In questo articolo cercheremo di trattare del cannibalismo indagando qual è il significato etnologico, simbolico e iniziatico che ha spinto, e tutt’ora spinge in certi sporadici casi, a mangiare le carni dei propri simili. Lo faremo senza indugiare sull’aspetto raccapricciante e morboso dei fatti, anche se indagheremo sull’aspetto psicopatologico di alcuni eventi.
di Roberto Eusebio
Nel 1993 il regista Frank Marshall dirige il film Alive (Sopravvissuti) [1]. La storia si rifà ad un fatto realmente accaduto che si riferisce al disastro aereo delle Ande del 1972, dove il 13 ottobre una squadra uruguaiana universitaria di rugby, accompagnata anche da alcuni familiari sul volo FH-227D, si schianta sulla cordigliera delle Ande. Nell’impatto riescono a salvarsi 33 passeggeri che decideranno, dopo giorni, di cibarsi, per non morire di fame, dei corpi dei loro compagni morti. La disgrazia avrà un epilogo positivo per il coraggio di due passeggeri che riusciranno nell’impresa di attraversare le Ande e raggiungere il Cile, dove chiederanno soccorso. Il film indugia sull’aspetto di sopravvivenza e sui vari aspetti sentimentali e morali in cui nasce e cresce l’idea dell’agonia e dell’inevitabile crisi psicologica e morale dei vari individui nonché dell’isolamento dalla realtà del mondo e nello sgomento della morte.
Ora, al di là degli eventi cinematografici, testimoni drammatici di un fatto reale che abbiamo preso a spunto dell’articolo, vorremmo ripercorrere la storia del cannibalismo che, ancora oggi, ci colpisce allo stomaco come un pugno. Quando il fatto avvenne si sollevarono inquietanti domande che si rinfocolarono all’uscita del film. L’opinione pubblica si divise sulla morale e sulla responsabilità giuridica dell’atto che comportò un dibattito sia tra i sopravvissuti e sia poi tra l’opinione pubblica. Tuttavia in seguito alla loro avventura, che sarà ribattezzata dai media il “milagro des los andes”, saranno moralmente assolti da tutta l’opinione pubblica e dallo stesso Vaticano.
A distanza di più di cinquant’anni, in questo articolo, non indagheremo né sugli aspetti psicologici dei sopravvissuti né tanto meno sull’aspetto morale e legale del fatto, cercando di essere liberi da pregiudizi. Ma la storia che vorremmo portare all’attenzione dei lettori ci induce ad analizzare, con l’occhio dell’antropologo, ciò che l’uomo, attraverso i secoli e la morale, ha nascosto e seppellito a se stesso — il cannibalismo — chiudendo tutte e due gli occhi su ciò che ancora oggi avviene. Nella rarefazione di studi esplicitamente dedicati al fenomeno spicca, per contrasto, la ricchezza interpretativa e documentaria del magnum opus di Ewald Volhard [2]. Lo studioso tedesco offre infatti allo sguardo del lettore una raccolta, estremamente ricca, di esempi provenienti da tutto il mondo, appaiati a una schematizzazione interpretativa che ha il pregio di raccogliere e riassumere agevolmente, in poche varianti, un fenomeno di così irta complessità.
Noi cercheremo, nel nostro piccolo, di trattare del cannibalismo indagando qual è il significato etnologico, simbolico e iniziatico che ha spinto, e tutt’ora spinge in certi sporadici casi, a mangiare le carni dei propri simili. Lo faremo senza indugiare sull’aspetto raccapricciante e morboso dei fatti, anche se indagheremo sull’aspetto psicopatologico di alcuni eventi. Si parlerà quindi di antropofagia. Non mi si fraintenda: il soffermarsi su un tale argomento non vuole dire che prosciogliamo tali fatti da un giudizio morale censuratorio. Vorremmo solo restituire, attraverso uno studio imparziale, un valore ed una simbologia, là dove è esistita, smarrita per strada e forse non compresa.
Francisco Goya, Saturno che divora i propri figli, 1821
Ora, se cerchiamo la spiegazione etimologica di tale parola, la sua definizione, ci dice che deriva dal greco: da ἄνθρωπος, “uomo” e φαγέω, “mangiare”, sinonimo quindi di cannibalismo umano, pratica che, nonostante tutto, è ancora diffusa presso alcune società. Questa è la cruda realtà dei fatti. Non di meno le circostanze sono molto più complesse di quello che si pensa. Nella nostra ricerca, tra i tanti autori che si sono interessati all’argomento, alcuni lo separano dal sacrificio, come atto vero e proprio. Noi pensiamo che sia un preziosismo speculativo poiché, secondo quanto abbiamo potuto conoscere, il cannibalismo è una parte di un atto veramente sacrificale (inteso come rendere sacro) poiché, nei suoi vari aspetti, per la maggior parte, era un rito di riconoscimento allo spirito della vittima che veniva consegnato, attraverso il pasto rituale, al dio e alle praterie celesti.
