Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

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Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

miércoles, 31 de mayo de 2023

Una foresta di simboli: Baudelaire, Joseph de Maistre e la Sophia Perennis


La teoria delle corrispondenze di Baudelaire, nella sua formulazione, deve molto più a Maistre che a Swedenborg. Quando Baudelaire vede il mondo come «una foresta di simboli», ci introduce al metodo maistriano di mettere in relazione il visibile con l’invisibile.

di Luc-Olivier d’Algange

Articolo originariamente pubblicato in francese su MauvaiseNouvelle.fr
Traduzione di Marco Maculotti.

Gli esegeti e i biografi moderni cedono eccessivamente al sospetto, alla svalutazione e persino all’acrimonia nei confronti delle opere di cui si occupano, facendone il loro cavallo di battaglia e lo sfogo del loro risentimento nel vedersi confinati in un ruolo secondario. Mentre il commento tradizionale si basa su un principio di riverenza e fedeltà che lo spinge, attraverso la sua interpretazione, a proseguire sulla strada aperta dall’opera che distingue e a cui si dedica, il commentatore moderno trova generalmente più “gratificante” sospettare dell’autore e trovare la pagliuzza nell’occhio dell’opera ignorando di essere da essa contemplata tanto quanto egli la esamina. Il più delle volte, l’esegeta sospettoso dipinge il proprio ritratto, con la propria trave.

Quando Sartre suggerisce che la lettura di Maistre da parte di Baudelaire è sommaria, che obbedisce a ragioni subalterne e superficiali, ci parla della sua stessa lettura di Joseph de Maistre, e allo stesso tempo ci dà il suo autoritratto: «un pensatore austero e in malafede». Joseph de Maistre può essere criticato per tutto, tranne ovviamente per essere un pensatore “austero”. Se c’è un’opera che ha resistito al puritanesimo in tutte le sue forme, è quella di Joseph de Maistre: la diffidenza che i moderni provano nei suoi confronti non si spiega in altro modo. Stretti seguaci della virtù e del terrore, di una morale priva di qualsiasi prospettiva metafisica o soprannaturale, avversari degli esteti e dei dandy (i custodi ultimi della concordanza tra il Vero e il Bello), i moderni hanno fatto dell’austerità e della malafede le loro armi teoriche e pratiche per sterminare tutte le vestigia teologiche, ovunque si trovassero.

L’influenza di Joseph de Maistre su Baudelaire è una delle più profonde che un pensatore abbia mai esercitato su un poeta, anche se non bisogna dimenticare che Maistre, in Les Soirées de Saint-Pétersbourg (“Le serate di San Pietroburgo” o “Colloqui sul governo temporale della Provvidenza”), è un poeta in modo continuativo, così come Baudelaire, nelle sue opere poetiche e critiche, nei suoi aforismi e nelle note di Mon cœur mis à nu (“Il mio cuore messo a nudo”) non ha mai smesso di essere un astuto metafisico. Baudelaire si riconosce in Maistre in quanto gli deve i principali principi estetici e filosofici del suo metodo. Baudelaire sarebbe stato indubbiamente un maistriano senza nemmeno dover leggere Joseph de Maistre, tanto il suo gusto e le sue misteriose e provvidenziali affinità erano in sintonia con le preferenze di Joseph de Maistre. Ma, nel senso in cui Valéry parla del metodo di Leonardo da Vinci, esiste un metodo baudelairiano, e deve tutto a Joseph de Maistre.

La teoria delle corrispondenze di Baudelaire, nella sua formulazione, deve molto più a Maistre che a Swedenborg. Quando Baudelaire vede il mondo come «una foresta di simboli», ci introduce al metodo maistriano di mettere in relazione il visibile con l’invisibile:

Nessuno può negare le relazioni reciproche del mondo visibile e di quello invisibile.

Ricordiamo ancora una volta che la parola Diavolo deriva da diaballein, che significa disunire, mentre la parola Simbolo, dalla stessa radice, deriva dal verbo sumballein, che significa unire o riunire. Non c’è frase in tutta l’opera di Baudelaire che non risponda alla meditazione maistriana sul Male e sulle opere della Divina Provvidenza. Il paradosso essenziale dell’opera di Baudelaire e della risposta umana ad essa deriva da una costante meditazione sulle Soirées de Saint-Pétersbourg. Il Male esiste, ma è solo la disunione del Bene; il Diavolo è il principe di questo mondo, ma è solo una parte del Simbolo che unisce e salva. I Fiori del Male non sono una sorta di satanismo a buon mercato, in stile Halloween (il Male è veramente nella derisione del buon mercato), ma una prova retroattiva del sumballein. Il Bene non si oppone al Male; è il Male che, quando il Bene trionfa, torna all’interno del Bene, per scomparire. Scrive Raymond Abellio:

L’abisso del giorno contiene l’abisso della notte, ma l’abisso della notte non contiene l’abisso del giorno. Resta il fatto che in noi coesistono due forze, o più precisamente due postulazioni: «Ci sono in ogni uomo, a ogni ora, due postulazioni, una verso Dio, l’altra verso Satana». Non meno maistriana è questa considerazione corollaria: «Osserviamo che coloro che aboliscono la pena di morte devono essere più o meno interessati ad abolirla. Spesso sono ghigliottinatori. La cosa si può riassumere così: voglio poterti tagliare la testa; ma tu non toccherai la mia. Coloro che aboliscono l’anima (materialisti) sono necessariamente coloro che aboliscono l’inferno; sono certamente interessati ad esso; come minimo, sono persone che hanno paura di vivere di nuovo — persone pigre.

Sartre ignora l’influenza di Maistre su Baudelaire tanto per ignoranza dell’opera di Maistre quanto per incomprensione dell’opera di Baudelaire. Si concede quindi la libertà di giudicare l’opera di Maistre in malafede e di considerare l’opera di Baudelaire con quell’austerità puritana che è la caratteristica degli intellettuali per antifrasi, cioè degli “intellettuali” la cui unica ragion d’essere è combattere l’Intelletto come prospettiva teologica e metafisica. Baudelaire si riferisce a Maistre come all’autore che ha esercitato su di lui l’influenza decisiva, in termini di pensiero e di stile: questo basta all’acredine di Sartre per giudicare Baudelaire un bugiardo. È vero che il poeta ha il diritto inalienabile di allontanarsi dalle verità relative del “realismo” e di andare alla ricerca di una verità più profonda, più essenziale, che apparirà prima, nella sua emanazione, sotto le sembianze di nuvole e misteri, ma non appena consideriamo l’opera poetica e critica di Baudelaire come un pensiero, cioè come una “giusta pesatura”, un’arte analogica in cui prosodia e metafisica sono ordinate a una teoria e a un metodo di rapporti e proporzioni, il nome di Maistre e il riferimento alle Soirées de Saint-Pétersbourg appaiono come una chiave.

Charles Baudelaire (1821 – 1867)

Baudelaire credeva così fortemente e così giustamente nell’attualità e nella verità del suo pensiero che, lungi dal cercare di apparire originale nascondendo le sue influenze e i suoi incontri, non smise mai di cercare di sostenere il suo lavoro con altre opere più antiche o contemporanee. Ciò che si dice sembra a questo dandy più importante di chi lo dice — il che getta un po’ di luce sull’impersonalità attiva del dandismo baudelaireano, che è molto diverso dal moderno “culto dell’io” — e in questo senso è ancora più diverso da Sartre che, sotto il titolo di L’Etre et le Néant (“L’Essere e il Nulla”), si abbandona a variazioni più o meno persuasive, se non convincenti, senza riferirsi in larga misura all’autore di Sein und Zeit.

Baudelaire inserisce Maistre nella sua opera come un punto di riferimento, al quale il lettore è chiamato a fare riferimento per comprendere ciò che sta per leggere, così come Schopenhauer apre Il mondo come volontà e rappresentazione con un riferimento a Kant. Le tempistiche umane sono brevi; quando certi principi sono stati perfettamente enunciati, quando un metodo si erge e dimostra la sua efficacia, è consigliabile tagliare corto e affrontarlo subito. La distinzione tra l’esegeta moderno e l’esegeta tradizionale che abbiamo delineato sopra si accompagna alla distinzione tra due tipi di autori. I primi non smettono mai di deplorare il fatto che altri prima di loro abbiano già percorso la loro strada, mentre i secondi si rallegrano: sono tra coloro che andranno oltre. I primi sono gelosi e sarebbero pronti a riformulare tutto a modo loro; i secondi, che in genere coltivano il gusto antico e aristocratico dell’otium, vorrebbero trovare l’opera a cui stanno pensando già scritta da qualcun altro. Gli altri pensano, come dicono gli indù, come gli kshatrya: si onorano di servire un Vero, un Bene e un Bello impersonali. Joseph de Maistre ha scritto:

Ogni credenza che sia costantemente universale è vera, e ogni volta che, separando da una credenza alcuni articoli peculiari di nazioni diverse, rimane qualcosa di comune, ciò che rimane è una verità.

Joseph de Maistre (1753 – 1821)

La Sophia perennis o, più precisamente, quella che René Guénon chiamerebbe la Tradizione primordiale, è la chiave di volta che unisce l’opera di Baudelaire a quella di Maistre. La verità metafisica o soprannaturale è universale per definizione. Ecco perché per Maistre, come per Baudelaire, le differenze tra i popoli sono meno importanti delle differenze di casta, che sono di natura completamente diversa dalle differenze di classe. Scriveva Baudelaire:

Ci sono solo tre esseri rispettabili: il sacerdote, il guerriero e il poeta. Conoscere, uccidere e creare. Gli altri uomini sono taillables et corvéables, fatti per la stalla, cioè per esercitare quelle che chiamiamo professioni.

