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lunes, 15 de mayo de 2023

Origine e significato del Mâgên Dâwîd – Hildegard Lewy (parte I)


Prima parte della nostra traduzione dello studio comparativo, finora inedito in italiano, sulle antiche religioni di Gerusalemme e di Mecca. A cura di Andrea Casella.

di Hildegard Lewy

«Archiv Orientàlnì», Praga, vol. 18, fasc. 3 (Nov. 1, 1950) pp. 330-365.
Traduzione di Andrea Casella.

Così come innumerevoli moschee del Vicino Oriente sono sormontate dalla Luna Crescente, le sinagoghe più moderne si identificano dalla stella a sei punte, che usualmente viene chiamata Mâgên Dâwîd, “lo scudo di Davide”. Il significato originario di questo simbolo, che è stato oggetto di una gran quantità di speculazioni [1], è alquanto chiarito dalla sua presenza su due impronte di sigillo antico-assire trovate sulle tavolette cuneiformi AO.8758 [2] e AO.8781, ecc. [3] in possesso del Museo del Louvre. Sull’impronta di sigillo della prima tavoletta, il Mâgên Dâwîd compare di fronte a un personaggio di rango divino che regge con le mani un oggetto cerimoniale molto simile a una Menorah. La compresenza su un sigillo antico-assiro di questi due emblemi che sono generalmente considerati così caratteristici della fede ebraica, chiarisce che nessuno di essi trova la propria origine nella religione di Yahweh, dal momento che, come noto, non c’è alcuna prova che questa religione sia mai stata praticata in Assiria nel periodo antico-assiro. 

L’immagine di sigillo trovata sulla tavoletta AO.8781, ecc., fornisce alcune importanti informazioni sul Mâgên Dâwîd. Il motivo è che ivi è strettamente associato a due emblemi il cui significato è ben noto, vale a dire la luna crescente e il disco solare. La connessione della nostra stella a sei punte con questi due simboli di divinità planetarie, il dio-Luna Sîn e il dio-Sole Ŝamaŝ, suggerisce a prima vista che essa fosse a sua volta la rappresentazione di un dio planetario, una conclusione che tra tutte è la più plausibile, dal momento che le stelle a cinque, sei, sette e otto punte erano utilizzate altrove nell’antico Vicino Oriente per rappresentare gli dei planetari. Come esempi menzioniamo la stella a otto punte che la tavoletta di pietra B. M. 91000 [4] ascrive, sul rilievo del suo dritto, alla dea Iŝtar, la rappresentante divina del pianeta Venere, e un’altra stella a otto punte che rappresenta, in accordo a una legenda esplicativa sul rovescio della tavoletta AO.6448 [5] il dio Nabû-Mercurio. Dal momento che gli emblemi di quattro dei sette dei planetari [6] sono ben identificati dalle fonti cuneiformi, il Mâgên Dâwîd può rappresentare solo uno dei tre pianeti i cui simboli restano da essere identificati, vale a dire i cosiddetti pianeti superiori, Giove, Marte e Saturno. 


Relazione di Šalim con la Dinastia Davidica

Dal momento che la tradizione attribuisce la stella a sei punte sia a Davide che a Salomone [7], la decisione di assegnarla a uno dei tre pianeti che simboleggerebbe dipende in larga parte dalla questione, se così è, di quale di questi tre pianeti superiori giocò un ruolo nella religione di questi due re. Un’indicazione indiretta che Yahweh non fu l’unico essere divino adorato da Davide e Salomone è contenuta nell’affermazione tratta dal Primo Libro dei Re, III, 2 secondo cui la pratica di offrire sacrifici in luoghi elevati (una pratica che secondo I Re, III, 4 era seguita da Salomone) non era in accordo con la religione di Yahweh. È facile ipotizzare che il culto non-Yahwistico cui qui si allude fosse una religione planetaria, dal momento che, come abbiamo sottolineato in altro luogo con grande dettaglio [8], gli adoratori degli astri credevano che le sommità delle colline o delle montagne – ovvero, in assenza di rilievi naturali – lo spiazzo superiore delle torri dei templi, fossero il luogo appropriato per incontrare le divinità astrali, essendo tali luoghi più vicini alla loro dimora celeste rispetto alla pianura disabitata. La deduzione che fosse una divinità planetaria quella che Salomone adorava su Gabaon e altri luoghi elevati è perfettamente in linea con l’episodio, immediatamente successivo al già citato passo del Libro dei Re, secondo cui la sua famosa saggezza gli fu infusa in sogno sulla vetta del Monte Gabaon. Perciò, come abbiamo dimostrato nel nostro già citato lavoro, la concezione di un re a cui, in una rivelazione onirica, sia fatto dono di saggezza e sapienza di gran lunga superiori rispetto a quelle di un uomo ordinario, è rintracciabile altrove solo in relazione a regnanti che fossero dichiarati adoratori degli astri [9]

Un’indicazione circa l’identità del pianeta che sembra aver giocato un ruolo importante nella religione di Salomone viene dal nome di suo fratello maggiore, ‘Amnôn. Poiché, come evidenziato da J. Lewy, questo nome è derivato dalla radice m-n- con l’aggiunta del suffisso -ô/ân, siamo autorizzati a renderlo con “Colui che appartiene allo Stazionario” [10]. Poiché Saturno era il pianeta che i popoli dell’antico Vicino Oriente designavano come “Lo Stazionario” (akkadico Kaimânu, sumero SAG.Uš [11]) giungiamo alla conclusione che era questa la deità stellare a cui Davide aveva consacrato il suo primogenito. 