La storia del cannibalismo si dipana attraverso i millenni a partire dalle più antiche culture tribali preistoriche, giungendo in realtà, inaspettatamente, sino ai giorni nostri, suscitando da una parte curiosità e studio scientifico, dall’altra disgusto e ribrezzo. Comunque sia, un dato di fatto è che all’origine del mondo, secondo ciò che ci raccontano i miti, ci sono divinità crudeli e spaventose, che si rivelano degne di un racconto di Lovecraft. Per tutti l’esempio di Crono-Saturno che si ciba dei figli [3] o dei Lestrigoni, popolo leggendario di giganti antropofagi di cui parla Omero nell’Odissea, oppure il ciclope Polifemo o ancora il terribile ed insaziabile dio Baal-Molok, una delle principali divinità della religione Siro-Cananea e Fenicia: il divoratore di vergini e di fanciulli che si trasformerà in Crono e poi in Saturno.
Stephen King nel saggio Danse Macabre, scrive:
Il nocciolo della questione è che l’orrore esiste e basta, al di là di definizioni e razionalizzazioni. Ed esiste da sempre, tanto che gli archetipi delle nostre paure più profonde si ritrovano nelle leggende delle civiltà antiche: per quanto riguarda noi Occidentali, l’orrore ha le sue radici nella cultura greca e latina, nel mito e nella tragedia. [4]
Ora, passati i millenni, estinti i miti, in una società contemporanea, se si vuole capire i motivi di tali espressioni considerate aberranti ma ancora oggi praticate da alcune etnie, sarà necessario indagare tutte le implicazioni antropologiche — sociali, sacrali, psicologiche, politiche — che risultano coinvolte in tali vicende. Si tratta quindi di un fenomeno difficile da indagare e circoscrivere, stante la peculiare diversità di accezioni a cui tale indagine si presta; inoltre è argomento complesso da indagare, e comunque difficile da integrare culturalmente in una qualsiasi società. Risulta impossibile da descrivere, nel concreto, per la scarsità di esperienze fatte dagli osservatori.
Peraltro il termine cannibale e cannibalismo verrà citato, per la prima volta, da Cristoforo Colombo, che lo userà facendolo derivare dal nome delle popolazioni additate dai nativi americani come tribù di uomini dediti all’antropofagia: i Cannibi o Caribi, da cui deriverà il termine Caraibi. La storia antica ci riporta comunque notizie di cannibalismo molto più datate attraverso la testimonianza di storici e naturalisti. Le troviamo nelle Storie di Erodoto dove vengono descritti i popoli degli androfagi e dei massageti, antiche tribù sciite; nella Storia Naturale di Plinio il Vecchio e nella Introduzione Geografica di Talete vengono riportate osservazioni di episodi in Irlanda, nell’altopiano iraniano, nelle regioni dell’alto Nilo e nel cuore dell’Africa nera. In seguito Marco Polo parlerà dell’isola di Sumatra, del Giappone e delle isole Andamane nell’Oceano Indiano. Ne parlerà lo stesso Dante, anche se in maniera ambigua, nel canto XXXIII dell’Inferno in cui mette il Conte Ugolino murato vivo a Pisa assieme ai due figli e ai due nipoti, nella torre del Muda, dove «più del dolor poté il digiuno». Il conte, secondo la versione tramandata, si ciberà dei figli e dei nipoti [5]. A questo punto però, per una concreta comprensione, dovremo risalire il fiume del tempo e cercare di scoprire una indicazione razionale e onesta.
Nella più tarda antichità il pasto cannibalesco era un rito e una pratica cultuale accettata all’interno di diverse etnie, nonostante quello che ci è stato raccontato; non solo, ma non rappresentava assolutamente una pratica turpe e immorale. L’argomento che gli studiosi di antropologia hanno voluto limitare a una pratica tribale selvaggia non sembra reale. In effetti nel corso dei tempi e nelle diverse culture essa si sviluppa in un territorio morale molto più vasto e comprensivo di quello che si può credere e arriverà, con tutto ciò che comporta, sino ai giorni nostri passando per l’età antica, il medioevo e l’età moderna. In questo ultimo caso, purtroppo, con manifestazioni criminali raccapriccianti che interesseranno la patologia psichiatrica. Schegge impazzite, queste sì, di una società malata. Ma non fatevi ingannare: l’idea che il cannibale rappresenti un individuo primitivo è vero agli inizi, ma che sia comunque e sempre un barbaro, le cui manifestazioni siano esclusivamente imputabile ad una cultura ed a una società ‘arretrata’, non è vero.
Scena di cannibalismo, tratta da Americae Tertia Pars…, 1592
È necessario comunque andare con ordine. Tale pratica arcaica viene descritta da archeologi eterodossi in un contesto che, si pensa, sia stato inizialmente di magia rituale, anche se allo stato dell’arte non ne possiamo essere certi. Tra i Magdaleiniani (popolo preistorico di 14.700 anni fa, nella caverna di Gough, nella contea inglese del Somerset, situata nella gola di Cheddar) l’ora di pranzo non era per i deboli di cuore: nel menù del giorno c’erano esseri umani, e a consumarli erano i loro simili. Tuttavia, a parte ogni battuta e prima di stigmatizzarne l’atto, per quanto macabro possa sembrare, dobbiamo prendere in considerazione che questa possa essere stata un’espressione di comportamento complesso, carico di un reale simbolismo e manifestazione di un sistema composito di credenze spirituali.
