Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

Depresión / Melancolía
Neurosis - Estrés
Ansiedad / Angustia
Miedos / Fobias
Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

viernes, 17 de enero de 2025

East and (Far)West


East and (Far)West

Oggi, a proposito degli Stati e Governi a cui guardare (o da cui guardarsi!), una volta che si è data per scontata la decadenza a cui è soggetta ognuna delle diverse regioni del Mondo, da tempo rette da governi antitradizionali, e le cui popolazioni sono contagiate dal medesimo spirito moderno occidentale, risulta ancora valida la vecchia distinzione – apparentemente geografica, ma in realtà molto più profonda e significativa – fra Oriente e Occidente, utile a misurare il grado di dissoluzione e il livello di discesa verso la barbarie raggiunto nelle varie zone della Terra.

Nei conflitti e negli scontri, non solo militari, attualmente in corso è infatti possibile individuare, dietro la superficiale facciata geopolitica, un substrato razziale e religioso di fondo che testimonia la sopravvivenza marginale di un residuo tradizionale, che induce a preferire – se non altro, per ragioni opportunistiche – gli Attori orientali (Russia, Cina, Iran), piuttosto che quelli occidentali (Angloamericani e sudditi Europei, Israele compreso), e questo sia dal punto di vista della contingenza politica, sia del grado di civiltà ancora presente. Basti pensare alla Chiesa Ortodossa, al Confucianesimo epidermico del popolo cinese e all’Islam Sciita, per limitarci ai tre “nemici” indicati, insieme all’unità etnica e razziale di quei popoli; i quali forniscono sicuramente maggiori garanzie sulla presenza di un carattere e sulle capacità di resistere e combattere, di quanto non possano fare le nostre disfatte e multietniche società Occidentali (sterili ed evirate), meno stabili e maggiormente esposte all’assorbimento ed al dominio da parte di genti più centrate e uniformi, nel corpo e nella psiche.

Paradossalmente, l’Occidente che combatte oramai da tempo continue guerre, lo fa senza la presenza di nemmeno l’ombra dell’elemento guerriero (e quindi aristocratico) fra le sue fila, continuando a compiere i massacri indicibili che tutti conosciamo, come se si trattasse di un lavoro di routine e d’ufficio, senza coraggio e senza onore.

Questo è, attualmente, il quadro generale che si presenta a coloro che conservano un minimo senso critico e che si rifiutano di riconoscere una legittimità alla direzione presa dalla nostra Civiltà, che per la sua esasperata meccanicità e per lo strapotere della tecnica sarebbe meglio definire, seguendo Spengler, “Civilizzazione”; la quale mostra sempre più, non solo di non mantenere quanto prometteva in origine, ma di essere giunta alla fine della sua corsa e all’esaurimento del suo dominio.

Fra gli elementi sani che si schierano contro tale deriva si ipotizza talvolta la costituzione di un movimento di resistenza (di cui più avanti indicheremo i limiti), che sia al contempo aggregazione di uomini e concentrato di forze da contrapporre a un mondo che, per sensibilità interna ed istintiva insofferenza, viene percepito come estraneo ed ostile. Non è però detto che tutti gli sforzi fatti in questa direzione siano necessariamente inutili e sprecati, né, tanto meno, che essi rappresentino solo l’ingenuo frutto di giovanili entusiasmi; perché un tale “dibattito” può, a suo modo, risultare comunque utile, svolgendo, se non altro, un ruolo positivo in fatto di crescita e maturazione della consapevolezza riguardo all’impegno da assumere, rendendosi pienamente conto di quelle che sono le forze in campo e degli interventi eventualmente possibili.

E siccome non si può stare con le mani in mano – segno d’impotenza e di resa – continuando a cavillare nell’attesa di un gratuito e spontaneo soccorso da parte di Popoli e Stati che giustamente pensano in primo luogo a se stessi e ai loro interessi vitali; bisogna che le forze che potremmo definire, in senso lato, del Fronte della Tradizione continuino a operare per conto proprio e in piena autonomia: facendo ognuno la propria parte e procedendo nella giusta direzione. Cercando in primo luogo di evitare di cedere al facile vizio del proselitismo e della volgare propaganda, sempre in agguato quando si agisce verso l’esterno, in cerca di adesioni; vizio che rappresenta al massimo grado l’anima commerciale e utilitaristica dell’odierno Occidente, definendone tutte le relazioni e le comunicazione – dall’alto verso il basso – fra governanti e sudditi; che poi è l’unico rapporto istituzionale che è possibile ritrovare in un mondo composto da tiranni e schiavi. Anche perché il proselitismo rappresenta un inquinamento dell’anima, una macchia indelebile per colui che se ne fa promotore, e un’offesa insanabile per l’intelligenza la libertà e l’autonomia di chi ne è vittima.