Possiamo anche ipotizzare il motivo per cui lo fece: nella credenza degli antichi Semiti, un sovrano che si fosse proposto di conquistare una certa città o un certo paese doveva ottenere il favore della divinità tutelare al fine di poter essere scelto per regnarvi per grazia del suo divino patrono [12]. Questa concezione era una logica conseguenza delle idee sul potere divino diffuse nel Vicino Oriente. Poiché la divinità protettrice di una famosa città (o paese) dovrebbe essere molto più potente del più potente re sulla terra, era impensabile che un essere umano fosse nella posizione di conquistare una città o una regione contro la volontà del suo dio protettore [13]. È quindi ragionevole pensare che Davide, pianificando di conquistare Gerusalemme, dovesse tributare omaggio alla divinità tutelare di quella città. Ora alcune informazioni circa il dio che si pensa possedesse la città di Gerusalemme prima di Yahweh possono essere dedotte dal nome stesso: ירושלם (neo-assiro âlUr-sa-li-im-mu [14]). Come ha evidenziato per primo J. Lewy [15], questo nome, essendo composto di un elemento ירו (da ricollegarsi a ירה, “creare”, “fondare”) e il nome divino Šalim (ricorrente anche nelle varianti Š/Salim e Šâlôm), significa “Creazione di Šalim”, un significato che rende chiaro che il dio chiamato Šalim era considerato il divino creatore e protettore di Gerusalemme. Infatti, da un passaggio – parimenti chiarito da J. Lewy [16] -, della lettera di Amarna VAT 1646 segue che âlBît dŠulmâni, “città del tempio del dio Šulmânu”, era uno dei nomi sotto i quali la città capitale del mâtÚ-ru-sa-lim-ki, “il paese di Gerusalemme”, era conosciuta nel periodo delle Lettere di Tell-el-Amarna, ossia all’inizio del XIV secolo a.C. Come il nome assirizzato Šulmânu è derivato da Šalim o Šâlôm con l’aggiunta del succitato suffisso ân/ôn oltre al nominativo assiro finale -u [17] la designazione della città come âlBît dŠulmâni conferma le nostre precedenti conclusioni secondo cui il dio Šalim o Šulmânu era la divinità principale della Gerusalemme pre-israelita. Per quanto riguarda la natura di questo divino patrono della famosa città, J. Lewy [18] concluse dal vocabolario assiro K. 4339 che gli Assiri lo identificavano con il loro dio Ninurta. Che questa identificazione, lungi dall’essere un mero artificio del dotto autore di quel vocabolario, esprimesse la generale credenza degli Assiri è dimostrato dal fatto che un re assiro il quale, scegliendosi come nome Šulmânu-ašarid (“Šulmânu è il Supremo [cioè tra gli dei]”), mise se stesso sotto la speciale protezione del dio-patrono di Gerusalemme, fondò la città di Kalḫu, la residenza assira del dio Ninurta [19]. Siccome quest’ultima divinità era la divina personificazione del pianeta Saturno [20], diventa allora chiaro che anche il Šulmânu dell’ovest semitico impersonava il pianeta che gli astronomi e gli astrologi assiri usavano chiamare “il Sole notturno”. Alla luce di questa evidenza, è difficile rimanga qualche dubbio che chiamando suo figlio maggiore ‘Amnôn, “Colui che appartiene a Saturno” [21] Davide avesse tributato onore al dio tutelare di Gerusalemme. Poiché, secondo II Samuele, III, 2, ‘Amnôn nacque a Hebron molto prima che Davide intraprendesse la sua campagna di conquista di Gerusalemme, è ovvio che egli avesse consacrato il suo primogenito al pianeta Saturno affinché questo dio potesse scegliere lui e i suoi discendenti per regnare sulla città santa. Questa conclusione è giustificata dal fatto che ‘Amnôn non era l’unico dei figli di Davide il cui nome esprimeva la venerazione paterna per il pianeta Saturno. Una volta realizzato che nella sua qualità di creatore e protettore di Gerusalemme questa divinità era chiamata Šalim o Šâlôm, è chiaro che anche il terzo figlio di Davide, Ab-Šâlôm, il cui nome significa “Il Padre è Šalim”, portasse un nome che lo poneva sotto la protezione del divo signore di Gerusalemme. Lo stesso è ovviamente vero per Salomone il cui nome significa “Colui che appartiene a Šalim”. Ci rendiamo così conto che Davide era perfettamente consapevole della condizione legata alla conquista e al possesso di Gerusalemme: d’ora in poi un posto importante nel pantheon della famiglia reale sarebbe stato occupato da Šalim, il divino patrono della capitale. 

Osservando, alla maniera descritta sopra, le pratiche rituali consuete tra gli adoratori degli astri, Salomone, figlio di Davide e suo successore, diede prova di aver accettato il patrocinio di questa divinità planetaria. Si pone quindi la questione della misura in cui egli abbia tentato di imporre ai suoi sudditi il culto di Šalim. Questa questione è meglio risolta determinando se il Tempio di Salomone come concepito da Davide e Salomone fosse in principio dedicato a Yahweh o a Šalim; dal momento che, nell’opinione degli antichi Semiti, un santuario costruito in onore di un certo dio era un potente mezzo di propaganda del suo culto [22]


Le principali fonti d’informazione sul culto del pianeta Saturno

Prima di provare a determinare se il Tempio di Salomone e le tradizioni attorno a esso rivelino in qualche modo una relazione con il culto del pianeta Saturno, dobbiamo discutere brevemente delle fonti principali da cui le informazioni circa il dio e le forme del suo culto possano derivare. Diciamo anzitutto che Saturno era la divinità protettrice della città di Lagaš, a sud di Babilonia, dove era riverito sotto il nome di Ningirsu, “Signore di Girsu” (Girsu essendo il nome di una zona di Lagaš [23]). Perciò le iscrizioni che trattano delle successive ricostruzioni del tempio di Ningirsu, l’È-ninnû, e in particolare i dettagliati resoconti lasciati da Gudea, possono rappresentare un numero di dati utili alla nostra indagine. Da questi testi apprendiamo soprattutto che Ningirsu era adorato insieme alla sua “amata consorte” [24], la dea Bau, alla quale (essendo considerata figlia di Anu, il dio del cielo) ci si riferisce frequentemente come “la regina, la figlia del puro cielo” [25]. Apprendiamo inoltre che Ningirsu era concepito come un potente guerriero dotato di armi terribili, e che era frequentemente designato come “Colui che arresta le acque furiose” [26].

Il mito dove originariamente quest’ultimo epiteto si riscontra è conservato in un testo che gli antichi designavano come Lugal-e ud me-làm-bi nir-gàl, “Re, Tempesta, il cui splendore è eroico” [27]. Il poema, che probabilmente era recitato o messo in scena durante la festività annuale celebrata nella città di Nippur, a sud di Babilonia [28], in memoria della sua supposta fondazione da parte del dio Ninurta, narra che ci fu un tempo in cui un terribile diluvio minacciò di morte e distruzione tutti gli esseri viventi [29]. Ninurta allora decise di accorrere in aiuto delle sue creature, e venne in barca per affrontare il nemico [30]. Il diluvio non fu l’unico avversario che egli incontrò sul campo di battaglia, poiché le pietre si erano schierate dalla parte delle acque montanti, e ciò sulla scorta dell’idea che durante un’alluvione numerose pietre grandi e piccole si abbattevano sulle città e i villaggi con gran danno e distruzione [31]. Alcune pietre, tuttavia, cambiarono schieramento nel corso della battaglia e aiutarono Ninurta contro il diluvio. Questa parte del mito è forse da spiegarsi ipotizzando che alcune rocce si fossero ammassate in modo da formare una diga contro le acque in aumento. Comunque sia, la battaglia terminò con la completa vittoria di Ninurta, che “arginò dentro il paese nemico” [32] le acque ostili del diluvio. Si comprende così che invocando il pianeta Saturno come “Colui che arresta le acque furiose”, il popolo di Lagaš attribuisse al loro dio la fine del distruttivo diluvio. 