In questo modo, Baudelaire prolunga Maistre e risponde in anticipo a Sartre, che si azzarda a scrivere:

E proprio nella misura in cui Baudelaire vuole essere qualcosa in mezzo al mondo di Maistre, sogna di esistere nella gerarchia morale con una funzione e un valore, proprio come la valigia di lusso o l’acqua addomesticata nelle caraffe esistono nella gerarchia degli utensili.

Da qui l’esigenza profetica di Baudelaire di precisare:

Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di abbastanza odioso.

Charles Baudelaire (1821 – 1867)

Va notato di sfuggita che Sartre, pur attribuendo un significato del tutto diverso alla metafora, richiama involontariamente la distinzione tra esoterismo ed exoterismo, «l’acqua e l’anfora» di cui parlano i poeti sufi. Se Baudelaire vuole essere l’acqua, senza dubbio Sartre preferirebbe essere la caraffa! Baudelaire è maistriano proprio perché sceglie di sottrarsi eroicamente a ogni strumentalizzazione, a ogni utilità, a ogni funzione che lo predispone a riconoscere, al di là di ogni decantazione, la suprema trasparenza della verità metafisica:

Le uniche cose interessanti sulla terra sono le religioni. […] C’è una religione universale, fatta per gli alchimisti del pensiero, una religione che emerge dall’uomo considerato come un ricordo divino.

Sartre sbaglia completamente quando scrive, non senza una punta di meschinità, che «l’influenza di Maistre su Baudelaire è soprattutto di facciata; il nostro autore ha trovato ‘distinto’ rivendicarla come propria», ma questo errore, come tutti gli errori, non è privo di significato: dimostra che per Sartre è la caraffa a dare significato all’acqua, non l’acqua a dare significato alla caraffa. Tutta la sovversione di Sartre, e la sovversione moderna, si può ridurre a questa inversione, che è anche il segno distintivo di tutti i fondamentalismi, che hanno un nome sbagliato perché esaltano l’accessorio, l’utensile, a scapito del significato e della sua universalità metafisica. L’utilitarismo svilisce l’uomo, da qui la necessità, per Baudelaire, di formulare una teoria dell’uomo superiore. Nella religione, come nella politica, l’utilitarismo riduce tutto alla contrattazione, al commercio che divide l’essere e l’apparire. Scriveva Baudelaire:

Il commercio è satanico nella sua essenza. Il commercio è il prestito restituito, è il prestito con il sottinteso: restituiscimi più di quanto ti do.

Precipitato nel pantano della Francia borghese, Baudelaire deve aver trovato nelle conversazioni del Senatore, del Conte e del Cavaliere un rifugio felice e una sorta di testimonianza di quell’intellettualità musicale di cui cercava, attraverso le sue fedeltà a Racine, di interpretare le discordanze e le nostalgie nell’anima abbandonata nelle squallide nefandezze delle classi medie. Baudelaire aveva previsto quella che Hannah Arendt avrebbe chiamato la banalità del male. Al culmine delle sue istanze maistriane voleva scagliare la modernità letteraria contro il mondo moderno, così come ironicamente implorava Satana di avere pietà della sua lunga miseria. Quando Maistre, in Les Soirées de Saint-Pétersbourg, fa dire al Conte «Il peccato originale, che spiega tutto e senza il quale non si può spiegare nulla, si ripete purtroppo in ogni momento, anche se in modo secondario», Baudelaire interviene chiarendo la sua teoria della vera civiltà: «Non sta nel gas, né nel vapore, né nei giradischi, sta nella diminuzione delle tracce del peccato originale».

Dal punto di vista della Storia, Baudelaire è il punto in cui i discorsi sono tramontati. I tempi sono maturi per il progressismo, la «dottrina dei pigri», il che significa, per Baudelaire, che è giunto il momento di rompere con ogni forma di collettivismo e di gregarismo. Il paradosso è solo apparente. Esiste, infatti, un mondo al di là e al di sopra dell’individuo, e il mondo a cui ci dedica la «dottrina dell’ozio» è un mondo che distrugge nel suo stesso nucleo qualsiasi trascendenza dell’individuo. Il minimo che possiamo fare è essere stati ciò che siamo destinati a essere. Baudelaire, in cui tendiamo a vedere il modello dell’asociale, rimane fedele all’idea maistriana di società come civiltà, «custode fedele e perpetua del sacro deposito delle verità fondamentali dell’ordine sociale, la società, considerata in generale, le comunica a tutti i suoi figli quando entrano nella grande famiglia, rivela loro il segreto attraverso il linguaggio che insegna loro».

Constatando la scomparsa del deposito sacro e della lingua, disprezzata, triturata e saccheggiata, Baudelaire non cede all’illusione della forma vuota: la caraffa vuota non lo disseta, la parodia dell’ordine che la borghesia impone con estremo rigore non gli sembra affatto amabile, in una parola, deciso a «tuffarsi nell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo». Lontano dalla facciata dei reazionari borghesi maistriani, Baudelaire inventa la prassi della teoria che Maistre formula così: «il ristabilimento della monarchia, che chiamiamo controrivoluzione, non sarà una rivoluzione contraria ma il contrario di una rivoluzione».

Laddove la rivoluzione mobilita, pianifica e strumentalizza, Baudelaire si fa carico di smobilitare, di aumentare il senso di singolarità e di celebrare l’inutile. Un’applicazione rigorosa del metodo che aveva trovato in Maistre, il suo dandismo, così incompreso, tronca ogni desiderio di azione collettiva, di appelli al Popolo, di mobilitazione di truppe, di referendum o di elezioni:

Cosa penso del voto e del diritto di essere eletto? Dei diritti umani? Cosa c’è di ignobile in una carica? Un Dandy non fa nulla. Riuscite a immaginare un Dandy che parla al popolo, se non per disprezzarlo?

Il dandismo di Baudelaire, il suo carattere sconosciuto e innovativo, consiste nel rimanere dove siamo, ostinatamente. Questa non è una cattiva strategia, tra l’altro; ci risparmia battaglie in cui saremmo stati inevitabilmente sconfitti. Per Baudelaire, il dandy non è l’effeminato egoista, ma il custode del sacro deposito, il testimone dell’Idea:

Essere un grande uomo e un santo per se stessi. Questa è l’unica cosa importante.

Charles Baudelaire (1821 – 1867)

Il dandy è il testimone di se stesso, il che basta a dire che per Baudelaire non è solo un Io imprigionato nell’immanenza, ma il sottile diplomatico dell’Idea:

Ogni idea è, di per sé, dotata di una vita immortale, come una persona. Ogni forma creata, anche dall’uomo, è immortale. Perché la forma è indipendente dalla materia.

Mentre la Rivoluzione e la Controrivoluzione precipitano il “fare” e il “disfare” nell’inane e nel volgare, il «contrario di una Rivoluzione» mantiene l’essere, durante l’interregno, nella pienezza delle sue possibilità. Baudelaire, pensatore dell’estremo, porta la premessa maistriana alla sua logica conclusione, applicandola rigorosamente, persistendo in un modo di essere che è anche un modo di dire. La lucidità di Baudelaire libera il suo pessimismo dalla tentazione di peccare contro la speranza. La lezione maistriana tiene Baudelaire in guardia: «Sfidiamo il popolo, il buon senso, il cuore, l’ispirazione e l’ovvio».

Tutto il romanticismo rivoluzionario e controrivoluzionario, così ingombrante e cacofonico, viene così sventato in una sola frase. L’importante è salvaguardare la musica e lo spazio. Come scrive Baudelaire: «La musica dà l’idea dello spazio. Tutte le arti, più o meno; poiché sono numero e il numero è una traduzione dello spazio». La poesia lo ribadisce: «La musica scava il cielo».

L’immobilità del poeta preserva la spaziosità e l’unità.


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Sara Grant


Sara Grant, RSCJ (1922-2002) fue una indóloga británica, misionera cristiana y una de las pioneras del diálogo interreligioso en el siglo XX. Llegó a la India en 1956, como misionera y miembro de las Religiosas del Sagrado Corazón de Jesús, se comprometió activamente en el diálogo interreligioso en la India. Con el tiempo, se convirtió en una figura destacada en el movimiento de inculturación (absorber las culturas locales) iniciado en la India por el sacerdote católico romano P. Richard De Smet, SJ a principios de la década de 1970, con quien estuvo estrechamente asociada. Más tarde, su asociación con Swami Abhishiktananda...

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La Psicoteca: Cómo fortalecer una autoestima saludable - 31/05/23


Por Miguel Ángel Alcarria.



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Sur le déclin de l’Occident et de l’Orient – Julius Evola


Mosaïque de la Maison des Masques de l’île de Délos en Grèce

”Parmi ceux qui ont reconnu la crise du monde moderne et ont aussi renoncé à considérer la civilisation moderne comme la civilisation par excellence, l’apogée et la mesure de toute au­tre, il en est qui ont tourné leur regard vers l’Orient, où ils voient subsister cette orientation traditionnelle et spirituelle de la vie, qui a cessé depuis longtemps, en Occident, de servir de base à l’organisation effective des différents domaines de l’existence. On s’est même demandé si l’on ne pouvait pas trouver en Orient des points de référence utiles au relèvement et à la réintégration de l’Occident. René Guénon a été le défenseur le plus sérieux de cette tendance.