Non sicuramente per arricchire la propria dieta, come è stato teorizzato, poiché, a parte gli scarsi ritrovamenti, è accertato che la dieta dei Magdaleniani era basata da prede animali cacciate, e quindi non pare che tale cannibalismo sia da mettersi in relazione a motivazioni alimentari. È presumibile che tale pratica assumesse un valore rituale connesso a cerimonie post-mortem in cui i resti umani venivano trattati in un modo particolare e sicuramente non per vilipendere il cadavere ma, piuttosto, per onorare il defunto o comunicare con il suo spirito. In questo caso poteva essere solo il celebrante che si cibava delle loro carni o, in alternativa, con un pasto comunitario, poiché probabilmente rappresentava un processo di incorporazione transustanziale.
Si è compreso che il cannibalismo sembra essere stato praticato, nella maggior parte delle sue manifestazioni, in tempo di pace e secondo modi prescritti attraverso rituali ben definiti, mentre il cannibalismo in tempo di guerra poteva consumarsi soltanto alla fine e sul luogo dello scontro tribale con metodi forse più sbrigativi. In tali eventi, secondo ciò che è stato riportato dai cronisti di quel tempo, sembra che, il pasto sacro si verificasse con più frequenza di quello che si possa pensare. In effetti le cronache ci dicono che il cannibalismo si è verificato in contesti non particolarmente depravati, realizzandosi attraverso un tessuto sociale maturo e in contesti culturalmente evoluti. I documenti, le testimonianze storiche, i memoriali di viaggi e i cronisti anche dopo il Medioevo, sono una ricchissima fonte di materiale che ci raccontano come il cannibalismo, comunque si manifestasse, fosse parte della società del tempo non solo a fronte di carestie, ma derivante da una abitudine conclamata.
La scienza antropologica, al di là di ciò che è stato riportato dagli storici antichi, come abbiamo visto fa risalire tali abitudini a tribù del Paleolitico; eppure la più antica testimonianza risale a circa 850.000 anni fa ad opera dell’Homo antecessor nella Gran Dolina, in Spagna nel periodo neandertaliano [6]. Gli esempi si moltiplicano in epoca storica, grazie alle ricerche sistematiche degli archeologi o attraverso fortunosi ritrovamenti, come successe per i resti della cultura Anasazi, popolo ancestrale amerindo che abitò il nord America nella Mesa Verde in Colorado tra il I e il XIV sec d.C. dove, nella fase finale di decadimento della loro civiltà, i problemi relativi alla sopravvivenza furono tali da rendere obbligatorie pratiche di cannibalismo. Saranno successivamente i missionari cristiani, al seguito delle conquiste spagnole presso gli Amerindi brasiliani, a riferire per quella tribù comportamenti antropofagi e a censurare tali pratiche.
Pratiche da cui gli stessi Crociati non furono immuni, nonostante l’appartenenza a un ordine religioso. L’evento raccapricciante, che viene sottaciuto per l’efferatezza, il contesto e gli attori, si riferisce a ciò che avvenne nella prima crociata del 1098, durante la conquista della città di Marra nel Principato di Aleppo. Rodolfo di Caen, un cronista francese che partecipò all’assedio al seguito dei Normanni di Puglia, nella sua opera Gesta di Tancredi, riporta come un’improvvisa e incessante pioggia rovinò le riserve di grano e di pane dei Crociati, facendole rapidamente marcire. A questo punto del racconto, Rodolfo riporta le testimonianze dei Crociati stessi che affermavano di essersi cibati dei cadaveri dei pagani, e non solo, dopo la loro caduta. Secondo lo storico i crociati si diedero a violenze e razzie, testimoniando come i pagani adulti venissero bolliti in pentoloni mentre i bambini erano messi allo spiedo. L’episodio verrà ricordato in seguito da Amin Maalouf nel suo libro Le crociate viste dagli arabi (1983).
Nonostante ciò che avrebbe dovuto insegnare la morale, anche solo quella naturale, gli eventi di cannibalismo alimentare fanno parte della storia di molte più nazioni, per molteplici motivi. Abbiamo testimonianze in Australia, in Africa, in Birmania, nell’isola di Pasqua, in Russia, nella Corea del nord. In tempi a noi più vicini il cannibalismo è stato un dato reale registrato dalle istituzioni di statistica nonché dalle notizie storiche. Per fare un esempio ci riferiamo alla carestia russa del 1921-1923, chiamata Holodomor, (carestia) e allo sterminio di 6 milioni di persone, perpetrato dal regime sovietico, a danno della popolazione ucraina, negli anni 1932-1933.
L’evento fu testimoniato da quelli che scamparono alla caccia e all’uccisione, e venne confermato dalle notizie rinvenute negli archivi sovietici. All’epoca ne fu informato anche il governo italiano. Durante questa carestia, i casi di cannibalismo furono migliaia e si verificarono prevalentemente con atti criminali. Molti bambini furono rapiti e uccisi per vendere la loro carne, spacciata come carne di origine animale a prezzi altissimi determinati dalla carenze di cibo. Eventi che ebbero identica conseguenza avvennero nel 1941, durante l’assedio di Leningrado ad opera dei tedeschi, che durò dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944. In quel periodo il cannibalismo era all’ordine del giorno: un’équipe di medici rilevò come tale abitudine fosse diventata una pratica di sopravvivenza comune, senza distinzioni di classe sociale, sesso o età; gli arresti per cannibalismo furono stimati in circa mille al mese.