Le parti del poema che raccontano gli eventi dopo il diluvio (tavolette da IV a VII) sono molto frammentarie; la sola parte chiara è contenuta nella tavoletta V, dove è detto (rev., l. 6, Geller, loc. cit., p. 287) che Ninurta “costruì un muro”, probabilmente usando le pietre che erano state trascinate via dal diluvio. Sulla tavoletta VIII, d’altro canto, abbiamo ancora un resoconto completo [33]. Qui è detto che, probabilmente come conseguenza del fatto che Ninurta avesse confinato le acque del diluvio nel “paese nemico”, si ebbe una penuria di acqua dolce in tutta la regione, col risultato che le attività agricole si bloccarono. Ma ancora una volta Ninurta venne in aiuto del suo popolo. Sulle montagne egli riunì enormi pietre con cui costruì una città (ll. 15 – 19 del testo di Langdon). Poi egli raccolse le acque che avevano allagato i campi e le scaricò nel fiume Tigri [34]. Allora il Tigri si gonfiò e riempì d’acqua la rete di canali da cui dipendeva la riuscita di ogni operazione agricola. Dopo aver compiuto questo lavoro, Ninurta nominò sua madre, la dea della terra, governante della città che aveva costruito [35], poiché ella lo aveva valorosamente aiutato nella sua lotta contro il diluvio (tavoletta IX). 

Infine, alcuni dei miti e delle tradizioni contenuti in questa antica Epopea Sumera di Ninurta ricorrono nei frammenti rimasti della Storia della Fenicia di Sanconiatone [36]. Questa fonte, a confronto relativamente tarda, nomina una divinità Ἠλος o Κρόνος come uno degli dei più importanti adorati dai Fenici [37]. Che questi fosse una divinità astrale deriva dalla dichiarazione del nostro testo che Kronos-Elos era riverito come la “stella di Kronos”. Siccome nella terminologia dei Greci la “stella di Kronos” [38] è il pianeta Saturno, restano pochi dubbi che per i Fenici di cui si occupò Sanconiatone questo pianeta fosse El, il dio per eccellenza. 

Il dio fenicio Saturno, proprio come la sua controparte babilonese, era ritenuto il figlio della terra, riportata da Filone di Biblo come Gê [39]. Anch’egli fu coinvolto in una terribile guerra [40], dopo il cui esito vittorioso egli “circondò la sua dimora con un muro e fondò come prima città di tutte Biblo di Fenicia” [41]. Si apprende così che a Biblo, come a Nippur, gli adoratori di Saturno credevano che la loro città fosse stata fondata dal loro dio come la prima città del mondo e che questo insediamento fosse stato costruito intorno a un santuario di Saturno circondato da un muro. In ulteriore accordo con il mito babilonese la versione greca riferisce [42] che la città di nuova fondazione fu data da Saturno a sua madre, il cui nome, Baaltis, ha senza alcun dubbio il significato di “Signora (di Biblo)”. D’altra parte, il resoconto di Sanconiatone contiene un’informazione sul dio Saturno di cui non c’è traccia in nessuna fonte babilonese: qualora, in conseguenza di guerre, pestilenze o altra calamità generale, i fedeli di Saturno fossero minacciati di catastrofe, era consuetudine che il capo della rispettiva comunità sacrificasse il suo figlio più amato a quel pianeta [43]. Questa usanza, a sua volta, si spiega mediante il mito che Saturno stesso avesse sacrificato suo figlio sull’altare quando la pestilenza minacciò i suoi seguaci [44]. Il sacrificio del figlio sembra essere stato un tratto così tipico del culto del pianeta Saturno che ancora nel Medioevo questa stella era conosciuta come “il pianeta che divora i suoi figli” [45]

In ultimo luogo, il nostro studio sul culto del pianeta Saturno deve servirsi delle fonti arabe medievali, non solo perché contengono reminiscenze mitiche della religione araba preislamica, ma anche perché descrivono il culto delle divinità planetarie praticato nel Vicino Oriente fino al tempo in cui i Turchi, più intolleranti dei loro predecessori, non estinsero gli ultimi resti delle antiche religioni semitiche. Ad-Dimišqî, che dedica un intero capitolo della sua Cosmografia alle pratiche religiose degli adoratori degli astri, riporta che un tempio di Saturno “era costruito a forma di esagono, nero (secondo il colore) della pietra lavorata e delle tende” [46]. Mentre, a giudicare dall’antico tempio di Saturno a Lagaš, come altrove, il riferimento alla forma esagonale deve essere frutto di una confusione [47], la predominanza del colore nero è ben in linea con le informazioni fornite dalle fonti cuneiformi; dal momento che ivi, non meno che nelle opere medievali di astrologia, Saturno è frequentemente chiamato “il nero” o “l’oscuro” pianeta [48]. Tuttavia, un’osservazione di al-Mas’ûdî [49] suggerisce che non necessariamente l’intero tempio doveva essere costruito in pietra nera; perché quando questo autore riferisce che, nell’opinione degli adoratori delle stelle, la Ka’ba di Mecca passava per essere un santuario di Saturno, egli sottolinea che tale caratterizzazione dipendeva dalla presenza di una sacra pietra nera, la famosa Ḥağar al-aswad. La correttezza dell’informazione di al-Mas’ûdî è provata, almeno indirettamente, dal nome del dio che, secondo le unanimi testimonianze delle nostre fonti islamiche, era adorato nella Ka’ba nel periodo precedente a Muhammad. Era chiamato Hubal (هبل‎) [50], un nome che, derivato dalla radice هبل‎ [hebel n.d.r.], ha il significato di “Colui che priva con violenza la madre di suo figlio” [51]. Il modo in cui il divino signore di Mecca si credeva prendesse i figli alle loro madri è illustrato dalla ben nota leggenda sul nonno di Muhammad, ‘Abd al-Muṭṭalib. Si racconta che egli avesse votato al sacrificio uno dei suoi figli a Hubal, nel caso in cui fosse stato benedetto con dieci figli [52]. Così è chiaro che il dio adorato nella Ka’ba era solito accettare, o forse esigere, sacrifici di bambini dai suoi adoratori. Dal momento che, come abbiamo visto sopra [53], tali sacrifici erano considerati un tratto altamente caratteristico del pianeta Saturno, non rimane dubbio che la tradizione secondo cui la Ka’ba fosse un santuario di Saturno è più affidabile di quanto generalmente si pensi [54]. Infatti, quando il Corano (III, 96) stabilisce che il tempio sito in Bakka (i. e. la Ka’ba di Mecca) fu il primo santuario costruito per gli uomini, esso allude a una tradizione che, come visto sopra, è caratteristica dei luoghi del culto di Saturno: in ognuna di queste città, gli adoratori credevano che il loro santuario e la loro città fossero i primi ad essere stati fondati [55].