Mais il faut voir clairement sur quel plan on se place en posant ce problème. S ’il s’agit de simples doctrines et de contacts « intellectuels », cette recherche est légitime. Mais il convient de no­ter que l’on pourrait alors trouver des exemples et des référen­ces valables, en partie du moins, dans notre propre passé tra­ditionnel, sans avoir à se tourner vers une civilisation non européenne. On ne gagnerait cependant pas beaucoup à tout cela.

Il s’agirait d’échanges à un haut niveau entre des éléments isolés qui cultivent des systèmes métaphysiques. Si, au con­traire, l’on aspire à quelque chose de plus, à des influences réelles ayant un retentissement important sur l’existence, il ne faut pas se faire d’illusions. L’Orient lui-même suit désormais la voie que nous avons prise, il succombe de plus en plus aux idées et aux influences qui nous ont conduits là où nous som­mes, en se « modernisant », et en adoptant nos propres formes de vie « laïque » et matérialiste, si bien que ce qu’il conserve encore de traditionnel et d’authentique perd de plus en plus de terrain et se trouve repoussé dans une zone marginale. La liquidation du « colonialisme », l’indépendance matérielle que les peuples orientaux sont en train de s’assurer vis-à-vis des Européens, sont étroitement liées à une sujétion de plus en plus évidente aux idées, aux coutumes et à la mentalité « pro­gressiste» de l’Occident.

La doctrine des cycles permet en effet de penser que ce qui, en Orient ou ailleurs, peut avoir une valeur aux yeux d’un homme de la Tradition, appartient à un patrimoine résiduel qui subsiste, dans une certaine mesure, non parce qu’il s’agit de contrées vraiment soustraites au processus de déclin, mais simple­ment parce que ce processus s’y trouve encore dans une phase initiale ou moins avancée. Ce ne sera donc qu’une question de temps pour que ces civilisations nous rejoignent, pour quelles se trouvent au même point que nous et connaissent donc les mêmes problèmes, les mêmes phénomènes de dissolution sous le signe du « progrès » et du modernisme. Les rythmes pourront même y être bien plus rapides : la Chine, par exemple, en fournit déjà la preuve qui, en moins de vingt ans, a parcouru tout le chemin qui sépare une civilisation impériale et traditionnelle du régime communiste, matérialiste et athée, chemin que les Européens ont mis des siècles à parcourir.

Le « mythe de l’Orient », en dehors des cercles de savants et de spécialistes de disciplines métaphysiques, est donc fallacieux. « Le désert croît », il n’y a pas d’autre civilisation qui puisse nous servir d’appui, nous devons affronter seuls nos problèmes.
L’unique perspective positive, mais hypothétique, que nous offrent en contrepartie les lois cycliques est celle-ci : le proces­sus descendant de l’âge sombre dans sa phase finale a commencé chez nous; c’est pourquoi il n’est pas exclu que nous soyons aussi les premiers à dépasser le point zéro, à un moment où les autres civilisations, entrées plus tardivement dans le même cou­rant, se trouveraient, au contraire, plus ou moins au stade qui est le nôtre actuellement, après avoir abandonné — « dépassé » — ce qu’elles offrent aujourd’hui encore de valeurs supérieures et de formes d’organisation traditionnelle susceptibles de nous attirer. Il en résulterait que l’Occident, renversant les rôles, se trouverait à un point situé au-delà de la limite négative et serait qualifié pour remplir une nouvelle fonction générale de guide ou de chef, bien différente de celle qu’il a remplie dans le passé avec la civilisation technico-industrielle et matérielle et qui, désormais révolue, a eu pour seul résultat un nivellement général.

Pour certains, ces brèves indications sur des perspectives et des problèmes de portée générale n’auront peut-être pas été inutiles. Nous n’y reviendrons plus car, comme nous l’avons dit, c’est le plan de la vie personnelle qui nous intéresse ici; de ce point de vue, en définissant l’orientation à donner à certai­nes expériences et à certains processus actuels en vue d’en tirer des résultats différents de ce qu’ils semblent être pour la presque totalité de nos contemporains, il importe d’établir des positions autonomes, indépendantes de ce qui pourra ou ne pourra pas arriver dans l’avenir.”

Chevaucher le Tigre – Julius Evola – 1964

Dionysos chevauchant un léopard.

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Léxico sufí (Istilâhât): Hiç / هیچ


Hiç

Hiç / هیچ / Nada

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Camille Thomas - II Larghetto (excerpt) from Piano concerto No.1 in E minor, Op.11


CELLO Camille Thomas
PIANO Julien Brocal
VIDEO DIRECTOR Julien Hanck

A journey in three chapters to discover Chopin's life through the sound of the cello. The most ambitious project of the Franco-Belgian cellist Camille Thomas. Camille Thomas plays on the Franchomme’s mythical cello - the Stradivarius Feuermann. The Chopin’s sonata for cello and piano was dedicated to his friend Auguste-Joseph Franchomme. Franchomme transcribed the Chopin’s piano pieces for cello after knowing Chopin found no objection to this.

Camille Thomas - II Larghetto (excerpt) from Piano concerto No.1 in E minor, Op.11
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martes, 30 de mayo de 2023

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Jews in the Roman Bathhouse


Dear Classical Wisdom Readers,

Public bathhouses embodied the Roman way of life, from food and fashion to sculpture and sports. The most popular institution of the ancient Mediterranean world, the baths drew people of all backgrounds....but were all welcome there?

Using the Roman bathhouse - a place suffused with nudity, sex, and magic - as a social laboratory, Professor Yaron Eliav reveals how Jews (and Christians) interacted with Greco-Roman culture... resulting in a cross-cultural engagement that shaped Western civilization as we know it.

Join Yaron Eliav and Anya Leonard for a provocative Live Discussion (with Q&A) on June 15th at Noon EST and discover Jews of antiquity and their relationships in the Classical World.

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AND as an extra bonus, we will be giving away THREE copies of Yaron's new book, "A Jew in the Roman Bathhouse" to those who have registered.

To join us on the day, or enter our giveaway, simply click "Get tickets" and you will receive a confirmation email. If you are registered, we'll send you the zoom link to join the day of the event.

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About the Speaker:

Yaron Z. Eliav is associate professor of rabbinic literature and Jewish history of late antiquity at the University of Michigan. He is the author of God’s Mountain: The Temple Mount in Time, Place, and Memory and the producer of the documentary Paul in Athens.

Yaron's newest book, A Jew in the Roman Bathhouse, challenges us to rethink the relationship between Judaism and Graeco-Roman society, shedding new light on how cross-cultural engagement shaped Western civilization.

You can learn more about "A Jew in the Roman Bathhouse" HERE.

I hope you can join us!

All the best,
Anya Leonard

Founder and Director

Classical Wisdom

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Serie Grandes Preguntas: ¿Hay un Dios?


Ken: Sí, lo hay, pero antes tenemos que entender los tipos o dimensiones de Dios o del Espíritu. Por lo general, no todo esto se tiene en cuenta, pero es crucial. Como todo, Dios puede ser visto desde las perspectivas de primera, segunda y tercera persona. Para aquellos que no están al tanto de su gramática, la primera persona es la persona que está hablando; así que ahora mismo yo soy la primera persona. La segunda persona es la persona a la que se le habla; así que ahora mismo tú eres la segunda persona. Cuando tú empieces a hablarme, estarás en primera persona y yo en segunda persona. Y luego, la tercera persona...

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lunes, 29 de mayo de 2023

Origine e significato del Mâgên Dâwîd – Hildegard Lewy (parte II)


Seconda parte della nostra traduzione dello studio comparativo, finora inedito in italiano, sulle antiche religioni di Gerusalemme e di Mecca. A cura di Andrea Casella.

di Hildegard Lewy

«Archiv Orientàlnì», Praga, vol. 18, fasc. 3 (Nov. 1, 1950) pp. 330-365.
Traduzione di Andrea Casella. Segue dalla PARTE I

Il rapporto di Šalim con il Tempio sul Monte Morîịâ

Applicando al culto preisraelitico di Gerusalemme e al Tempio di Salomone le informazioni così messe insieme sul culto del pianeta Saturno, iniziamo richiamando l’attenzione su due significative caratteristiche esteriori del santuario del Monte Morîịâ. In I Re, VI, 20, è riportato che il Sancta Sanctorum misurava 20 cubiti tanto in lunghezza, quanto in larghezza e in altezza. Aveva perciò la stessa caratteristica forma a cubo che, a giudicare dal suo stesso nome “Cubo”, la Ka’ba di Mecca doveva aver avuto fin dal principio [1]. Un ulteriore dettaglio è rivelato dal passo del Cantico dei Cantici I, 5, dove una ragazza di campagna esclama: “Nera sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme; come gli accampamenti di Kedar, come le tende di Salomone”. Nel passo della Cosmografia di ad-Dimišqî citato sopra, p. 339, le tende nere sono elencate come una delle caratteristiche tipiche dei templi di Saturno. Non è forse solo una coincidenza che la Ka’ba, oggi come nei primi secoli dell’Islam, sia coperta da un telo di stoffa nera [2].