Cannibalismo nella regione del Volga durante la carestia del 1921
Da ciò che precede non possiamo che prendere atto come, in questi casi, lo spirito di sopravvivenza nell’uomo sia riuscito a travalicare i limiti che l’essere umano, in termini speculativi, si era dato a seguito della morale, dell’etica di gruppo e dei principi religiosi e familiari. D’altra parte, tali accadimenti non furono estranei nemmeno nella Bibbia. Nel Levitico Yaweh stabilisce benedizioni per il popolo, se perseguirà con fedeltà la sua legge, ma nel contempo orrende e mostruose condanne se la rifiuterà. Tra le conseguenze nefaste della eventuale disobbedienza, è elencato anche il cannibalismo:
Se, nonostante tutto questo, non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie.
(Lv 26:27-29)
e più oltre nel Deuteronomio si legge:
Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donna del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi figli, delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e delicata tra voi, che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pianta del piede, guarderà di malocchio l’uomo del suo seno, il figlio e la figlia, e si ciberà di nascosto di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà, mancando di tutto durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città.
Dt 28:53-57
Durante l’assedio di Samaria, una donna chiede giustizia al re Jehoram (tratto dal secondo dei Libri dei Re):
Ci fu una carestia eccezionale in Samaria, mentre l’assedio si faceva più duro […] Il re chiese alla donna: “Che hai?”. Quella rispose: “Questa donna mi ha detto: ‘Dammi tuo figlio; mangiamocelo oggi. Mio figlio ce lo mangeremo domani’. Abbiamo cotto mio figlio e ce lo siamo mangiato. Il giorno dopo io le ho detto: ‘Dammi tuo figlio; mangiamocelo’, ma essa ha nascosto suo figlio”. Quando udì le parole della donna, il re si stracciò le vesti.
2Re 6:28-30
Sarà infine ancora la letteratura biblica che sancirà l’antropofagia come disobbedienza e maledizione, poiché colui che mangia un altro essere umano commette il più grave peccato possibile e lo fa con un atto di “depravata disperazione”. Questo passo, letto come negativo, ci indica però che l’antropofagia nei popoli e nelle società considerate evolute ha rappresentato agli albori una condotta concepibile che poteva rientrava in una sorta di ritualità. Anzi tale atto, che allora non racchiudeva probabilmente nulla di disdicevole, forse presupponeva una sorta di misericordia del sacrificio umano supportato da una credenza di magia spiritica. In seguito tutto cambiò, subentrando il concetto morale di preservazione del corpo come involucro dello spirito. Nel cristianesimo, nel Nuovo Testamento, il concetto verrà sostenuto da San Paolo che dirà: «Non sapete voi che siete il tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio abita in voi?… Il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi» (1 Corinzi 3:16–17). «Il tuo corpo è un tempio per il tuo spirito».
Una domanda viene spontanea: perché mangiare un altro uomo? Per l’umanità “primitiva” il vivere in un contesto tribale probabilmente l’aveva portata a sviluppare un forte legame di gruppo, dove l’insieme del patrimonio etnico poteva rappresentare una eredità preziosa da preservare in diversi modi tra cui l’endocannibalismo, quando cioè ci si nutriva delle ossa, delle ceneri e delle carni dei parenti o dei capi che avevano lasciato il mondo dei vivi. Lo scopo ipotetico era impedire che le loro “virtù” andassero disperse, e con tale rito acquisire così magicamente la loro forza. In questo caso il cannibalismo era accettato e ammesso come pratica necessaria e “normale” per onorare i propri avversari, i capi o i familiari. Gli antropologi hanno spiegato come tali atti rappresentavano una sorta di superstizione e di magia ancestrale. Sarà proprio così?
Oggi il cannibalismo è uno dei tabù più forti in assoluto; questo potrebbe essere il motivo per cui è stato considerato, per contrapposizione, uno dei rituali più sacri in tutto il mondo fin dalle ere preistoriche. Le varie spiegazioni di carenza alimentare sono una pura speculazione; anzi, il cannibalismo negli antichi è connotato da caratteristiche fortemente rituali e non contingenti. Il rito e il suo compimento, generalmente, si rifacevano al momento della creazione del mondo o di eventi cruenti legati agli dèi primordiali. Alcune cosmogonie dei popoli antichi sono fondate su un atto in cui veniva sacrificato il dio padre e le sue membra divenivano le parti del cosmo [7]. Da qui a trascendere, la consumazione sacra di carni umane immagina il ripetere l’atto primigenio e tale passo è breve. Inoltre il rito in qualche maniera non solo esorcizzava la morte del sacrificato che assurgeva alle verdi praterie ma, nel contempo, proteggeva chi celebrava il rito e lo stesso popolo. Detto per inciso le vittime, come vedremo, erano orgogliose, pensiamo verosimilmente con una certa apprensione, di essere scelte per il sacrificio e consumate nel sacro pasto. Anche se, alla fine, dovevano legarle.
Di genere diverso anche se connotato da riti specifici, il cibarsi del corpo o parti del corpo dei propri avversari, come è stato postulato dagli antropologi. Tale atto si presume avesse lo scopo non solo di impadronirsi del loro coraggio, ma di onorare e rendere il loro stesso martirio sacro elevandolo a viatico spirituale. La loro morte e il loro corpo diventava, in tal maniera, il riconoscimento che il nemico aveva rappresentato un avversario onorevole e valoroso la cui morte e la conseguente consumazione sacrificale del suo cuore o di altre parti del suo corpo rappresentavano un atto di considerazione venerabile.