NOTE:

[1] Riguardo ad alcune di queste speculazioni circa il possibile significato del Mâgên Dâwîd vedi Jahrbuch für Jüdische Volkskunde I, Berlino – Vienna 1923, pp. 391 ss. e p. 392, nota 1.

[2] Una riproduzione dell’impronta di sigillo in questione si trova in J. Lewy, Tavolette della Cappadocia, terza serie, terza partita (Museo del Louvre, Dipartimento delle Antichità Orientali, Testi Cuneiformi, vol. XXI), Parigi 1937, pl. CCXXXV, n. 74.

[3] Per una riproduzione dell’impronta di sigillo presente su quest’ultimo frammento vedi J. Lewy, op. cit., pl. CCXXXIII, n. 48. – Il Professor Herbert G. May ha gentilmente richiamato la mia attenzione sul fatto che il Mâgên Dâwîd è inciso sul muro di un santuario di Megiddo; vedi il suo lavoro, Resti materiali del culto di Megiddo, Chicago 1935, p. 6 e fig. 1 a p. 7. Il muro in questione, in accordo con gli archeologi, risalirebbe al IX-VIII secolo a.C.

[4] Vedi L. W. King, Pietre confinarie babilonesi e Tavolette memoriali nel British Museum, Londra 1912 pl. XCVIII, e cfr. Thureau-Dangin, Rivista di Assiriologia XVI, 1919, p. 139.

[5] Vedi Thureau-Dangin, loc. cit., p. 135 e cfr. Orientalia 18, 1949, p. 168, nota 1.

[6] Cioè Sîn, Ŝamaŝ, Iŝtar e Nabû.

[7] Mentre la tradizione ebraica si riferisce al nostro simbolo come “scudo di Davide”, le fonti islamiche lo designano piuttosto come “sigillo di Salomone”.

[8] Vedi Archiv Orientàlnì XVII (Symbolae Hrozný, vol. II), Praga 1949, pp. 87 ss.

[9] Vedi loc. cit., p. 87, dove, con riferimento alla tavoletta B. M. 38299 (il cosiddetto Resoconto in Versi), si riporta che Nabû-na’id era stato scelto come destinatario della saggezza divina dal dio-Luna. Con riguardo alla lettera K. 2701a risulta ulteriormente che si riteneva che Sîn-ahhê-erîba avesse ricevuto lo stesso dono dal dio nazionale assiro, Aššûr. Che, nella concezione dei Neo-Assiri, Aššûr fosse una divinità astrale risulta da passi come B. M. 81, 7 – 1,4 (per questo testo vedi di seguito, nota 111) l. 1, dove il divino patrono dell’Assiria è identificato con kakkabApin, “la stella-aratro”. Su questa costellazione, che si sovrappone approssimativamente a quella che è oggi chiamata Triangolo, vedi Schaumberger, Starnkunde und Sterndienst in Babel, 3. Ergänzungsheft, Münster 1935, pp. 328 ss.

[10] Vedi il Dio-Sole dell’antico ovest semitico, Hammu, Hebrew Union College Annual XVIII, 1944, p. 456, note 146 e 147; cfr. ibidem, pp. 469 ss. Sul suffisso ân/ôn, espressivo dell’idea di appartenenza vedi Noldeke, Zeitschrift der Deutschen Morgenl. Ges. XV, 1861, p. 806, e H. e J. Lewy, Hebrew Union College Annual XVII, 1943, pp. 136 ss. con nota 500. Cfr. ora anche le osservazioni di Thureau-Dangin, Riv. d’Ass. XXXVII, 1940, p. 100; per quanto riguarda l’identità di suffissi esprimenti o appartenenza o diminutivi, vedi Brockelmann, Grundriss der vergleichenden Grammatik der semitischen Sprachen, Berlin 1908, vol. I, pp. 400 ss., § 221.

[11] Come stabilito da Schaumberger, op. cit., p. 318, nomi come questo alludono alla lentezza della rivoluzione del pianeta Saturno.

[12] Per alcune attestazioni di ciò, tratte sia da fonti bibliche che cuneiformi, vedi J. Lewy, Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, pp. 59 ss.

[13] Ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento analizzare qui come questa credenza fosse stata abbandonata quando la concezione di un dio universale venne generalmente accettata. Basti qui dire che essa può essere rintracciata fino al VI secolo a.C. Nel testo B. M. 90920, il cosiddetto Proclama di Ciro ai Babilonesi, il conquistatore persiano di Babilonia è rappresentato come un devoto adoratore di Marduk. Proprio il dio nazionale dei Babilonesi, così si riferisce, ha guidato Ciro alla sua sacra città dopo averlo scelto per regnare sul suo paese. Una simile credenza è rintracciabile nel Libro di Geremia dove il profeta cita Yahweh che parla del conquistatore di Gerusalemme come di “Nabucodònosor, re di Babilonia, mio servo” (Ger. XLIII, 10) nelle cui mani Egli intendeva mettere la città di Gerusalemme (Ger. XXXII, 3). Anche qui si dà per scontato che il conquistatore che è stato chiamato dalla deità protettrice a governare la sua città sia un “servitore”, vale a dire un devoto adoratore di questo stesso dio.

[14] Vedi, e. g., col. III, l. 8 del Prisma di Sennacherib.

[15] Vedi Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, p. 61.

[16] Vedi Journal of Biblical Literature LIX, 1940, pp. 519 ss.

[17] Sulla relazione della forma Šulmânu con la forma Šalim vedi in particolare J. Lewy, Nāh et Rušpān, Mélanges Syriens offerts à M. René Dussaud, vol. I, Parigi 1939, pp. 274 ss., e p. 454 del testo citato sopra, p. 332., nota 10.

[18] Vedi la citazione sopra, nota 16.

[19] Vedi col. III, l. 132 degli Annali di Aššûr-naṣir-pal (Budge e King, Annali dei Re d’Assiria, vol. I, Londra 1902, p. 386): âlKalḫu maḫ-ra šà m dŠulmânu ma-nu-ašarid šar mât Aš-šûr rubû a-lik pa-ni-a êpušuš “l’antica città di Kalḫu, che Šulmânu-ašarid, re d’Assiria, un principe che mi precedette, costruì”; cfr. il passaggio parallelo ibidem, p. 184, ll. 6 – 7; p. 219, ll. 14 ss.; p. 244, col. V, ll. 1 ss.

[20] Vedi p. 63, nota 148 dell’opera citata sopra, nota 8. 

[21] Vedi sopra, p. 332. 

[22] Per alcuni passaggi attestanti questa credenza nelle fonti cuneiformi vedi p. 85 con nota 243 dell’opera citata sopra, nota 8.