Tornando ora alla dottrina dell’originaria religione di Gerusalemme, osserviamo in primo luogo che Šulmânu, il dio patrono della città, era venerato, proprio come l’assiro-babilonese Ninurta, insieme alla sua paredra divina; infatti, quando gli elenchi cuneiformi di dèi menzionano una dea Šulmânîtum che è definita come “Ištar di Gerusalemme”, non c’è dubbio, come ha messo in luce per primo J. Lewy [3], che si riferiscano alla sposa di Šulmânu. In mancanza di dati circa la natura di questa dea [4] è forse pertinente ricordare che immediatamente sotto il limite occidentale dell’area del tempio, c’è un pozzo, oggi noto come Ḥammâm aš-šifâ, “Il Bagno della Guarigione”, la cui acqua, come quella di Zemzem a Mecca, è amara e quasi imbevibile, ma che a detta dei Musulmani ha il potere di guarire dalle malattie [5]. Se ammettiamo, come proposto sopra [6], che l’effetto taumaturgico dell’acqua di Zemzem rappresenti il potere curativo della dea Gula, la “grande guaritrice” e sposa del pianeta Saturno, lo stesso effetto attribuito al pozzo di Gerusalemme dovrebbe indicare che, nel culto di Gerusalemme, la dea guaritrice avesse le stesse prerogative che aveva a Mecca e nei luoghi più antichi che erano sacri al pianeta Saturno. 

Molto più importanti dal punto di vista del presente discorso sono certe tradizioni che mettono in relazione i pozzi e i corsi d’acqua proprio con l’area del tempio. Nel Talmud di Gerusalemme leggiamo la seguente storia [7]: quando Davide stava scavando i canali per il tempio, penetrò fino alla profondità di 115 cubiti, ma non raggiunse le acque abissali (tehôm). Si imbatté infine in una pietra, che volle rimuovere, ma la pietra lo avvertì di non farlo, perché essa stava lì per coprire l’abisso. Quando, a dispetto di tale avvertimento, Davide sollevò la pietra, il tehôm risalì in superficie e minacciò di inondare la terra. Quindi si decise di incidere il Nome del Signore sulla pietra e di gettarla nelle acque tracimanti. Immediatamente l’alluvione si arrestò, ma le acque si abbassarono talmente tanto che la terra venne minacciata dalla siccità.

L’inizio di questa leggenda richiama vividamente un passo degli Annali di Aššûr-nâṣir-apli [Assurnasirpal n.d.r.], dove, descrivendo i preparativi per la costruzione del tempio di Ninurta a Kalḫu, il re assiro fa dire a sé stesso: “Ho scavato fino al livello delle acque, fino a una profondità di 120 strati di mattoni [8] sono arrivato. Il tempio di Ninurta, il mio Signore, vi ho fondato al centro” [9]. La ragione per cui Davide e Aššûr-nâṣir-apli avessero scavato fino al livello delle acque dell’abisso è alquanto chiarita dal fatto che all’interno della Ka’ba di Mecca c’è un pozzo sulla bocca del quale era posta, in età preislamica, la statua del dio Hubal [10]. Che ancora nel periodo islamico questo pozzo, oggi prosciugato, fosse comunicante con l’acqua del sottosuolo deriva da un’annotazione di al-Bîrûnî [11] secondo cui, al tempo del pellegrinaggio di ‘Arafa, esso era sempre pieno d’acqua, di modo che i pellegrini potevano dissetarsi [12]. È significativo che a Mecca e, a quanto pare, anche nel tempio di Ninurta a Kalḫu, il pozzo comunicante con le acque sotterranee fosse all’interno del santuario e non, come era usuale in altri antichi templi orientali, nel rispettivo cortile [13]. Perciò questa peculiarità suggerisce che si credeva esistesse una speciale relazione tra la divinità del santuario e le acque abissali, che gli Ebrei chiamavano tehôm. La natura di questa relazione è chiarita dalla summenzionata circostanza per cui la statua di Hubal era posizionata sulla bocca del pozzo; perché ciò indica che si credeva che il dio impedisse col suo corpo la risalita delle acque infere e il diluvio sulla terra.

C’è ora prova che questa stessa credenza fosse un tempo radicata a Gerusalemme. Nella leggenda talmudica testé citata, era una pietra, generalmente designata nella letteratura ebraica come Eben Šeṯîịâ, che tratteneva il tehôm entro i suoi confini [14]. Ora, secondo altri passi trovati nelle fonti post-bibliche, il Tempio di Salomone era costruito in modo tale che lo Eben Šeṯîịâ si trovasse al centro del Sancta Sanctorum [15], e sopra di esso stava l’Arca dell’Alleanza, il trono di Yahweh sulla terra. Quindi è evidente che, come nella Ka’ba Hubal stava sulla bocca del pozzo che metteva in comunicazione il santuario con le acque abissali, allo stesso modo nel Tempio di Gerusalemme Yahweh stava in trono sull’apertura dalla quale si credeva che le acque del tehôm avrebbero inondato la terra [16]. Tuttavia, prima che il compito di tenere sotto controllo le devastanti acque dell’abisso fosse attribuito a Yahweh, un altro dio sembra avesse avuto questa prerogativa a Gerusalemme: il dio rappresentato dallo Eben Šeṯîịâ

Che onori divini fossero effettivamente resi a questa pietra proprio dagli Ebrei risulta particolarmente chiaro dalla famosa notizia contenuta nell’Itinerarium Hierosolymitanum del Pellegrino di Bordeaux a proposito del “lapis pertusus, ad quem veniunt Judaei singulis annis et unguent eum et lamentant se cum gemitu…” [17]. Ulteriore prova in tal senso è data dal fatto che, come anche le pietre sacre degli Arabi pagani [18], sullo Eben Šeṯîịâ venisse cosparso sangue sacrificale [19] e incenso fosse bruciato su di esso [20]. Allo stesso modo è significativo, a dispetto dell’importanza che, a giudicare dalle tradizioni post-bibliche, la pietra sembra aver avuto nel rituale del Tempio di Salomone, che non ne sia fatta alcuna menzione nei passi biblici dedicati alla costruzione del santuario. È evidente che gli autori biblici considerassero lo Eben Šeṯîịâ un così grossolano residuo di paganesimo da rifiutarsi di darne notizia [21]

Ora è un fatto ben noto che tra i Semiti, e particolarmente fra gli antichi abitanti della penisola arabica, le pietre ricevessero spesso onori divini [22]. Il reale carattere di questo culto delle pietre è facilmente spiegato se si ricorda che esso era praticato dalle stesse popolazioni fra le quali ebbe origine l’adorazione degli astri [23], e in particolare dei sette pianeti. La connessione del culto delle stelle con la venerazione delle pietre è chiarita da un passo dell’opera di Sanconiatone-Filone di Biblo, dove si dice che i meteoriti, essendo considerati “stelle cadute dal cielo”, avevano un ruolo preminente nella religione dei Fenici. È importante notare che il meteorite a cui si riferisce l’autore fenicio si trovava ed era venerato a “Tiro, la sacra isola” [24]. Il nome di questo sacro meteorite di Tiro può essere desunto dal trattato concluso tra Aššûr-aḫ-idinna e Ba’al, re di Tiro [25]. Come d’uso in documenti di questo genere, il trattato termina con un elenco di dèi che ciascuna delle parti contraenti invoca per punire l’inadempiente ai termini concordati. Ora, il primo degli dèi presi a testimone dal re di Tiro è chiamato dBa-a-ti-ilâni.meš, un nome in cui Langdon [26] riconosce il semitico-occidentale Bêṯ-êl [27] ben conosciuto dalla Bibbia e dai teofori dell’occidente semitico [28]. Che questo dio di Tiro Bêṯ-êl sia effettivamente il sacro meteorite menzionato da Sanconiatone-Filone di Biblo deriva da un ulteriore riferimento presente nell’opera di questo autore, dove Βαιτύλια si intendono in generale “pietre ispirate” (λίϑοι ἐνψῦχοι) [29].

Per capire le piene implicazioni di questa definizione, richiamiamo l’attenzione su ciò che gli antichi adoratori delle stelle credevano sulla natura dei loro dèi. Poiché, come sarà mostrato altrove, queste idee sono rimaste sostanzialmente immutate dal periodo attestato dalle fonti cuneiformi fino al Medioevo, ricapitoliamo, per comodità, le informazioni provenienti da aš-Šahrastânî (Haarbrücker, op. cit., II, pp. 66 ss.) e ad-Dimišqî (op. cit., p. 47): Si riteneva che gli dèi planetari fossero di carattere spirituale (رﻮﺤﺍﻧﻭﻥ) [ruhanun n.d.r.] ma che avessero le proprie particolari dimore (هيكل) [haiâkil n.d.r.] o i propri particolari corpi (ﺑﻌﻦ) [abdân n.d.r.]. Questi haiâkil o abdân delle divinità planetarie sono le sette stelle erranti visibili nel cielo, e il rûḥ,o spirito, di ognuno di essi sta al proprio haikal come l’anima umana sta al corpo dell’uomo. Poiché il termine arabo haikal, “tempio”, “santuario”, reca con sé la stessa idea dell’ebraico bêṯ êl o dell’akkadico bît ili, comprendiamo che i meteoriti venerati dagli antichi Semiti erano concepiti come esseri divini della stessa natura dei pianeti: anch’essi consistevano in una dimora visibile, un bît o haikal, ispirata e abitata da un rûḥ, o anima. 