Come accade normalmente (dai venditori di aspirapolvere e pentole, ai promotori di pseudo religioni e nuovi culti, fino ai molestatori climatici di “ultima generazione”) presso coloro che apparentemente reggono i destini del Mondo, cioè gli Stati Uniti d’America, il cui sistema sociale si fonda proprio sulla propaganda e sulla pubblicità, entrambi adatti a sedurre e assecondare l’infantilismo e l’immaturità dei loro cittadini; abitanti di una nazione, è bene ricordarlo, che si è appena affacciato sulla scena mondiale, e le cui vicende storiche sono contenute in qualche striminzito capitolo dell’ultimo volume dei manuali scolastici. Quei cittadini statunitensi che ignorano del tutto, non interessandogli nemmeno, quanto è scritto nei precedenti volumi di storia. È quindi comprensibile come la stoltezza e l’arroganza nordamericane possano essere equiparate a quelle di giovincelli nati ieri, che pretendono di spiegare come va il mondo e la vita a chi è più vecchio e più saggio di loro, solo perché sono in grado di scaricare e installare una nuova applicazione sullo smartphone.

Ci sarebbe solo da ridere per queste insulse banalità, se ad esse non si accompagnassero la barbara e incivile propensione alla violenza gratuita e l’attitudine criminale e mafiosa con cui gli USA affrontano le relazioni internazionali: ricorrendo alla forza bruta, alla tecnologia distruttiva e alle illimitate disponibilità economiche di cui godono. Con l’aggravante della nefasta tendenza ad immischiarsi nei fatti altrui; di quei popoli, cioè, che farebbero volentieri a meno della loro attenzione. I quali preferirebbero continuare a seguire il proprio stile di vita e rimanere fedeli alle proprie tradizioni, senza doversi misurare con le prepotenze di un simile bullo.

Per non farsi coinvolgere o restare vittime di questo scontro impari e mortale, seguendo i principi che ispirano l’impegno e motivano le scelte ideali ed esistenziali di chi si schiera contro l’anomalia moderna, non ci si può, allora, servire del citato “movimento”, in quanto strumento esclusivamente politico, che – come indica la sua stessa denominazione – si basa sul cambiamento, sull’instabilità, sulle novità legate alla cronaca del momento e sull’esasperata ricerca dell’originalità e del consenso ad ogni costo: tutti frutti dell’individualismo intellettuale che contraddistingue e caratterizza la modernità; aprendo in tal modo le porte all’anarchia, e assecondando la scomparsa di ogni autentica Autorità e di qualunque tipo di Governo in grado di assicurare le normali e necessarie condizioni di vita, all’interno di comunità sane ed equilibrate. Fondando in questo modo, di fatto, il proprio impegno più sulla molteplicità dell’attivismo e sull’oscuramento spirituale, piuttosto che sull’Unità della Conoscenza e sul radicamento nell’Essere.

Semmai, nella fase ciclica attuale, sarebbe più efficace pensare alla costituzione di un vero e proprio Ordine (e anche qui la denominazione è già un programma!); certo aggiornato e adattato ai tempi, ma pur sempre strutturato in senso gerarchico e dal preciso orientamento verso l’alto; simile per molti versi a quelli che costituirono la spina dorsale e diedero la linfa vitale alla migliore tradizione europea del Medioevo, sotto forma di ordini cavallereschi e ordini monastici; al cui interno dovrebbero tornare a contare più le vocazioni e le qualificazioni personali, piuttosto che i momentanei e superficiali entusiasmi, dettati dal sentimento e dalle fuggevoli suggestioni, che proprio l’impegno politico presuppone. Puntando, quindi, ad una rigida selezione qualitativa dei suoi aderenti, in totale controtendenza con le deleterie istanze inclusive e democratiche, dove conta più il numero, la massa e la quantità, anziché la qualità e la persona, in tutta la sua pienezza di corpo, anima e spirito.

Così, anche l’aggiungere un solo tassello alla costruzione di un tale “baluardo” sarebbe già un segno tangibile di dedizione al Principio, e un concreto contributo alla causa tradizionale: nell’assoluta impersonalità e nel totale disinteresse per il proprio, trascurabile, intervento. Trattandosi, fra l’altro, di un impegno che può essere assunto già da subito, senza dover aspettare che si creino tutte le condizioni adatte al compimento dell’Opera: a cominciare dal collegamento effettivo con l’ordine trascendente e immutabile, che solo un provvidenziale ausilio superiore potrà garantire, quando sarà giunto il momento.

A tal fine, non sarà certo la lettura di qualche libro a propiziare le necessarie aperture interiori; rappresentando la lettura solo un supporto per la meditazione, oltre che un aiuto per le chiarificazioni dottrinarie. Qui si tratta, invece, dell’intervento e del pieno svolgimento del loro ruolo da parte delle disposizioni e delle attitudini innate di ognuno, che nessuna lettura potrà mai assicurare o garantire; le quali, una volta messe in collegamento con una Via regolare, portano direttamente a beneficiare dell’influenza spirituale necessaria al compito prefissato. Perché, come ci ricorda René Guénon in “Oriente e Occidente”, «tutto ciò che viene fatto in uno spirito veramente tradizionale ha la propria ragion d’essere e anzi sempre una ragione profonda; […]  bisogna già esser penetrati nel dominio dei principi, almeno di quel tanto che permette di ricevere quella direzione interiore da cui non si potrà mai più deviare».