[23] Il fatto che Ningirsu, il divino patrono di Lagaš, si identificasse col pianeta Saturno è stato evidenziato per la prima volta da Morris Jastrow, Jr., Riv. D’Ass. VII, 1910, p. 173. 

[24] Così nella cosiddetta Statua G di Gudea (col. II, l. 6). Per una traslitterazione e una traduzione vedi Thureau-Dangin, Die Sumerischen und Akkadischen Konigsinschriften, Vorderasiatische Bibliothek, vol. I, Leipzig 1907, pp. 84 ss.

[25] Vedi, e. g., Cilindro B di Gudea (Thureau-Dangin, op. cit., pp. 122 ss.), col. V, l. 15.
26 A-ḫuš-gi4-a; vedi, e. g., Cilindro A (Thureau-Dangin, op. cit., pp. 88 ss), col. VIII, l. 15; col. IX, l. 20.

[26] A-ḫuš-gi4-a; vedi, e. g., Cilindro A (Thureau-Dangin, op. cit., pp. 88 ss), col. VIII, l. 15; col. IX, l. 20. 

[27] Come sempre, il nome dell’opera è tratto dal primo verso della prima tavoletta. Il primo a richiamare l’attenzione sulla sua importanza è stato Hroznӯ, MV AG VIII, 5, 1903.

[28] Come apprendiamo dal rituale del Capodanno celebrato nella città di Babilonia in onore del suo dio-patrono, Marduk (vedi Thureau-Dangin, Rituali Accadici, Parigi 1921, p. 136, ll. 280 – 283), secondo cui nel corso di questa festa il sacerdote-urigallu recitava l’Enûma Eliš, la storia della vittoria di Marduk su Tiâmat e la conseguente creazione del mondo, non mancheremo di ipotizzare che a Nippur, dove Ninurta godeva di alto rango tra le divinità locali, l’epopea che racconta le sue gesta eroiche e la successiva creazione della prima città dopo il diluvio fosse recitata durante una festa celebrata in suo onore. Questa conclusione è di tutte la più fondata, dal momento che l’Epopea di Ninurta stessa, nella tavoletta I, ll. 35 – 36, menziona Ninurta che celebra allegramente una festa istituita in suo onore. (Contiamo le linee secondo la numerazione stabilita da S. Geller, Die Sumerisch-Assyrische Serie LUGAL-E UD ME-LAM-BI NIR-GÁL, Altorientalische Texte und Untersuchungen I, 4, Leiden 1917, dove il rilevante passo si trova a p. 279. Nel più recente commento e traduzione di Kemal Balkan delle tavolette I, X, XI, e XII, [Dil ve Tarih-Coğrafya Fakültesi, Sumeroloji Enstitüsü Neṣriyati no. 1, lstanbul 1941, pp. 881-912], la linea in questione, a p. 907, reca il numero 18).

[29] Vedi in particolare il frammento K. 5983 (Geller, loc. cit., p. 316) e tavolette II e III, dove è detto che i devoti di Ninurta non sapevano dove andare quando i muri collassarono (?) sotto la pressione del diluvio impetuoso; gli uccelli furono abbattuti al suolo, probabilmente da una forte tempesta (cfr. la menzione di Adad, il dio dell’atmosfera, nella tavoletta III, ll. 7 – 8), e anche gli altri animali furono minacciati di sterminio. Ninurta stesso fu costretto ad usare una zattera per raggiungere il campo di battaglia.

[30] Vedi nota precedente.

[31] Che questa sia l’idea alla base dell’intervento delle pietre nella battaglia diventa particolarmente chiaro leggendo le ll. 7 – 14 della tavoletta X (secondo la numerazione di Geller, loc. cit., p. 295; ll. 4 – 7 (p. 908) nella traduzione di Balkan), dove si riporta che Ninurta maledisse le pietre-šammu poiché si erano sollevate contro di lui nelle montagne e lo avevano minacciato nella sua sublime dimora. Una roccia, portata via da una vicina montagna, si era a quanto pare schiantata nel tempio di Ninurta.

[32] Vedi tavoletta III, ll. 13 – 14 (Geller, loc. cit., p. 284). Abbiamo letto la parola corrotta alla fine della linea 14 i[k]-si-ir-šu, poiché il verbo kasâru è usato altrove in riferimento all’arginare fiumi e corsi d’acqua.

[33] La Tavoletta VIII è stata ricostruita sulla base di vari frammenti da Langdon, Liturgie Babilonesi, Parigi 1913, No. II, pp. 7 – 11. Sebbene non identificata dal solito colofone, la linea tipica alla fine del brano rende certa la sua posizione nell’intera serie.

[34] Vedi ll. 23 – 24, del testo come ricostruito da Langdon, e cfr. Landsberger, Journal of Near Eastern Studies VIII, 1949, p. 276, nota 91.

[35] Landsberger (Dil ve Tarih-Coğrafya Fakültesi Dergisi, vol. III, no. 2, 1945, pp. 152 ss.) pensa che “egli (i. e. Ninurta) ammucchia le pietre prelevate su una montagna, le consegna a sua madre Ninlil e le dà il nome di ‘Signora delle Montagne’”. Non c’è elemento, tuttavia, nelle porzioni rimaste del poema, che supporti una tale affermazione. Al contrario, vari passi del nostro testo rendono chiaro che, quando si parla di gu-ru-ni ša ag-ru-nu o simili (vedi, e. g., tavoletta IX, ll. 38 – 39 [Geller, loc. cit., p. 292]) l’autore dell’opera si riferisce alle mura e alle costruzioni della nuova città e non a una montagna, supponendosi che l’esistenza di montagne e pianure, ovviamente, sia antecedente al primo insediamento post-diluviano. Ci riferiamo non solo alle succitate linee della tavoletta VIII (Langdon, op. cit., pp. 8 – 9) che chiaramente parlano di Ninurta che ammassava pietre per la costruzione di una città, ma anche alla tavoletta XIII, ll. 24 – 25 (Geller, loc. cit., p. 312) dove il poeta parla della “nuova città edificata” come il regno della madre di Ninurta, Ninḫursag, la dea della terra. – Non è privo di interesse richiamare in questo contesto Gen. X, 8 – 12, dove Ninurta (Nimrod) è rappresentato come costruttore di città, tra cui Kalḫu, la città santa di Saturno nel territorio assiro (cfr. sopra, p. 333 con nota 19).

[36] Nelle pagine seguenti citiamo Sanconiatone-Filone di Biblo secondo l’edizione di Carl Clemen, Die Phönikische Religion nach Philo von Byblos, Mitteilungen der Vorderas.-.Ägyptischen Ges., vol. 42, 3, Leipzig 1939, pp. 16 ss.