Queste deduzioni sono di particolare interesse per l’oggetto di questa discussione perché la più famosa tra le sacre pietre degli Arabi, la Ḥağar al-aswad della Ka’ba di Mecca, è effettivamente un meteorite [30]. Poiché, d’altro canto, questa Pietra Nera era adorata in un santuario dedicato al culto del “Pianeta Nero” Saturno [31], possiamo ritenere che un meteorite nero o una pietra nera somigliante a un meteorite fossero ritenuti un frammento del “Pianeta Nero”, cioè una parte del corpo di un grande dio che, pertanto, era meritevole di essere venerata al pari del pianeta stesso [32]. Così è evidente che il pozzo che connetteva il tempio con le acque infere poteva essere sigillato o con la statua del dio o con il meteorite nero; in ogni caso era il corpo del dio che si credeva si opponesse all’inondazione della terra da parte delle acque del sottosuolo. Ancora, potrebbe essere posta la domanda del perché assolvessero a questa funzione in alcuni casi una pietra nera e in altri un’immagine del dio. La risposta a questa domanda si può ricavare dai succitati trattati medievali che esponevano le opinioni degli adoratori degli astri riguardo alle loro divinità: nel loro credo, l’uomo può rivolgere preghiere e suppliche solo a un essere che sia visibile ai suoi occhi.

Dal momento che ogni pianeta ha periodi più o meno lunghi di occultazione, i fedeli avevano ritenuto necessario creare immagini e statue dei loro dèi ai quali poter rivolgere le loro preghiere in qualsiasi momento [33]. Tuttavia, se in sembianza di un meteorite nero un pezzo del corpo della divinità astrale era per i fedeli visibile tutto il tempo, la collocazione in un tempio di un idolo antropomorfo era ovviamente non necessaria. Sembrerebbe, quindi, che quando l’immagine di Hubal venne posta sopra il pozzo all’interno della Ka’ba, la “Pietra Nera” fosse temporaneamente nascosta agli occhi dei fedeli. La tradizione, effettivamente, conferma tale deduzione. È risaputo che negli anni della giovinezza di Muhammad la Ka’ba subì un restauro [34]. A giudicare dalle modalità seguite nella ricostruzione del tempio di Saturno a Kalḫu [35], ci si dovrebbe aspettare che anche questa ricostruzione fosse stata preceduta dalla ricerca del pozzo di collegamento tra il santuario e le acque abissali. Le nostre fonti, in effetti, sono a conoscenza di questa ricerca; si riporta infatti che ‘Abd al-Muṭṭalib, il nonno di Muhammad nella cui casa il futuro profeta crebbe, fece un sogno in cui gli venne rivelato il luogo a lungo dimenticato del pozzo di Zemzem [36]. La storia prosegue nel raccontare che ‘Abd al-Muṭṭalib, scavando nel posto che aveva visto in sogno, alla fine trovò il pozzo e dentro di esso la sacra Pietra Nera [37], che fu poi collocata da Muhammad nella sua sede attuale.

La somiglianza di questa storia con la leggenda talmudica del ritrovamento da parte di Davide dello Eben Šeṯîịâ durante lo scavo del pozzo, in preparazione della costruzione del tempio, è troppo impressionante per essere una semplice coincidenza. Dal momento che, inoltre, le nostre fonti riportano che la Pietra Nera “chiuse così bene l’apertura del pozzo di Zemzen” [38], è chiaro che deve esserci stato un tempo in cui la Ḥağar al-aswad sigillava il pozzo di Zemzem allo stesso modo di come lo Eben Šeṯîịâ chiudeva il pozzo posto sotto il Sancta Sanctorum nel Tempio di Salomone. 

Infine, comunque, forse in conseguenza di una delle catastrofi naturali così frequenti a Mecca, il sito del pozzo, e con esso la pietra nera, andarono perduti [39]. Divenne allora necessario costruire una statua che prendesse il posto della pietra come simbolo visibile del dio. A sua volta, quando la pietra venne recuperata da ‘Abd al-Muṭṭalib, la statua aveva ormai servito al suo scopo e poté essere rimossa. Non ci fu perciò alcuna rottura con l’antica religione di Mecca quando Muhammad si disfò della statua dopo che lui stesso ebbe collocato la Ḥağar al-aswad in un luogo dove fosse alla portata degli occhi e delle labbra dei fedeli. 

Per tornare ora allo Eben Šeṯîịâ del Tempio di Gerusalemme, le nostre fonti non lasciano dubbi che, giusto o sbagliato che sia, esso fosse considerato di origine cosmica. Infatti, noi troviamo ripetutamente riferimenti come questo: “Dio gettò una pietra nel tehôm, e su di essa fu fondato il mondo” [40]. Non abbiamo perciò alcuna ragione di dubitare che lo Eben Šeṯîịâ avesse a Gerusalemme la stessa funzione che rivestiva la Ḥaĝar al-aswad a Mecca.

Sulla base di queste conclusioni, perciò, siamo ora in grado di fornire almeno uno schema di quella parte dell’Epopea di Ninurta che manca nella versione cuneiforme esistente, ossia quella che si occupa del modo in cui Ninurta rivolse a suo favore la battaglia contro il diluvio [41]: egli dovrebbe aver conquistato la vittoria gettando un pezzo del proprio corpo nelle acque furiose, che furono così costrette a ritirarsi. 

Come detto sopra (p. 336), la vittoria di Ninurta costrinse le acque del diluvio a ritirarsi così in profondità che l’opposto flagello della siccità minacciò l’umanità. Si noterà che questo dettaglio dell’epica di Nippur ha un parallelo esatto con la succitata leggenda talmudica (sopra, p. 344), dove si riporta che quando Davide gettò nell’alluvione che si innalzava la pietra con su inciso il Sacro Nome, le acque si abbassarono così rapidamente che la terra incorse nella siccità. È in ulteriore armonia con le tradizioni di altre città sacre a Saturno quando le fonti ebraiche post-bibliche riportano che Gerusalemme fu la prima città ad essere stata creata e che venne costruita intorno al Sancta Sanctorum, al centro del quale era collocato lo Eben Šeṯîịâ [42]. Che a Gerusalemme, come anche a Nippur, Biblo [43] e Mecca [44] il dio patrono della città fosse ritenuto anche il suo fondatore si deduce con particolare chiarezza dal nome di Gerusalemme che, come detto sopra, significa “Creazione di Šalim”. 

Poiché la nostra precedente discussione ha mostrato che le leggende che circondano il Tempio di Salomone e il suo divino fondatore sono fondamentalmente identiche a quelle narrate in altri centri del culto di Saturno, sorge la questione se si possa trovare nella tradizione gerosolimitana qualche traccia del sacrificio del figlio che, mancante nel materiale di Nippur, sembra aver fatto parte dei culti di Biblo e Mecca. Rispetto a questo richiamiamo, certamente, la ben nota storia di Gen. XXII che racconta di come Abramo fosse stato chiamato ad offrire il suo figlio prediletto, Isacco, in sacrificio a Dio. Se è possibile dimostrare che il luogo dove questo sacrificio doveva essere compiuto era il Monte Morîịâ, il sito sacro a Šalim dove lo Eben Šeṯîịâ sbarrava il passaggio alle acque del diluvio, sarebbe allora chiaro che era Šalim a cui il sacrificio era votato. Per esserne certi, gli scrittori ebrei post-biblici davano per scontato che il Tempio di Salomone fosse stato eretto nel luogo dove Isacco stava per essere ucciso [45]; tuttavia, alcuni sapienti moderni hanno obiettato che in Gen. XXII, 2 la scena del sacrificio si svolge in אֶרֶץ הַמּׄרׅיׇּה mentre il monte del tempio è chiamato הַר־הַמּׄורׅיׇּה. Nel valutare questa apparente divergenza va ricordato che nelle antiche Siria e Palestina non di rado una regione portava lo stesso nome della montagna che ne costituisce la caratteristica topografica più evidente.

Un esempio pertinente di questa nomenclatura è fornito dalla Bibbia. In I Re, XVI, 24 si riporta che ‘Omri conquistò il Monte Šomrôn e costruì una città sui suoi pendii che ugualmente chiamò Šomrôn [46]. Che questo nome si applicasse anche al territorio circostante segue da passi come II Re, XVII, 26 e XXIII, 19, che parlano de “le città (‘ârê) di Šomrôn”, così implicando che il nome Šomrôn venisse usato in riferimento non solo alla montagna e alla città che portavano questo nome [47], ma anche ai villaggi circostanti. Siccome fonti cuneiformi e autori arabi medievali attestano l’abitudine di designare una città, il territorio circostante e la montagna principale della regione con un solo e unico nome, è chiaro che, almeno per quanto riguarda la Siria e la Palestina, questa nomenclatura fosse utilizzata attraverso i secoli. È perciò ragionevole concludere che ארץ המריה fosse la designazione della città-stato la cui più evidente caratteristica geografica era הר־המריה; in altre parole, ארץ המריה sembra essere il regno al quale la succitata lettera VAT 1646 si riferisce come mâtÚ-ru-sa-lim-ki, “il paese di Gerusalemme”.

