio Ginex - Más info en psico@mijasnatural.com / 607725547 MENADEL Psicología Clínica y Transpersonal Tradicional (Pneumatología) en Mijas Pueblo (MIJAS NATURAL) *No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí enlazados
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