Nuccio D’Anna, valente storico delle religioni, ha di recente dato alle stampe un nuovo significativo studio, Simboli e misteri dell’Etruria antica, comparso nel catalogo di Iduna Edizioni (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 142, euro 16,00). Si tratta di un testo di rilievo nel quale, attraverso un vasto lavoro di comparazione storico-religiosa e archeologica, l’autore accompagna il lettore, con sagacia narrativa, nelle vive cose della religione e misteriosofia degli Etruschi. Si badi, il titolo trae, almeno parzialmente, in inganno. D’Anna non si occupa solo della civiltà etrusca: giunge a individuare una comune linea di sviluppo nella religiosità misterica mediterranea (e non solo), che ebbe quale epicentro diffusivo l’Ellade. L’esegesi fondamentale del testo è centrata sui simboli e sui rituali effigiati sulla famosa oinochoe (vaso di ceramica a corpo ovale con un’unica ansa) di Tragliatella, recuperato nel 1878 in una tomba a tumolo in una località nei pressi di Caere, l’odierna Cerveteri. Per quasi un secolo l’oinochoe fu custodito nella collezione del sen. Tittoni, la cui famiglia nel 1964 ne fece dono ai Musei Capitolini di Roma.
Si tratta di: «un reperto emerso dalla vasta e variegata koiné religiosa affermatasi al centro della penisola durante il VII secolo a.C.» (p. 10). Le variegate decorazioni del reperto, nota D’Anna, rendono plausibile un accostamento stilistico di questo reperto alla “ceramica orientalizzante” o “proto-attica”, diffusasi tanto in Grecia quanto nella Magna Grecia, dopo il tramonto dello stile “geometrico”, carico di simboli solari. L’intera superficie dell’oinochoe è decorata da ricchi fregi che definiscono una vera e propria “narrazione visiva”. In essa si distinguono, innanzitutto, i cosiddetti “denti di lupo” capovolti, da cui fluiscono verso il basso le fasce sacramentali. Da questo particolare si evince che: «nel territorio di Caere si era ampiamente sviluppata una […] simbiosi di elementi dottrinali e stilistici di sicura origine etrusca con la variegata cultura latina, con le tradizioni elleniche fiorenti nelle vicinissime […] colonie greche e […] con molti aspetti delle forme religiose coltivate nelle tante città italiche» (p. 19). Il patriziato di Caere, in forza delle positive relazioni con la Magna Grecia, aveva stretto rapporti con l’élite apollinea di Delfi, al punto che, tra i “tesori” custoditi nella città ai piedi del Parnaso, vi era quello della cittadina etrusca.
Ciò trova conferma nel fregio principale dell’oinochoe, in cui la scena madre è strutturata in due parti. A sinistra, sono visibili sette guerrieri all’uscita da un labirinto: l’artista si è soffermato sui dettagli del loro abbigliamento. Di particolare rilevanza risulta essere, per l’esegesi di D’Anna, lo scudo rotondo sul quale è effigiata la testa di un cinghiale. Il valore simbolico di quest’animale è, tanto in Oriente quanto in Occidente, associato: «alla più elevata dimensione sapienziale e all’esercizio dell’autorità sacerdotale» (p. 29). Nel caso della processione dei guerrieri etruschi rappresentata sul vaso rinvia, al contrario, alla casta guerriera e ai suoi riti di iniziazione. I sette giovani presentano le medesime fattezze somatiche a indicare la loro appartenenza a una fratria, a un sodalizio chiuso. La loro nudità rituale, inoltre, rimanda alla realtà spirituale connotante di sé l’efebia ellenica. Per questo, la presenza del cinghiale nell’oinochoe, pur richiamando la vittoria di Teseo sul Minotauro, della Luce sulle Tenebre, del cosmos sul caos, è qui indicativa della “guerra santa” che ogni guerriero vive in sé per diradare il disordine spirituale.
Allo scopo, i giovani in armi durante le processioni sacramentali davano luogo a vere e proprie danze rituali. Con W. F. Otto, D’Anna è convinto che la danza consenta all’uomo: «di fondersi direttamente con il “fluire universale della vita”», per la qualcosa il danzatore sacro si identifica con il cosmo. I sette guerrieri sono guidati, in una sorta di “danza pyrrica”, da un “Maestro” (come accadeva nella “danza armata” dei popoli del Nord). La fila è chiusa da un personaggio ieratico che alza un bastone sacro dalla forma curvilinea, richiamante quella del serpente: «L’abituale e periodico rinnovamento […] dello strato epidermico del rettile […] veniva interpretato come il simbolo della rinascita ciclica e della trasfigurazione spirituale» (p. 38). La figura del “Maestro” rinvia a Teseo che, come ricordato da Callimaco, quando giunse a Delo da Creta, guidò i sette giovani e le sette giovinette sottratti alle fauci del Minotauro in una danza. All’Eroe si deve l’istituzione della “danza delle gru” nel momento in cui, proprio a Delo, l’isola”invisibile”, “Centro del mondo”, poté celebrare il fulgore di Apollo Licio.
In tale circostanza, per simbolizzare il dono di Ariadne, vale a dire il filo di lana che permise all’Eroe di uscire indenne dal labirinto, fece danzare i quattordici giovani con in mano un filo che li legava l’un l’altro. Le loro circonvoluzioni ritmiche figuravano i volteggi armonici dei delfini in acqua. Il delfino era considerato, per antonomasia, uno dei veicoli di manifestazione di Apollo. Sull’oinochoe è ritratto un labirinto dal quale escono due cavalieri in armi. Il primo ha postura statica mentre, sullo scudo del secondo, è ritratta una gru nell’atto di librarsi in volo. L’artista ha voluto indicare con tale modalità figurativa due diverse realtà spirituali: la prima appesantita materialmente e spiritualmente, la seconda protesa verso la dimensione anagogica. Il candore delle piume delle gru era interpretato quale segno del nitore della conoscenza spirituale, la proverbiale lunga vita del volatile era considerata simile alla “longevità” degli iniziati, la periodica migrazione verso Nord delle gru alludeva al ritorno nella Terra Iperborea. Sull’ultimo cerchio del labirinto dell’oinochoe si trova una scritta che può esser letta come truia, lemma rinviante all’area linguistica indoeuropea. L’iscrizione allude alla “danza del mulinello”, in cui è palese il riferimento ai veicoli apollinei del delfino e della gru: «Si tratta di un simbolismo […] che ha alimentato […] anche il rituale del Troiae lusus» (p. 63), il che indica una continuità simbolico-rituale sopravvissuta fino all’età imperiale romana. Del Troiae lusus D’Anna si occupa nell’Addendum che chiude il volume.
Sostanzialmente anche a Roma in questo rituale si afferma la medesima visione del mondo simbolizzata nel racconto di Teseo e il Minotauro: il guerriero si trasfigura nell’Eroe civilizzatore; il caos indistinto diviene cosmos, spazio ordinato da leggi; le regole iniziatiche delle consorterie guerriere si trasfondono nell’Urbe: «una Città nella quale si dovrà instaurare la pax deorum» (p. 121). Non è casuale, pertanto, che l’ultima rappresentazione dell’oinochoe raffiguri una coppia di giovani che si accoppiano: si tratta di un hieros gamos, l’attualizzazione dell’: «unione prototipica del Cielo e della Terra» (p. 84), che garantiva la rigenerazione universale.
Questi alcuni dei temi che emergono dalla lettura di Simboli e misteri dell’Etruria antica, un unicum nella pubblicistica storico-religiosa.
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