La conclusione che il “paese di Morîịâ” fosse la regione circostante al Monte Morîịâ è confermata dal nome Morîịâ stesso. Come da lungo tempo riconosciuto dagli studiosi dell’Antico Testamento [48], questo nome deriva dalla radice ירה che, come detto sopra, costituisce il primo elemento del nome di Gerusalemme. Tuttavia, l’interpretazione di Morîịâ come מוׄרׅית + יׇהּ proposta da Grill nel suo sopracitato articolo è incompatibile con la tradizione che connette continuamente Gerusalemme con Šalim e non con Yahweh. A una spiegazione più sensata del nome si giunge se si ricorda che le parole ebraiche che terminano in una vocale I lunga possono formare due tipi di femminili; il primo con l’aggiunta del suffisso –t e il secondo con l’apposizione del suffisso –at e inserendo la “Gleitlaut” tra la î lunga e la a breve, così ottenendo un suffisso îịat che, dopo la riduzione della finale –t, appare in ebraico come יׇּה. Come esempio della ricorrenza simultanea di queste due forme femminili citiamo מוׄאׇבׅית e מואֲבׅיׇּה, “la donna moabita” [49]. Pertanto si può ben concludere che esistesse non solo una parola môrîṯ [50], “fondazione”, ma anche una forma morîịâ dallo stesso significato. In altre parole, Morîịâ sarebbe, all’incirca, un sinonimo di Šeṯîịâ, e allora alluderebbe alla sopradiscussa tradizione che definisce il monte del tempio e la città di Gerusalemme come il primo luogo ad essere stato fondato dal creatore del mondo. 

Se quindi la scena della storia riferita da Gen. XXII si svolse sulla cima del Monte Morîịâ, cioè, come abbiamo visto, in un sito sacro a Šalim, il pianeta Saturno, è chiaro che ivi, non meno che in altri centri del suo culto, si credeva che il Pianeta Nero chiedesse sacrifici dei figli ai suoi fedeli [51].

Poiché la nostra precedente discussione ha evidenziato che il Tempio di Salomone venne costruito su un sito dove, nella forma dello Eben Šeṯîịâ, una parte del corpo astrale di Saturno era presente e visibile, e dove sacrifici umani erano offerti a quel dio, e che, per di più, il santuario esibiva caratteristiche esteriori tipiche dei templi di Saturno, siamo ora in grado di rispondere alla domanda posta all’inizio di questo capitolo: era in onore di Šalim, il pianeta Saturno, che Davide e Salomone costruirono il tempio sul Monte Morîịâ, ed era, inoltre, il culto di questo dio che questi due principi cercarono di diffondere tra i loro sudditi. Se è così, è vieppiù manifesto che il simbolo della stella a sei punte, che comunemente prende il nome sia da Davide che da Salomone, fosse l’emblema della loro divinità prediletta, il pianeta Saturno [52]

NOTE:

[1] Oggi la Ka’ba misura 12 x 10 x 15 metri, il che significa che non è più un cubo in senso strettamente strereometrico; cfr. Snouck Hurgronje, Mekka, Haag, 1888, p. 2.

[2] Cfr. Keane, op. cit., pp. 26 e 158. 

[3] Vedi Revue de l’Histoire des Religions CX, 1934, p. 63, nota 86, dove si trovano anche riferimenti ai pertinenti elenchi di dèi. 

[4] Sarebbe azzardato identificare Šulmânîtu con la “Regina del Cielo” menzionata in Ger. XLIV, 17 ss. come una delle divinità autoctone adorate in Palestina. Riguardo a quest’ultima si dice che sia stata riverita “nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme”, donde è logico assumere che, in contraddizione con la divina sposa di Šalim, ella non fosse una dea particolare del culto di Gerusalemme. 

[5] Vedi I. Benzinger in Baedeker’s Palastina und Syrien, Leipzig 1900, pp. 56 ss.; E. Pierotti, Jerusalem Explored, London 1864, pp. 63, 74, e passim; cfr. C. Schick, Die Stiftshütte, der Tempel in Jerusalem und der Tempelplatz der Jetztzeit, Berlin 1896, pp. 326 ss.

[6] Vedi sopra, nota 54, sub (1).

[7] Sanhedrin X, 29a; per ulteriori riferimenti vedi Ginzberg, The Legends of the Jews, vol. VI, Philadelphia 1928, p. 258, nota 70; cfr. dello stesso autore la parafrasi della leggenda ibidem, vol. IV, Philadelphia 1913, p. 96. 

[8] Secondo Unger (Reallexikon der Vorgeschichte, vol. XIV, Berlin 1929, P- 533b), i mattoni usati dagli Assiri del nono secolo avevano uno spessore di circa 12 -13 cm. 

[9] Vedi col. II, l. 132 degli Annali di Aššûr-naṣir-apli (E. A. W. Budge e L. W. King, Annals of the Kings of Assyria, vol. I, London 1902, p. 345). Per passi simili in altre iscrizioni dello stesso regnante vedi ibidem, pp. 209 ss., 11. 16-17, e cfr. p. 176, ll. 8-13; p. 186, ll. 15-18; e p. 220, ll. 17-18.

[10] Vedi Wellhausen, op. cit., p. 75; cfr. il passo degli Annali di Ṭabarî citato sopra, nota 50, primo paragrafo. 

[11] Kitâb al-âṯâr al-bâqiya, p. 334.

[12] Nella visione di al-Bîrûnî, questo era vero sia al tempo del paganesimo che nel periodo islamico. Tuttavia, dal momento che, dopo la riforma islamica del calendario, il pellegrinaggio mutava da stagione a stagione durante l’anno, la sua dichiarazione in realtà sembra applicarsi solo all’epoca preislamica quando aveva luogo sempre a inizio primavera, i.e., in un periodo in cui anche a Mecca l’acqua risulta più abbondante rispetto al resto dell’anno. 

[13] Com’era, e.g., il caso dell’Esagil, il famoso tempio di Marduk a Babilonia; vedi il resoconto di Aššûr-aḥ-idinna sulla ricostruzione di questo santuario (Meissner-Rost, Die Bauinschriften Asarhaddons, Beitrage zur Assyriologie III, 1898, p. 248, ll. 21-25) dove si dice che quando costruì la terrazza intorno al tempio, il re scavò fino al livello dell’acqua del sottosuolo. 

[14] Vedi, e.g., il Targum Pseudo-Yonathan su Es. XXVIII, 30: “… lo Eben Šeṯîịâ, con cui il Signore dell’Eternità, in principio, sigillò la bocca del grande tehôm.”. 

[15] Vedi Ginzberg, op. cit., vol. I, p. 12, e vol. V, p. 14, nota 39. Se lo Eben Šeṯîịâ, che sigillava il pozzo attraverso cui si riteneva che sgorgasse il tehôm, era al centro del Sancta Sanctorum, è chiaro che le acque del tehôm si trovavano immediatamente al di sotto di questa parte centrale del Tempio. Che questo fosse l’effettivo pensiero degli Ebrei deriva da un passo del Talmud Babilonese (Yoma, capitolo VIII, fol. 77b – 78a) che parla di un corso d’acqua sgorgato dal Sancta Sanctorum

[16] Vedi il trattato della Mishna, Yoma, capitolo V, 2, e cfr. Tosifta, III, 6.

[17] Cfr. Kittel, Studien zur hebräischen Archäologie und Religionsgeschichte, Leipzig 1908, p. 34, nota 3.

[18] Vedi Wellhausen, op. cit., p. 101.

[19] Vedi capitolo V, 3 del succitato trattato della Mishna Yoma, dove è descritto come, nel Giorno dell’Espiazione, il Sommo Sacerdote cospargesse la sacra pietra con il sangue di un toro che egli stesso aveva presentato al Signore come offerta per i peccati. 

[20] Vedi il succitato passo di Tosifta III, 6.

[21] Sullo sviluppo che le istituzioni del culto preisraelitico di Gerusalemme seguirono fino ad essere gradualmente assorbite dalla religione di Yahweh vedi di seguito, pp. 354 ss. 

[22] Wellhausen, senza avventurarsi in spiegazioni circa questo culto, enfatizzava (op. cit., pp. 101 ss.) che tra gli Arabi pagani la pietra “è più di un altare, rappresenta la divinità, sia essa maschile o femminile”. 

[23] Come esposto a p. 65 ss. dell’articolo citato sopra, nota 8, la religione delle stelle nacque tra i nomadi del deserto arabico che alla fine la diffusero in tutta la Mezzaluna Fertile. 

[24] Vedi Clemen, op. cit., p. 29, sub 31. 

[25] Il testo fu pubblicato da Langdon, Rev. D’Ass. XXVI, 1929, pp. 190 ss.; per la più recente traslitterazione, traduzione e discussione vedi Weidner, Archiv für Orientforschung VIII, 1932-3, pp. 29 ss., dove sono elencate anche le prime edizioni, traslitterazioni e traduzioni. 

[26] Loc. cit., p. 193, sub 6. 