Tale azione in cui parti del corpo venivano consegnate alla pira sacrificale e al suo fuoco rappresentava rendere il caduto al dio della loro tradizione per farlo pervenire nelle oasi eterne [8]. Nel contempo lo spirito guerriero insito nelle carni alimentava, come pasto sacro, il coraggio del suo sacrificatore. Tale rituale ipotizziamo potesse avvenire in due modi: il primo con il sacrificio dei nemici catturati che venivano sacrificati sull’altare, in cui il sacerdote prelevava il cuore ancora battente e se ne cibava oppure, il sacrificio immediato, probabilmente comunitario, fatto nel luogo dello scontro, traendo così magicamente tutta l’audacia e l’eroismo guerresco. Ancora oggi in tempi recenti in Africa, tra i casi più famosi di cannibalismo che si potrebbe definire di appartenenza, è noto quello della setta segreta degli uomini-leopardo [9] che tra il XIX e la prima metà del XX secolo assassinò numerose persone in Africa occidentale. Tale setta imponeva ai propri membri il cannibalismo per rafforzarne la fedeltà ed il senso di appartenenza. In altri casi sono stati documentati atti di cannibalismo etnico su prigionieri, sia in epoca precoloniale che durante i conflitti di natura etnica dell’Africa post-coloniale, tra cui ricordiamo le guerre civili del Congo e della Liberia, nonché i conflitti in Uganda e in Ruanda. In questi particolari casi si deve aggiungere il movente politico per effetto dell’infiltrazione del potere occidentale per una restaurazione delle gerarchie tribali tradizionali [10] e per mero interesse economico.
L’antropofagia era, e forse lo è ancora, parte di un contesto di iniziazione e di passaggio all’età adulta, in cui l’amputazione di parte del proprio corpo proseguiva nel pasto sacro riecheggiando in tal maniera al di là di ogni considerazione blasfema l’eucarestia per confermare la determinazione, la forza, il coraggio e il ringraziamento con il sacrificio per la propria inclusione. Alcuni studi vedono l’atto sacrificale come l’oblazione alla gloria del dio, nella maniera che questi potesse saziarsi delle sue stesse creature. Il dio in questa maniera dal suo paradiso celeste si compiace dei suoi fedeli che in qualche maniera ritornano alla casa del padre. Nel vangelo il Cristo dice:
In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Siamo perfettamente consci che il concetto biblico è di ordine simbolico e forse l’analogia, come abbiamo detto, può sembrare blasfema e sembra stridente: già al tempo di Cristo, la pratica di “Mangiare Dio” scandalizzò molti non cristiani e fedeli. La Chiesa stessa ha dibattuto tale pensiero speculando [11] e negando un parallelismo sulle abitudini di alcuni popoli pagani ma, al tempo stesso, non poteva smentire la parola del Cristo. Secondo la Chiesa la transustanziazione del corpo di Cristo è un dogma, ovvero secondo il significato è un principio di fede definito però dalla chiesa degli uomini, in particolare dal Concilio di Trento del 1545. In pratica, e me lo si consenta, è una speculazione umana e non una rivelazione divina. Se devo credere che le particole dell’ostia e il vino possano trasformarsi nel sangue e nel corpo di Cristo ho, per assurdo, lo stesso diritto di credere, facendo parte di una tradizione che crede nel pasto sacro, di ricevere parti del corpo di qualsiasi congiunto o a me superiore per condividere la sua essenza e la sua parte spirituale.
D’altra parte i cosiddetti “mangiatori di uomini” non erano solo individui mostruosi o malvagi, simili agli orchi delle leggende o delle fiabe, ma erano gente comune: cristiani, cavalieri, re, giovani ragazze, buoni cittadini, sani ed ammalati, viandanti, eremiti, guerrieri: tutte inconsapevoli vittime, tutti potenziali carnefici. Tant’è vero che l’idea transustanziale diventava pericolosa e quindi, immediatamente dopo l’istituzione dell’eucarestia, i padri della chiesa si diedero da fare a confutare con tutta la propria dialettica l’accusa infamante di antropofagia del Cristo.
Cannibali ugandesi
Abbiamo visto come l’antropofagia nei tempi antichi non è stato un atto riprovevole, anzi tale pratica significava il riconoscere e condividere l’appartenenza, mantenere e preservare le esperienze e il sapere all’interno del gruppo etnico [12]. Il cannibalismo non ha un unico significato. L’attuale nostro pensiero moralistico è fondamentalmente sbagliato poiché non tiene conto del contesto magico-spirituale della cultura in cui è o è stato praticato e del fatto che la nostra morale parziale e temporanea lo vieta [13].
Tutto l’antico periodo storico è caratterizzato da testimonianze di cannibalismo sacro la cui ragione viene, forse, spiegata da ciò che facevano, nel 1500, alcuni monaci tibetani consumando ritualmente delle “pillole di carne”. Questo è un altro rito simil-eucaristico, la cui idea si fonda sul fatto che queste “pillole di carne” connetterebbero soggetto e oggetto, oltrepassando così il confine di separazione tra sacro e profano; per cui i monaci avevano la possibilità di incorporare la compassione dei Buddha passati e, al contempo, di ricordare al fruitore delle particole la propria natura transitoria e la mortalità della propria carne [14].