[37] Benché il nome Elos renda perfettamente chiaro che l’entità così qualificata era un dio superiore, il testo che ci è rimasto rappresenta Elos-Kronos come un re umano divinizzato dopo la morte. Incontriamo qui la ben nota tendenza degli autori greci di dipingere gli dei antichi come esseri umani ai quali furono tributati postumi onori divini. Una tendenza simile è rintracciabile nella Bibbia. Come fu suggerito da J. Lewy (Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, p. 45), il Laban hâarammî di Gen. XXIV ss., fratellastro di Isacco e patrigno di Giacobbe, era nient’altro che il dio-Luna, il divino signore di Ḥarrân, che, nella regione del Monte Libano, era riverito sotto il nome di Laban (sulla relazione di questa divinità con il Monte Libano vedi in particolare J. Lewy, The Old West Semitic Sun-God ammu, Hebrew Union College Annual XVIII, 1944, passim). Gli scrittori musulmani, da parte loro, rappresentavano di frequente gli dei arabi preislamici come esseri umani divinizzati. Come esempio riportiamo le storie di al-Mas’ûdî (Les prairies d’or, vol. III, Paris 1917, pp. 100 ss.) intorno a Isâf e Nâila, gli dei adorati insieme a Hubal (vedi di seguito, nota 54, sub 1) nella Ka’ba di Mecca. In tutti questi casi, uomini che, pur non credendo, o non credendo più, all’esistenza di questi antichi dei, dovettero confrontarsi con la persistenza delle leggende mitiche rimaste nella memoria popolare, trasformarono gli antichi dei in esseri umani e conservarono così le vecchie storie e leggende come parte del folklore popolare.

[38] Vedi Clemen, op. cit., p. 31, sub 44.

[39] Vedi Clemen, op. cit., pp. 25 ss., sub 16 – 18. Tuttavia, mentre nel mito babilonese suo padre è il dio dei venti e dei fenomeni atmosferici Enlil, Saturno, nel mito fenicio, è il figlio di Urano, il dio del cielo.

[40] Nel mito fenicio, è lo stesso padre di Saturno, Urano, contro il quale egli combatte e dal cui trono infine lo scaccia. L’autenticità di questa caratteristica è provata dal fatto che anche una versione araba del mito di Nimrud riporta che Nimrud (i. e. Ninurta; cfr. sopra, nota 35 in fine) sconfisse e detronizzò suo padre (vedi Moritz Weiss, Kiṣṣat lbrāhīm,Dissertation Strassburg 1913, pp. 1 – 8). Secondo questa concezione per cui, come d’uso nella letteratura araba, gli antichi dei sono rappresentati come esseri umani (cfr. sopra, nota 37), il padre di Ninurta è avvisato in sogno che il figlio che gli fosse stato generato lo avrebbe ucciso ereditandone il trono. Ecco che allora dà ordine di uccidere il figlio subito dopo la sua nascita, ma sua madre lo salva. Ninurta cresce senza conoscere i suoi genitori e infine sconfigge e uccide suo padre, si impossessa del trono e pone tutta la terra sotto il suo dominio.

A Nippur dove, come anzidetto, l’Epopea Sumera di Ninurta ebbe origine, una storia come questa poteva non essere menzionata, perché in questa città Ninurta e il suo culto non soppiantarono mai il culto più antico di suo padre Enlil, che rimase la principale divinità di Nippur durante tutto il periodo in cui è possibile tenere traccia della storia religiosa di quella città, il che significa fino al periodo seleucide. È perciò chiaro che l’epopea di Nippur non poteva ricordare il padre di Ninurta, Enlil, come un dio sconfitto e detronizzato dal suo eroe. Tuttavia, non si può escludere la possibilità che anche la versione sumera fosse stata adattata alle condizioni locali sulla base di un mito in cui il nemico di Ninurta era suo padre. Perché noi sappiamo dal mito babilonese del diluvio che fu proprio Enlil a concepire e realizzare l’intento di scatenare un diluvio al fine di annientare tutta la vita sulla terra. Quindi anche il diluvio contro il quale egli combatté nell’epopea di Nippur, nella versione originale, potrebbe essere stato causato dal lunatico dio della tempesta e dei fenomeni atmosferici Enlil, benché, per le ragioni evidenziate, nessuna menzione sia stata fatta nel poema esistente della divinità che aveva inviato il diluvio. In effetti, quando l’Epopea di Ninurta (che comunque chiama ripetutamente il suo eroe “il figlio di Enlil”) parla di Ninurta come di “Colui che non sedette con una balia” e “il rampollo di (e simili) – Mio padre che non conosco –“ (vedi tavoletta I, rev., ll. 7 – 10, Geller, loc. cit., p. 280; p. 907, ll. 28 – 29 della traduzione di Balkan), viene in mente la leggenda araba di Nirmrud in cui Ninurta-Nimrud dopo essere stato allattato da una tigre crebbe senza sapere chi fossero suo padre e sua madre.

[41] Vedi Clemen, op. cit., p. 26, sub 19.

[42] Clemen, op. cit., p. 30, sub 35.

[43] Vedi Clemen, op. cit., p. 16, e p. 31, sub 44.

[44] Vedi Clemen, op. cit., p. 29, sub 33, e p. 32, sub 44.

[45] Vedi Bezold e Boll, Sternglaube und Sterndeutung, Aus Natur und Geisteswelt, vol. 638, Leipzig 1919, pp. 60 ss.

[46] Vedi il suo Kitâb nuḫba al-dahr fî ‘agâ’ib al-barr w’al-baḥr , ed. Mehren, San Pietroburgo 1866, p. 40.

[47] Come sarà riferito con maggior dettaglio in seguito, p. 343, la caratteristica forma di un tempio di Saturno era quella di un cubo.

[48] Per riferimenti nella letteratura cuneiforme vedi Schaumberger, op. cit., p. 317. Come Schaumberger osserva, “Saturno è chiamato il pianeta nero o oscuro perché in realtà di solito appare più debole o meno luminoso degli altri pianeti”. Con riguardo alle fonti medievali, vedi, e. g., al-Bîrûnî, Kitâb at-tafhîm, ed. R. Ramsay Wright, Londra 1934, p. 240.

[49] Les prairies d’or, vol. IV, Parigi 1914, p. 44.