[27] Che nella traslitterazione akkadica dBa-a-ti-ilâni.meš il plurale  ilâni.meš debba, con Langdon, loc. cit., essere interpretato come un pluralis maiestatis da rapportare con l’ebraico Elohîm deriva dal fatto che in molti casi, come Bît-ili-nûri (per i riferimenti vedi Langdon, loc. cit.) o Bît-ili-adir (vedi di seguito, nota 83), il plurale ilâni è sostituito dal singolare ili. L’uso di un pluralis maiestatis con riferimento a un grande dio è rintracciabile altrove nelle fonti akkadiche. Il titolo اﻟﻪ ٳﻵﻠﻬﺔ,“dio degli dèi”, che, secondo le nostre fonti medievali (vedi, e.g., ad-Dimišqî, op. cit., p. 47) era conferito dagli adoratori degli astri al loro dio supremo, appare nel cilindro di fondazione di Nabû-na’id dalla ziqqurat di Ur nella forma ilâni.meš ša ilâni.meš(vedi col. I, l. 29 e col. II, l. 5 del testo n. 5 traslitterato e tradotto da Langdon a pp. 250 ss. del suo sopracitato Neubabylonische Königsinschriften). Ricordiamo inoltre che, come evidenziato da Weissbach (Archiv für Orientforschung VII, 1931-2, p. 38, e Zeitschr. f. Ass. XLIV, 1938, pp. 165 ss.), la versione babilonese dell’Iscrizione b di Naqš-i-Rustam di Dario, come molte altre iscrizioni dello stesso regnante, esprimono il concetto di “un grande dio” nell’espressione “un grande dio è Ahura Mazda” con ilâni.meš rabû. L’uso del plurale è infatti ben in linea con la dottrina della religione planetaria secondo cui il dio supremo era, per usare le parole degli autori medievali ﻭاﺣﻌ ﻭﻛﺸﺮ (così ad-Dimišqî, op. cit., p. 44). Cosa si intenda con questa definizione fu spiegato dalla scrivente a p. 62 dell’articolo citato sopra, nota 8; ivi era mostrato che, quando i Babilonesi si rivolgevano al loro dio supremo, Marduk (i.e., il pianeta Giove) con i nomi di Sîn, Šamaš, e di tutti i famosi astri del cielo notturno, o quando Nabû-na’id invocava il suo supremo dio, il dio-Luna Sîn, come il signore del tempio di Marduk, l’Esagil, e del tempio di Nabû, l’Ezida, essi concepivano le divinità minori come manifestazioni del dio supremo. Manifestandosi in tutti i fenomeni del cielo notturno, questi dèi planetari che erano considerati dai loro seguaci come supremi dèi universali (viz., Sîn, Marduk e, come sarà mostrato in seguito, pp. 354 ss., Ninurta) erano, nei fatti, “uno e molti”. Alla luce di questa evidenza l’interpretazione dello spelling ilânimeš proposto da Hilprecht (apud Clay, Business Documents of Murashû Sons of Nippur, The Babilonian Expedition of the Univ. Of Pennsylvania, vol. X, Philadelphia 1904, pp.IX ss.) e, più recentemente, da Eissfeldt (Archiv für Religionswissenschaft XXVIII, 1930, p. 19, nota 1) può essere superata. 

[28] Vedi i nomi elencati da Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B.C., Oxford 1923, p. 279b; cfr. il significativo nome mBît-ili-a-di-i[r],“Bêt-êl è nero”, che ricorre in un testo akkadico da Nêrab (no. 16, rev., l. 1 delle Tablettes babyloniennes de Neirab, pubblicate da Dhorme, Rev. d’Ass. XXV, 1928, pp. 53 ff.).

[29] Vedi Clemen, op. cit., p. 27, sub 23. 

[30] Questa è l’opinione dei moderni studiosi; vedi F. A. Lucas, Meteorites, Meteors and Shooting Stars2, New York 1931, p. 7.

[31] Cfr. sopra, p. 339 con nota 48. 

[32] È probabile, d’altro canto, che un meteorite rosso o rossastro possa esser stato considerato un frammento del “Pianeta Rosso” Marte, e così via. Come accennato sopra, p. 339, gli antichi adoratori degli astri assegnavano un colore a ciascuno dei sette pianeti e consideravano questi colori un tratto indicativo della natura della rispettiva divinità astrale. 

[33] Dal punto di vista storico, la spiegazione dell’uso di idoli come simboli degli dèi sempre visibili da parte dei credenti è molto più solida rispetto a quella proposta dalla maggior parte degli autori musulmani (vedi sopra, nota 37) secondo cui gli idoli erano le statue di esseri umani divinizzati dopo la morte. Perché, come accennato sopra, nota 78, il culto degli astri ebbe origine tra i nomadi del deserto arabico che, viaggiando di notte, si orientavano con l’aiuto delle stelle. Finché condussero questo stile di vita, naturalmente non ebbero bisogno di alcuna rappresentazione terrena dei loro dèi; poiché le attività dei nomadi iniziano effettivamente dopo il tramonto, alcuni almeno dei corpi celesti del cielo notturno erano visibili e approcciabili ogni volta che il fedele voleva invocarli. Tuttavia, non appena i membri delle tribù si sedentarizzarono, iniziarono a dormire di notte e a lavorare di giorno, e cioè proprio quando le loro divinità erano invisibili. Perciò potrebbero aver avvertito l’urgenza di allestire immagini come simboli dei loro dèi per poterli avvicinare ogniqualvolta avessero avuto bisogno di divino conforto e divina ispirazione. 

[34] Vedi, e.g., Mas’ûdî, Les prairies d’or, vol. IV, pp. 125 ss.; secondo lo stesso autore (ibidem, IV, 154), Muhammad aveva 36 anni quando la ricostruzione fu completata. 

[35] Vedi sopra, pp. 344 ss. 

[36] Cfr. Huart, Geschichte der Araber, vol. I, Leipzig 1914, pp. 82 ss. 

[37] Su questo particolare vedi la biografia del profeta scritta da Khwândamîr citata da d’Herbelot, op. cit., II, p. 176, s.v. Hagiar Alassovad; cfr. anche vol. I, p. 432, s.v. Caaba. 

[38] Così d’Herbelot, loc. cit.; per quanto riguarda il contesto vedi nota appresso. 

[39] Khwândamîr apud d’Herbelot, loc. cit., riferisce la tradizione come segue: “I Giorhamidi [i.e., il leggendario clan che si dice avesse abitato Mecca prima dei Quraiš] che avevano la custodia di questo Tempio, furono costretti a cederne il possesso ai Banu Beker,… che erano diventati padroni della città con la forza delle armi. Amrou Ben Hareth, capo dei Giorhamidi, temendo che il tempio venisse profanato, staccò la pietra nera da dove era posta e la gettò nel pozzo di Zemzem, la cui bocca chiuse così bene che non fu trovata da nessuno dei loro nemici.” Pur chiarendo che, quando fu recuperata da ‘Abd al-Muṭṭalib, la Pietra Nera fu trovata sull’apertura del pozzo di Zemzem, è probabile che questa leggenda sia servita come spiegazione di questa sua posizione, che manifestamente non era più compresa dai Meccani del VI secolo della nostra era. A giudicare dall’analogia con il Tempio di Salomone, bisogna invece concludere che il pozzo di Zemzem con la Pietra Nera sulla sua sommità siano stati un tempo al centro del santuario a forma di cubo. Questa conclusione è ben in linea con il fatto che il pozzo di Zemzem quando fu dissotterrato da ‘Abd al-Muṭṭalib conteneva offerte votive come le due famose gazzelle d’oro e le armi preziose menzionate dalle fonti che abbiamo a disposizione; noi sappiamo, infatti, che nel periodo storico certi doni alla divinità venivano deposti nel pozzo dentro il santuario (cfr. Wellhausen, op. cit., p. 103). Se è così, si può presumere che l’antico santuario sia stato distrutto da una delle catastrofiche inondazioni (riportate dagli Arabi come Sail) che frequentemente si abbattevano sulla valle di Mecca. Questi violenti torrenti d’acqua non solo distruggono e portano via tutto ciò che incontrano sulla loro strada, ma lasciano dietro di sé anche uno strato di fango che potrebbe aver nascosto il pozzo sacro con sopra la Pietra Nera [sulla natura di queste alluvioni vedi Snouck Hurgronje, Mekka, Haag 1888, pp. 18 ss., e cfr. la descrizione di Keane citata sopra, p. 342, nota 54, sub (3)]. Forse il ricordo di una di queste inondazioni traspare dalla tradizione islamica secondo cui la Ka’ba scomparve durante il Diluvio. Secondo alcuni autori (vedi d’Herbelot, op. cit., I, p. 432, s.v. Caaba) essa fu distrutta dal diluvio; secondo altri (vedi Cronache di Abu-Jafar  Mohammed Tabari, tradotto da Louis Dubeux, vol. I, Paris 1836, p. 180) essa ascese al Paradiso. Cfr. Mas’ûdî, Les prairies d’or, III, p. 296, che descrive il sito del tempio dopo la distruzione come una distesa di sabbia. 

[40] Per i riferimenti vedi Ginzberg, op. cit., V, p. 14, nota 39.

[41] A giudicare dalla frammentaria tavoletta AO.4135 (pubblicata in facsimile, traslitterazione e traduzione di Thureau-Dangin, Rev. D’Ass. XI, 1914, pp. 82 ss.; cfr. Geller, op. cit., pp. 314 ss.), l’unica parte dell’epopea che tratta della battaglia vera e propria, il primo scontro non sembra essere stato favorevole a Ninurta. 

[42] Per riferimenti vedi Ginzberg, op. cit., vol. V, p. 14, nota 39. 

[43] Vedi sopra, p. 338.

[44] Vedi sopra, p. 343, con nota 55. 