Certamente noi uomini del nostro tempo, con la morale attuale, non possiamo concepire gli usi sacri dell’antropofagia e del suo aspetto superiore. Ancora oggi esistono sette per le quali il mangiare carne umana è legata alla loro evoluzione spirituale. La setta degli Aghori, per esempio, è un ordine ascetico monastico di Sadhu Shaiviti nell’Uttar Pradesh, in India. Sono una delle principali tradizioni indiane e la forma più estrema del tantrismo, l’unica setta sopravvissuta derivante dalla tradizione Kāpālika, concentrata prevalentemente nella città santa di Varanasi. Questi sono soliti consumare carne umana per il proprio percorso di ricerca dell’illuminazione. I metodi Aghori, sebbene contrari all’induismo tradizionale, esemplificano la loro filosofia, condivisibile o meno, nel criticare le relazioni sociali e le paure comuni attraverso l’uso di atti culturalmente offensivi e riprovevoli per superare la dualità della vita. Inoltre dimostrano l’accettazione della morte come parte necessaria e naturale dell’esperienza umana e della sua evoluzione. Il cadavere su cui meditano e di cui si cibano è un simbolo del loro corpo e della trascendenza del Se inferiore e della realizzazione del Se supremo. Lo scopo del culto è liberarsi dalla ruota delle reincarnazioni attraverso la pratica della meditazione nonché di un ascetismo estremo, fino a fondere il proprio sé (Atman) con il tutto (Brahman). Inoltre l’urofagia e la coprofagia sono pratiche ampiamente diffuse all’interno della setta [15]. Il cannibalismo che gli Aghori praticano sui cadaveri avrebbe uno scopo preciso: quello di assorbire, come abbiamo visto per i monaci tibetani, perché ne divenga loro parte, la “Shakti” (ovvero l’energia vitale), assorbendo così tutti i “poteri” acquisiti dal morto nel corso della sua vita.
Monaco Aghori
Il ricercatore, l’antropologo o lo psichiatra e in genere lo scienziato cerca di inquadrare le varie forme di cannibalismo all’interno di un sistema classificatorio, è questo l’approccio scientifico alla luce del nostro attuale credo e della nostra attuale morale. Quattro sono secondo noi le classi di identificazione:
- Cannibalismo rituale: come parte di cerimonie etniche o rituali di iniziazione o di passaggio.
- Cannibalismo per la sopravvivenza in condizioni estreme
- Cannibalismo funerario
- Cannibalismo magico
Di queste quattro suddivisioni abbiamo già trattato il cannibalismo rituale, che ha come capostipite gli Aztechi, tra cui questa usanza verrà addirittura istituzionalizzata in religione. Il mito ancestrale alla base della religione azteca si richiama alle origini dove gli dèi, secondo i miti, dopo aver distrutto e ricreato il mondo, si erano dovuti sacrificare gettandosi nel fuoco per preservare il calore, la luce e il moto del sole. Da questa leggenda il popolo era tenuto a preservare tale tradizione e l’esistenza stessa del sole, nonché sacrificare e cibarsi delle vittime a guisa di pasto eucaristico. Le stesse vittime consideravano un grande onore l’essere sacrificati [16]. Dopo il rito cruento, i macellai indios smembravano le vittime tagliando loro braccia e gambe distribuendole tra gli astanti, nobili e soldati.
Sul tema dei rituali di passaggio dei giovani, questi erano sottoposti a complessi riti che coinvolgevano sia il corpo, con la dimostrazione di sopportare il dolore, mentre altri mettevano a dura prova la resistenza psicologica e morale dei giovani aspiranti alla maturità. Il cannibalismo era uno di questi necessario a passare dalla condizione fanciullesca all’età adulta. Il rito si presentava come un indispensabile atto di violenza, un trauma psicologico, un “agito” che svolgeva una funzione catartica che in qualche maniera rassicurava il soggetto nel concetto della accettazione e nella inclusione da parte della tribù. Nel contempo preparava il giovane ad affrontare le fasi successive, anche traumatiche o violente del suo percorso evolutivo.
Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1819
Diverso è il cannibalismo per la sopravvivenza in condizioni estreme. Qui l’idea del sacro può essere sublimata nel mantenere la sacralità della propria vita. L’esempio con cui abbiamo aperto questo articolo è emblematico come pure la tragedia, avvenuta nel giugno del 1816 dove la fregata francese a vela Méduse, partita da Rochefort in direzione del porto di Saint-Louis, sulle coste del Senegal, per l’incompetenza del capitano finì per incagliarsi sulle secche del Banc d’Arguin, nei pressi di Nouadhibou, in Mauritania. Sulla zattera di fortuna 20 persone morirono già la prima notte, mentre al nono giorno i sopravvissuti cominciarono a cibarsi dei cadaveri dei compagni. Il tredicesimo giorno molti erano morti per fame oppure gettandosi in mare in preda alla disperazione. La zattera condusse tragicamente i sopravvissuti alle frontiere dell’esperienza umana: impazziti, assetati e affamati, scannarono gli ammutinati, mangiarono i loro compagni morti e uccisero i più deboli. Alla fine i superstiti vennero salvati dal battello Argus che il 17 luglio, all’alba del tredicesimo giorno, raggiunge la zattera.