[50] Vedi, e. g., al-Mas’ûdî, Les prairies d’or, vol. IV, p. 46. aš-Šahrastânî (tradotto da Th. Haarbrücker, vol. II, Halle 1851, p. 340) riporta che Hubal, il più grande degli dei arabi, aveva la sua sede sul tetto della Ka’ba. Ṭabarî (Annali, ed Leiden, vol. I, 3, 1881 – 1882, p. 1075), d’altra parte, riporta che Hubal era collocato all’interno della Ka’ba e posto sulla bocca di un pozzo. Di sicuro, le nostre fonti sono unanimi nel qualificare Hubal, allo stesso modo degli altri idoli arabi, come non-arabo, essendo l’adorazione degli idoli, nella loro visione, un’istituzione mutuata dalla Siria in un’epoca relativamente tarda (vedi, e. g., al-Mas’ûdî, Les prairies d’or, vol. IV, pp. 46 ss., e cfr. Wellhausen, Reste arabischen Heidentums, Berlin und Leipzig 1927, p. 102, che dichiara: “Gli idoli non sono propriamente arabi, vathan e çanam sono parole importate e cose importate”. Tuttavia, da iscrizioni cuneiformi come, e. g., il prisma di Aššûr-aḥ-idinna Th. 1929-10-12, 1 (pubblicato da Thompson, Il Prisma di Esarhaddon e Ashurbanipal, Londra 1931, pl. I – XIII e pp. 9 – 28), col. IV, ll. 1 – 14, si apprende che dalle sue vittoriose campagne contro l’Arabia, il padre di Aššûr-aḥ-idinna, Sîn-aḥḥê-erîba, portò a Ninive come bottino sei divinità arabe (tra cui dA-tar-sa-ma-a-a-in, “Ištar dei Cieli”); su richiesta di Ḫazâ’il, re degli Arabi, Aššûr-aḥ-idinna resitituì questi dei ai suoi adoratori. Quindi è chiaro che all’inizio dell’VIII secolo a.C., gli Arabi rappresentavano i loro dei, e più precisamente le loro divinità astrali, mediante immagini che potevano essere portate avanti e indietro da Ninive dai re assiri. Che queste immagini fossero, come del resto quelle poste nei templi assiri e babilonesi, statue antropomorfe e non pietre o rocce risulta con particolare chiarezza dal testo K. 3405 di Aššûr-bân-apli (traslitterato e tradotto da Streck, Assurbanipal und die letzten assyrischen Könige bis zum Untergange Niniveh’s, vol. II, Leipzig 1916, pp. 222 ss.), secondo il quale il re assiro, quando restituì per la seconda volta la “Ištar dei Cieli” (ivi riportata sotto i nomi di Dilbat e Ištar) ai suoi adoratori arabi, le fece dono di un pettine d’oro incastonato di gemme (per mulṭu<mušṭu, “pettine”, vedi Meissner, Archiv für Orientforschung V, 1928-29, pp. 183 ss., e in particolare VI, 1930-31, pp. 22 ss., che debitamente evidenzia che, in accordo a un testo rituale assiro, anche la Ištar assira riceveva in dono un pettine d’oro). Ci è perciò lecito considerare Hubal e le altre divinità arabe rappresentate da idoli come genuinamente arabi, tanto più che la leggenda sull’importazione di questi dei dalla Siria può facilmente essere così spiegata: quando i musulmani adottarono la credenza che la Ka’ba fosse stata costruita e dedicata da Abramo a suo figlio Ismaele, divenne necessario trovare una spiegazione per il fatto che, prima di Muhammad, il culto dell’idolo di Hubal e non il culto del dio aniconico di Abramo fosse praticato nel famoso antico santuario.

[51] Come ben noto (cfr. Brockelmann, Grundriss I, p. 336) le formazioni semantiche qutal sono aggettivi che indicano che l’azione espressa dal verbo relativo era eseguita in modo violento. – Manifestamente sotto l’influsso della leggenda sopracitata (vedi precedente nota) circa l’origina siriana dell’idolo, Hitti (Storia degli Arabi, Londra 1937, p. 100) propone di far derivare il nome Hubal dall’aramaico e di tradurlo con “vapore”, “spirito”. Tuttavia, egli non si preoccupa affatto di dar ragione della forma semantica qutal, né spiega come, nella sua visione, un popolo intelligente sarebbe arrivato ad attribuire un nome come questo a un’immagine fatta di pietra e metallo.

[52] Vedi Annali di Ṭabarî, edizione di Leida, vol. I, 3, 1881 – 1882, p. 1074. 53 Vedi p. 339.

[53] Vedi p. 339. 

[54] Wellhausen, nel suo discorso intorno all’Ḥağğ di ‘Arafa (op. cit., pp. 79 ss.) non ne fa mai menzione. Né ha tentato di interpretare i “resti di paganesimo arabo” conservati nel rituale di quella festa alla luce delle informazioni fornite dalle fonti cuneiformi sulle più antiche religioni semitiche. Siccome ci condurrebbe troppo lontano dal nostro argomento discutere qui nel dettaglio il motivo che rende chiaro che il culto preislamico di Mecca fosse una delle religioni astrali praticate dai Semiti in tutto l’antico Vicino Oriente, menzioniamo soltanto quelle corrispondenze che possono avere una qualche rilevanza sull’oggetto del presente scritto:

(1) Hubal, la divinità a capo di Mecca, non era l’unico dio venerato nella Ka’ba. Oltre a diverse sue figlie, le nostre fonti menzionano spesso una coppia divina, Nâila e Isâf, che, secondo aš- Šahrastânî (Haarbrücker, op. cit., II, p. 340) erano venerati sulle colline di Marwa e Şafa, sovrastanti il santuario. Come le divinità planetarie assire e babilonesi erano venerate insieme alle loro famiglie divine (come esempio pertinente menzioniamo Ningal, Nusku e Sadarnunna, rispettivamente consorte, figlio e figliastra di Sîn, che, secondo col. II, l. 18 dell’iscrizione del cilindro di Nabû-na’id B. M. 82, 7 – 14, 1025 [traslitterato e tradotto da Langdon, Die Neubabylonischen Königsinschriften, Vorderasiatische Bibliothek, vol. IV, Leipzig 1912, pp. 218 ss.] e col. II, l. 13 della sua cosiddetta iscrizione di Eski-Ḥarrân [ibidem, pp. 288 ss.] erano adorati insieme a Sîn nell’Eḫulḫul di Ḥarrân), non mancheremo di concludere che Nâila e Isâf erano ritenuti parenti prossimi di Hubal. Dal momento che a Nippur il pianeta Saturno era adorato congiuntamente ai suoi genitori, e dal momento che, come anzidetto, sia nell’Epopea Sumera di Ninurta, sia nella leggenda mitologica tramandata da Sanconiatone, la madre di Saturno, la dea della terra, giocava un ruolo importante, possiamo ulteriormente dedurre che la divina coppia di Nâila e Isâf era creduta essere quella dei genitori della divinità a capo di Mecca. Possiamo perfino azzardare un’ipotesi riguardo alla consorte di Hubal: nella letteratura cuneiforme, la sposa di Ninurta, Gula o Bau, è spesso menzionata come “la grande guaritrice” (per riferimenti vedi Tallqvist, Akkadische Götterepitheta, Helsingforsiae 1938, p. 5); dal momento che i Musulmani attribuiscono all’acqua amarognola del pozzo di Zemzem, situato nel cortile antistante la Ka’ba, il potere di guarire ogni sorta di malattie, possiamo legittimamente concludere che questo pozzo rappresentasse la dea guaritrice, la consorte di Saturno.