[45] Vedi Ginzberg, op. cit., vol I, p. 285; per i riferimenti vedi ibidem, vol. V, p. 253, nota 249.

[46] Le “città di Šomrôn” sono menzionate anche in Ezra IV, 10 (così secondo Torrey, Ezra Studies, Chicago 1910, p. 186, nota s, e Bauer e Leander, Grammatik des Biblisch-Aramäischen, Halle 1927, p. 313, sub g).

[47] Dalla letteratura cuneiforme citiamo in particolare la città-stato di Iblâ alla quale Sargon di Akkad si rivolge nel seguente ben noto passo: “Sargon si è prostrato a Tuttul innanzi a Dagon; a seguito della sua preghiera Dagon gli ha consegnato la terra superiore: Mâri, Jarmûti, Iblâ, fino alla foresta di cedri e alle montagne argentee” (il pertinente passo ricorre nell’iscrizione pubblicata da Poebel, Historical and Grammatical Texts, Philadelphia 1914, n. 34, col. 5 e 6). Come ripetutamente affermato dai moderni autori (vedi, e. g., Landsberger, Über den Wert künftiger Ausgrabungen in der Türkei, Belleten 10, 1939, p. 223, sub 25), questa città-stato di Iblâ si trovava nelle vicinanze della città di Ursu alla quale Gudea, nella sua cosiddetta Statua B (col. V, ll. 53 ss.) si riferisce come “la città di Ursu nella montagna di  lblâ” (la controversa questione dell’esatto sito di Ursu e Iblâ è stata recentemente discussa da J.-R. Kupper, Rev. d’Ass. XLIII, 1949, pp. 79 ss.). Numerosi esempi pertinenti sono forniti da ad-Dimisqî: Mâridîn, secondo lui (op. cit., p. 191), non era solo il nome della ben nota città nel distretto di Diyâr-Bekr, ma anche la denominazione del paese circostante, come anche la montagna sulle cui pendici la città era costruita. La città di Şafad, secondo lo stesso autore (op. cit., p. 210), era situata nel “paese di Garmaq”, un distretto che chiaramente prendeva il nome dal Gabal Garmaq che sovrasta Şafad (cfr. I. Benzinger, op. cit., p. 286). Parimenti, nella regione di Şafad, ad-Dimisqî menziona (op. cit., p. 211) la montagna di Baqî’at con gli omonimi città e distretto. 

[48] Vedi, e.g., Julius Grill, Zeitschr. für die alttestamentliche Wissenschaft, IV, 1884, p. 145.

[49] Bauer e Leander, Historische Grammatik der Hebräischen Sprache, Halle 1922, p. 502, citano come ulteriore esempio taḫtît e taḫtîiâ, “amante”. 

[50] Sulle forme femminili col maqtil delle tertiae י vedi Brockelmann, Grundriss I, p. 381, par. 200, sub f. 

[51] Se combinata con il principio evidenziato sopra, pp. 332-334, in base al quale colui che volesse prendere possesso di un certo paese doveva rendere omaggio al suo dio tutelare, questa evidenza spiega il significato dell’episodio riferito in Gen. XXII: Abramo, immigrato da Ḥarrân, voleva prendere possesso per sé e per i suoi discendenti di un paese il cui divino patrono e reggitore era il pianeta Saturno. Quindi egli doveva provare la sua devozione a questo dio eseguendo il rituale che gli si conveniva, consistente nel sacrificio del proprio figlio. 

[52] Queste conclusioni spiegano allo stesso tempo le popolari leggende arabe sul “sigillo di Salomone”. Come ben noto, gli Arabi credono che la stella a sei punte abbia dato a Salomone il dominio non solo su tutta la terra, ma anche su tutti gli spiriti, buoni e cattivi. C’è per esempio la storia, conservata nelle Mille e una notte, che parla di uno spirito che, ribellatosi a re Salomone, suo signore, venne imprigionato dal re in una bottiglia. Il contenitore, che infine fu ritrovato da un pescatore nella propria rete, era sigillato da un tappo di piombo recante il “sigillo del nostro signore, Salomone”. È facile notare che, come Ninurta-Šulmânu stesso confinò gli spiriti ostili del diluvio in un pozzo che fu sigillato da una pietra, così Salomone, tramite l’emblema della stella a sei punte di Ninurta, fu in grado di rinchiudere uno spirito ribelle dentro una bottiglia. L’idea dietro questo parallelismo è ovvia: affidando a Salomone l’anello con il suo emblema, si credeva che il dio avesse delegato almeno parte del suo potere al re che aveva scelto per governare in suo nome sugli abitanti della terra. Non è impossibile che fosse stato questo parallelismo tra il grande dio, Šulmânu o Šalmân, e l’omonimo re, che spinse gli Arabi a trasformare il nome biblico Šelômô(n) in quello che appare un diminutivo dal significato di “piccolo Šalmân”, essendo implicito che il “grande Šalmân” era il dio che aveva scelto re Salomone come governatore del mondo. (Per un tentativo di spiegazione della forma araba del nome Salomone su una base puramente linguistica vedi Brockelmann, Grundriss I, p. 256). 


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La liberté d'être autre




L'Être n'est pas seulement

"Cela Qui Est".

L'Être est liberté, libre d'être 

ceci ou cela, 

libre de le nier aussi,

libre d'en réaliser la synthèse,

et libre enfin d'aller au-delà encore,

vers l'Inexplicable, anâkhya.

Abhinava dit :

asthāsyad ekarūpeṇa vapuṣā cen maheśvaraḥ // 3, 100

maheśvaratvaṃ saṃvittvaṃ tad atyakṣyad ghaṭādivat /

 "Si le Grand Seigneur avait un corps 

d'une (seule) forme,

il nierait sa souveraineté et sa conscience,

(car il serait alors) comme un vase (inerte et fixe)."

Une chose est confinée en elle-même. Définie, située. Elle est ce qu'elle est, et rien d'autre.

La conscience n'est pas ainsi délimitée. Elle est ceci, et cela aussi,

et la négation des deux, et leur synthèse. 

La conscience est "conscience de", tout en étant toujours "au-delà de". 

Elle n'est pas "être", car elle est au-delà de tout ce qui est.

Elle n'est pas "non être", car elle se manifeste clairement d'instant en instant.

Elle est tout et son contraire : liberté sauvage.

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Fernando Sánchez Dragó | Aprender a escribir: todo está en los libros


Último extracto de la última conferencia de FERNANDO SÁNCHEZ DRAGÓ, donde habla sobre aprender a escribir y la sintonía "Todo está en los libros" de sus programas de televisión, que formó parte de la conferencia titulada «De rerum natura», dentro del XXXVII Encuentro Eleusino en Ávila: “El Arca de Noé. Zoología sagrada” (24 marzo 2023). Aparte de hablar sobre aprender a escribir y la sintonía "Todo está en los libros" de sus programas de televisión, en su conferencia FERNANDO SÁNCHEZ DRAGÓ trata otros temas como el gusto por los gatos y los perros, la lectura y la vida como únicas formas de aprender a escribir, María Kodama y la anécdota de Jorge Luis Borges con el tigre, los caracteres de sus gatos, su libro "Muertes paralelas" y el vuelo en la avioneta de Saint-Exupéry, la biblioteca del colegio y la colección de los Clásicos Araluce, la Araña y la falta de lectura en los jóvenes en la actualidad, su linaje paterno y el periodismo, la libertad en la España de su infancia, la censura y la revista "Aldebarán", su amigo Gonzalo Torrente Malvido, su hija Ayanta Barilli y la literatura, Ramón Tamames, su estancia en la cárcel y la salvación que encontró en los libros y el libro "En lucha incierta" de Steinbeck.

Licenciado en Filología Románica y Lenguas Modernas, Fernando Sánchez Dragó ha ejercido la docencia universitaria en España y fuera de nuestro país. Colaboró con la NHK japonesa y la RAI italiana, y, desde que en 1977 comenzara su andadura televisiva con el espacio literario «Encuentros con las letras», ha dirigido y presentado programas de televisión. «Libros con uasabi», en La 2 de TVE, es su última aventura televisiva. Fundador y director del suplemento literario «Disidencias» de «Diario 16», hoy día es contertulio en programas de radio y televisión y columnista en los diarios «El Mundo» y «La Razón». Como escritor, ha cultivado el ensayo y la novela. Entre sus obras destacan «Gárgoris y Habidis – Una historia mágica de España» (1978), «Las fuentes del Nilo» (1986), «El camino del corazón» (finalista del Premio Planeta de 1990), «La prueba del laberinto» (Premio Planeta 1992), «La del alba sería» (1996), «Historia mágica del Camino de Santiago» (1999), «Carta de Jesús al Papa» (2000), «Y si habla mal de España… es español» (2008), «Soseki – Inmortal y tigre» (2009), «Esos días azules. Memorias de un niño raro» (2011), «Shangri-La: el elixir de la eterna juventud» (2016) y «Galgo corredor: Los años guerreros (de 1953 a 1964)» (2020). Ha recibido galardones como el Nacional de Ensayo, el Ondas, el Nacional de Fomento a la Lectura, el Premio Espiritualidad Martínez Roca con «El sendero de la mano izquierda» y el Fernando Lara, con «Muertes paralelas». Sus últimos libros publicados son «Habáname» (Harkonnen, 2021) y la reedición de su primera novela, «Eldorado» (Berenice, 2021).

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