Un esempio dei riti post mortem sono quelli del popolo Fore nell’arcipelago della Papua Nuova Guinea, in Oceania. Il cannibalismo fa parte della loro cultura ma soprattutto nel culto dei morti. Non siamo a conoscenza se attualmente tali pratiche siano ancora celebrate; sta di fatto che quando una persona moriva, i suoi cari, secondo il rituale, ne mangiavano i resti, in particolare il cervello. Sino agli anni ’30 nessuno sapeva della loro esistenza poiché era un popolo isolato con caratteristiche culturali molto specifiche. Questa popolazione fu scoperta negli anni cinquanta e fu individuato anche il kuru, un tipo di malattia neurologica endemica, che decimò i Fore negli anni a cavallo tra il 1950 e il ’60. Il kuru è causato da un prione (un “agente infettivo non convenzionale” di natura proteica) che provoca una grave demenza. Lo stesso termine, kuru, in lingua Fore, significa “tremare”, in riferimento alla condizione provocata dal prione. Tuttavia nel sangue degli indigeni ultimamente è stato isolato un gene, risultato di una mutazione spontanea, che oggi li rende immuni al kuru.
Cerimonia funebre Fore
Particolare menzione, nei territori africani, spetta all’utilizzo di organi umani usati nei rituali di alcuni stregoni dell’africa subsahariana, in particolare nel Malhawi. Ciò avviene particolarmente con gli organi di soggetti albini, poiché è diffusa la credenza secondo cui queste persone non sarebbero esseri umani, ma “fantasmi incarnati“, creature sovrannaturali. Questa credenza determina che alcuni guaritori “Muti” (la medicina tradizionale di quella zona dell’Africa) ritengano di poter ricavare potenti talismani dal loro corpo e dai loro organi: questi avrebbero poteri magici e sarebbero in grado di guarire, ingerendo parti del loro corpo, diverse malattie, oltre ad essere in grado di portare fortuna. Tale credenza è tanto radicata che questi disgraziati vengono cacciati, trucidati e smembrati per creare pozioni magiche.
A voler trarre delle conclusioni gli aspetti del cannibalismo sono molti e non si lasciano inquadrare in maniera razionale. In effetti questo è un itinerario che riserva un sacco di circostanze e contrasti anche impensabili. Lo scritto ha cercato di eliminare una certa patina raccapricciante ed erronea, per trovare un fondo di verità ma anche per capire il profondo significato della morte quale essa sia e ciò che ne segue. In maniera che, come dice Hannibal Lecternel film Il silenzio degli innocenti, Ogni atto creativo ha conseguenze distruttive. Il dio indù Shiva è sia distruttore che creatore. Quello che eri ieri è uno scarto che fa sorgere quello che sei oggi.
NOTE:
[1] La storia verrà ripresa nella film spagnolo del regista J.A. Bayona, La sociedad de la nieve del 2023, in un remake del film I sopravvissuti delle Ande del 1976 e per l’appunto Alive – Sopravvissuti del 1993.
[2] Ewald Volhard (Giessen, Assia 1900 – Hasselt, Renania 1945) etnologo e germanista, è stato uno dei più autorevoli antropologi del XX secolo. Negli anni trenta ha partecipato a numerose spedizioni di studio in Medio Oriente, in Libia e in Europa meridionale.
[3] Celebre il dipinto di Goya di Saturno che divora un figlio.
[4] Per noi, lo spavento è l’orrore è dato dall’ignoranza del significato dell’atto e in questo purtroppo ne ha causa la morale religiosa.
[5] Di questo epilogo non vi sono prove certe, anzi pare proprio che non avvenne così.
[6] La Gran Dolina è una dolina carsica, ovvero una depressione circolare del terreno, ubicata nei pressi della città di Atapuerca, nella provincia di Burgos.
[7] Due esempi: il mito di Ymir smembrato per la creazione della terra di mezzo. “Dalla carne di Ymir fu fatta la terra, dal suo sangue il mare, gli alberi dalla chioma, dalle sue sopracciglia fecero gli dèi benedetti Miðgarðr per i figli degli uomini, dalle ossa le montagne, dal cranio il cielo, dal suo cervello furono create tutte le tempestose nuvole”. Altra tradizione quella giapponese dove il cielo e la terra vennero creati da Tiamat, tagliata in due, e uccisa dal dio Marduk che con il sangue del mostro Kingu creò gli uomini.
[8] Nella tradizione norrena la vita di un essere non era che un passaggio e la morte non era causa di terrore ma un’aspettativa di entrare nel Valhöll (Valhalla) che era il luogo dove venivano accolti tutti i caduti in battaglia, accompagnati presso le porte del Valhalla dalle valchirie, leggiadre guerriere figlie di Odino.