(2) I resoconti degli scrittori musulmani indicano che la Ka’ba ospitava non solo la statua del suo dio tutelare, Hubal, ma insieme ad essa anche trecentosessanta idoli, tutti distrutti quando il profeta conquistò Mecca (per alcuni riferimenti vedi Wellhausen, op. cit., p. 72). Non c’è ragione di dubitare (con Wellhausen) della correttezza di questa informazione, dal momento che egli ricorda un’affermazione di ad-Dimišqî (op. cit., p. 42) secondo cui i templi dedicati al culto del Sole contenevano numerose statue fatte di legno, pietra, o metallo che, collocate intorno all’immagine del dio-Sole, si diceva rappresentassero gli antichi re delle rispettive città della regione. Che quelle immagini non fossero, tuttavia, una caratteristica dei templi del Sole, è provato dal fatto che nell’arcaico tempio di Ištar a Mâri, la statua della dea rappresentate del pianeta Venere fu trovata dagli archeologi attorniata dalle immagini di re e alti personaggi in atteggiamento di devozione (vedi A. Parrot, Mari, une ville perdue, Parigi 1936, pp. 89 – 92). Lo scopo di queste statue è ben illustrato dall’iscrizione su un’arcaica statuetta di Lagaš in cui la madre di uno dei governatori di questa città dichiara di aver collocato la propria immagine vicino all’orecchio della sua divina signora affinché potesse rivolgere preghiere alla dea (vedi Thuerau-Dangin, op. cit., pp. 64 ss., sub f). Ugualmente illuminante è un’informazione contenuta nella col. II, ll. 9 ss. e 22 ss., dell’iscrizione del cilindro di Nabû’na’id di Sippar B. M. 81-4-28, 3 e 4 (traslitterato e tradotto da Langdon, op. cit., pp. 252 ss.), in cui il re babilonese dichiara che, come segno manifesto di continua devozione per il dio-Sole, egli collocò un proprio ritratto (šalam šarrûtiia) nel santuario di Šamaš a Sippar; questa statua aveva lo scopo manifesto di rappresentarlo davanti al suo dio quando i suoi doveri ufficiali gli impedivano di rendere omaggio personalmente al divino signore di Sippar. Se quindi re, regine e altri alti dignitari continuarono per secoli a porre le proprie effigi nel tempio accanto all’immagine dei loro divini signore o signora, non sorprenderà che, come si riporta intorno a Mecca, trecentosessanta statuette circondassero quella del dio. Dal momento che Muhammad rifiutò l’idea di rappresentare in immagine un essere vivente, non importa se animale o umano, i suoi seguaci distrussero, insieme alla statua d Hubal, le effigi con cui i loro precedenti re avevano espresso la loro devozione al dio patrono di Mecca.

(3)  Il famoso pellegrinaggio di ‘Arafa (cfr. Wellhausen, op. cit., pp. 79 ss.) reca tutti gli aspetti caratteristici della festa assiro-babilonese dell’akîtu. Come ben noto, queste festività erano incentrate su una processione della statua del dio dalla sua dimora principale a un santuario periferico, con trasferimento effettuato in parte mediante carro, in parte mediante zattera. Come si sa in particolare dal rituale dell’akîtu di Ḥarrân così come conservatoci da an-Nadîm nel suo Kitâb al-fihrist (ed. Flügel, vol. I, Leipzig 1871, p. 325, ll. 23 ss.), la festa culminava quando i cittadini, sia maschi che femmine, uscivano in massa per attendere il ritorno del dio in mezzo a loro (una dettagliata analisi del rituale dell’akîtu di Ḥarrân sarà pubblicata da chi scrive in un prossimo studio sulla religione di Ḥarrân). Una popolare processione di questo genere, interrotta da ripetute “soste di attesa”, ha anche oggi un ruolo preponderante nell’Ḥağğ verso Minâ e ‘Arafa.Inoltre, proprio come a Ḥarrân la processione seguiva il corso del Balîḫ fino al tempio dell’akîtu nella città di Dahbâna, i pellegrini di Mecca procedono lungo il letto del torrente che collega Minâ e ‘Arafa con la valle di Mecca; dal che è ragionevole concludere che nel periodo preislamico la zattera che trasportava la statua di Hubal viaggiava su questo fiume fino ad ‘Arafa (che, almeno in certi periodi dell’anno, questo corso d’acqua contenesse acqua a sufficienza da tenere a galla una zattera, risulta dal racconto del suo straripamento così come riferito da T. F. Keane, Sex Months in Meccah, Londra 1881, p. 177). Ulteriore attenzione deve essere richiamata sul fatto che a Ḥarrân, così come in altre comunità assire e babilonesi, uno dei temi principali della festa dell’akîtu era la mortificazione e l’auto-punizione degli adoranti seguite da una riconciliazione con la divinità; un tema che, per quanto concerne Ḥarrân, è espresso con particolare chiarezza dal nome attribuito dalle fonti medievali al tempio dell’akîtu fuori da Ḥarrân. In quanto questo nome, derivato dal verbo akkadico salâmu, “riconciliare”, ha il significato di “Riconciliazione di Sîn” o “Riconciliazione con Sîn”. Che lo stesso tema giocasse una parte nella festa meccana è evidente dal nome “Giorno del Perdono” proprio del nono giorno del mese di Du’l Ḥiğğa,il primo giorno del Pellegrinaggio (vedi al-Bîrûnî, Kitâb al-âtâr al-bâqiya ed. Sachau, Leipzig 1878, p. 334) e dall’usanza dei musulmani odierni di confessare e perdonare tutti i peccati passati dopo il loro arrivo a Minâ (vedi Keane, op. cit., pp. 143 ss., secondo cui il secondo giorno del Pellegrinaggio era il giorno in cui i pellegrini “dovevano essere assolti da tutti i loro peccati passati”). 

[55] D’Herbelot (Bibliothèque Orientale, ou Dictionnaire Universel, vol. I, La Haye 1777, p. 433) riporta una tradizione secondo cui “i dottori mistici” tra gli studiosi musulmani definiscono la Ka’ba come “il primo Tempio che Dio costruì”. Si noterà che questa tradizione è ancora più vicina alle summenzionate leggende provenienti da Nippur e Biblo di Siria rispetto alla solita storia araba che menziona Adamo e Abramo come i due consecutivi costruttori della Ka’ba.


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