Il tentativo di costruire una lingua artificiale come l’Esperanto, inventata alla fine dell’800 dall’ebreo polacco Zamenhof, con la scusa di eliminare le diversità linguistiche, causa principale — a suo dire — dei conflitti fra gli esseri umani, si è rivelato, alla lunga, un esperimento fallito. Questo progetto, apparentemente dalle forti motivazioni umanitarie, nasceva, in realtà, in circostanze sospette e per opera di un autentico contraffattore e parodista — poco importa se consapevole o meno — della creazione divina. Ed esso rivela proprio nella sua freddezza e meccanicità grammaticale le caratteristiche tipiche del male e del pervertimento, perché, come notava Attilio Mordini, «la scimmiesca redenzione dell’Anticristo, la dannazione, è quella operata dalla bestia e dal falso agnello che parla come il dragone».
Se all’origine d’ogni lingua vivente v’è una tradizione religiosa, qualcosa di invertito deve nascondersi anche dietro l’artifizio dell’esperanto, assemblato da Zamenhof rovinando e sfigurando le lingue ispirate; seguendo in questo modo le medesime orme ed applicando gli stessi metodi con cui il male perverte e devia il bene; o con cui, sul piano politico, l’internazionalismo apolide (oggi chiamato globalizzazione) scimmiotta l’Impero universale, minandone al contempo le fondamenta. Comunque, questa artificiosa costruzione da laboratorio è sempre rimasta appannaggio di insignificanti minoranze di “fissati”, non potendo in alcun modo essa affermarsi e diffondersi nell’uso comune, mancando di una unitaria ispirazione stabilizzatrice e dell’indispensabile vitalità realizzatrice del linguaggio umano, del tutto inconciliabili col suo sincretismo.
Ma una lingua “franca” dalla diffusione universale era tuttavia già disponibile, prestandosi perfettamente allo scopo che si erano prefissati gli esperantisti. Anch’essa ridotta, nell’uso globalizzato con cui si è andata imponendo a livello mondiale, ad espressioni impoverite sintetiche e malamente articolate, qual è l’inglese che si parla oggi, non più solo nell’area anglosassone (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Gran Bretagna), ma anche nella (fasulla!) Unione Europea e nei rimanenti Paesi “civilizzati e democratici”. Inglese che, per la semplificazione, l’erosione e l’appiattimento subiti, è assurto a linguaggio ufficiale dei sudditi del colonialismo globalista.
E quando Federico Rampini, a proposito dell’inglese, lamentava di recente sul Corriere della Sera che «in nord Europa ci sono Paesi che [lo] conosco bene, dalla Danimarca alla Svezia, dove le grandi università insegnano ormai corsi solo in lingua inglese e i bambini sono abituati a vedere i film americani in lingua originale quando hanno cinque anni. Questa storia prendetela sul serio vi prego. Non perché io abito in America e devo parlare l’inglese dalla mattina alla sera ma sapere l’inglese oggi è come avere la patente di guida. È essenziale soprattutto per i giovani per qualunque lavoro vogliano fare: dobbiamo darci una mossa»; ci troviamo davanti a un tipico esempio di come, con la contraffazione delle parole e l’uso distorto dei termini, quello che è un impoverimento, un segno di colonialismo culturale e una rinuncia alla propria identità, di cui la lingua è elemento primario e fondamentale, possa venire contrabbandato per invidiabile obiettivo, segno di crescita civile e dimostrazione di progresso.
Anche perché non va mai dimenticato che le comodità, le scorciatoie e gli apparenti vantaggi pratici hanno sempre un caro prezzo da pagare: non solo in beni materiali ma, soprattutto, sul piano psichico e spirituale.
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