[9] Le società degli uomini-leopardo, anche chiamate Anyoto/Aniota sono società segrete tradizionali della cultura di diverse regioni dell’Africa occidentale e dell’Africa centrale. In epoca coloniale, e in particolare a cavallo fra il XIX e il XX secolo, le società degli uomini-leopardo del Congo Belga e di altri paesi dell’Africa centro-occidentale come Nigeria e Liberia si vennero sempre più connotando come organizzazioni violente, fondate sull’omicidio rituale. Gli adepti degli uomini-leopardo Anyoto, per esempio, dovevano uccidere un proprio parente stretto come rito di iniziazione. Gli Anyoto e i membri di gruppi analoghi si immedesimavano misticamente con il leopardo indossandone la pelliccia, imitandone i suoni e le tecniche di caccia, e usando come armi artigli di leopardo riprodotti in legno o in ferro. Inoltre, gli adepti di queste sette erano incoraggiati all’antropofagia.
[10] Queste sette, pur essendo predominante l’aspetto magico, è chiaro che furono manipolate dall’azione politica che usò scaltramente gli usi tribali. La realtà tuttavia è che nel paese i corpi dei defunti scompaiono dalle tombe, i sospettati vengono linciati e le loro case bruciate. I cannibali sono accusati di riesumare i cadaveri delle tombe nella notte e fuggire con il bottino. Il Paese si difende lamentando la carenza di obitori e la diffusione della stregoneria, mentre gli antropofagi sostengono a loro difesa che la miglior degustazione della carne è quella di carne umana, in particolar modo la carne di persone appena morte.
[11] Mangiare Dio è il titolo del libro di Matteo Al Kalak che racconta “una storia dell’eucarestia”, Einaudi 2015.
[12] In alcune tribù africane nel momento in cui la famiglia deve prendere decisioni importanti si riesuma il cadavere del capo famiglia a cui venivano chieste delucidazioni, nel mentre “spiluccano” parti del corpo per avere un’unione mentale.
[13] Ci riferiamo al concetto di relativismo etico, una posizione filosofica presente nella storia del pensiero umano. Tale teoria afferma che i principi morali (tutti o parte di essi) non hanno valore di per sé. I concetti, i giudizi e i comportamenti definiti morali sono tali per convenzione quindi possono variare non solo nel corso del tempo ma, soprattutto, a seconda del contesto culturale di riferimento.
[14] Liberamente tratto da un articolo precedentemente uscito su «Aeon» di Ben Thomas. Un’altra pratica che ha fatto parte della tradizione cattolica e che è poco conosciuta è quella secondo cui, oltre alla venerazione del corpo dei santi, i fedeli si mangiavano particole come ostie del cadavere del santo e bevevano i liquami che fuori uscivano dai loro corpi venerati. Inutile dire che si trattava di una macabra e pericolosa usanza.
[15] L’uso terapeutico o meno dell’urina come assunzione è molto antica e praticata da diverse culture e ancora oggi è un metodo terapeutico. L’urina è stata considerata strumento di guarigione in molte culture asiatiche per secoli come il vero elisir di lunga vita e in India questo fa parte della tradizione medica da migliaia di anni. In età moderna tale pratica fu rivalutata da Paracelso e dal medico tedesco Paullini. In sanscrito l’urina si dice “Amaroli”, da “Amar” che significa immortalità. Nella nostra antichità era chiamata con diverse perifrasi: Frutto della vita, Acqua santa, Elisir di lunga vita, Acqua di vita, Acqua dorata, Acqua degli dei, Rugiada del cielo, Nettare celeste. Per i monaci tibetani il bere la propria urina rappresenta una pratica mai interrotta.
[16] La storia non ci dice cosa effettivamente avveniva. Si può tuttavia pensare come i terroristi in questi anni hanno dimostrato come la mentalità fanatica della religione comporti un totale distacco dalla realtà e da ogni collegamento e vincolo umano. D’altra parte coloro che pativano il sacrificio potevano essere aiutati, come il terrorismo ci insegna, con l’assunzione di particolari droghe.
BIBLIOGRAFIA:
Matteo Al Kalak – Mangiare Dio. Una storia dell’eucarestia – Einaudi, 2021
Jens Bjerre – Gli ultimi cannibali. Alla ricerca di tribù superstiti incontaminate – Pgreco, 2013
Massimo Centini – Mangiatori di uomini. La storia del cannibalismo, dalle caverne degli albori ai serial killer di ieri e di oggi – L’Airone Editrice – Roma, 2021
Davide Costa – Cannibalismo : questioni di genere e serialità – TAB edizioni, 2023
Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panné – Il libro nero del comunismo – Mondadori, 1999
Umberto Di Patti – Ultimo mondo cannibale. Dal cannibalismo rituale al cannibalismo criminale – Temperino Rosso, 2023
Stephen Flowers – I signori della mano sinistra – Venexia, 2024
Marvin Harris – Cannibali e re. Le origini delle culture – Feltrinelli, 2013
Daniel Korn, Mark Radice, Charlie Hawes – Cannibali. La storia dei mangiatori di uomini – Mondadori 2005
Maurizio Leigheb – Caccia all’uomo, Dal Chaco Paraguayano alle giungle della Nuova Guinea, la ricerca degli ultimi cannibali – Sugar Editore, 1973
Volfango Lusetti – Cannibalismo Ed Evoluzione. Un’ipotesi Sull’origine Della Coscienza – Armando Editore, 2006
Ewald Volhard – Il cannibalismo. Civiltà, cultura, costumi degli antropofagi nel mondo – Mondadori, 2019
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