Raggiunte tali terre ferme e abbandonata definitivamente la molteplicità e le sue leggi, per stabilirsi nell’Unità, non si è più soggetti agli effetti dell’illusorio gioco d’ombre di questo Occidente decaduto, e non si potrà più essere sviati e deviati dalla Retta Via, assumendo consapevolmente, chi quella Via si trova a percorrere, il peso delle proprie piene responsabilità e le conseguenze di tutte le proprie azioni.

 

 

 

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Entonces, ¿Estás ya iluminado?


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¿Cómo entender realmente esta pregunta? Porque no puedes responderla a menos que conozcas quién es el/la que se ilumina.Obviamente, atma, la así llamada divinidad interna, no se ilumina. Esa divinidad interna es no nacida, no creada, siempre divina, eternamente iluminada. Por otro lado, la iluminación no es para el cuerpo físico. ¿Para quién es la iluminación? Y ésta es una pregunta sorprendentemente compleja. Adi Shankaracharya es tan brillante que es capaz de darnos una respuesta en una única palabra, y luego comentarla en varios párrafos. Es su estilo. ¿Quién se ilumina? Shankara dice pricchuh, el que...

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The First Greek Philosopher


Dear Classical Wisdom Reader,

He’s not a household name…

But maybe he should be!

Long before Socrates, Plato, or Aristotle, the first of the ancient Greeks to set about trying to explain and understand the world around them was Thales of Miletus.

Indeed, out of the pre-Socratic philosophers, Thales is the first philosopher.

While his ideas may seem a little odd to us today, his legacy is vast.

As well as laying the groundwork for later philosophers, his work also represents an early example of scientific thought.

Read on below to discover what we know of his life, his famous prediction of an eclipse, and how he broke new ground by explaining the natural world without using mythology…

All the best,

Sean Kelly

Managing Editor

Classical Wisdom


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The First Greek Philosopher: Thales of Miletus

by Van Bryan

Living sometime between the 8th and 6th century BCE, Thales of Miletus is considered the very first of the Greek philosophers. It was Thales who initially attempted to decipher the world without reference to mythology, and he was impressively influential in this respect. Indeed, almost every pre-Socratic philosopher followed his thinking as they tried to unravel the universe. For this, many say ‘Greek philosophy begins with Thales’.

Around this time period, the people of the ancient Greek peninsulas began to settle into established city-states. They developed a structured system of counting, as well as created an alphabet. But it was Thales who revolutionized a way of reasoning and endeavored to explain the world around him.

Until this time, Greek men and women lived by the whim of the gods. All natural phenomenon such as rain, thunder and even earthquakes were believed to be the result of temperamental and powerful deities. Thales, however, being the bold individual that he was, concluded that the universe was logical, rational… and even predictable.

While the rest of Greece prayed to the gods for healthy crops and peaceful seas, Thales diligently studied geometry and astronomy. Subsequently, through the power of his own observations, he accurately predicted a total solar eclipse in 585 BCE.

Solar Eclipse

As you can imagine, this foresight meant he was considered something of a demi-god or sorcerer. Never before had a man been capable of predicting the erratic nature of the universe! For Thales, however, the solar eclipse only cemented his belief that the universe behaved with predictable tendencies.

Thales’ conviction in order and reason had additional benefits, something that separated him from the rest.

You see, one of the most common criticisms of philosophers was that they provided no influence or solutions to everyday problems. It was said that these thinkers kicked up dust and then complained that they could not see. Indeed, it was noted that Thales, while walking one night with his head turned up to the stars, fell face-first into a ditch.

Aside from being embarrassing, this would appear to be evidence that philosophy distracts us from our earthly condition and that it holds no sway in practical matters. And yet, Thales is still a shining example of a man who used philosophy as a means to arrive at a very practical and profitable end.

For instance, Thales deduced that good crops were due to favorable weather conditions, and not the result of the gods. Thales used this knowledge to predict a high yield of olives one harvest year. He bought out a large number of olive presses at a low price early in the season. Several months’ later farmers indeed were met with a bountiful supply of olives. Thales, being the owner of a majority of olive presses, was able to rent and sell the equipment at a considerable mark up. The man made a substantial profit and proved that philosophy, in fact, could lead to success in business.

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While Thales had many intellectual successes, he also had a few ideas, while influential, that were eventually dismissed.

It had occurred to Thales that the state of the universe was due to natural causes. Consequently, he set about to try to understand the world… but first, he needed an original principle from which to work.

Thales of Miletus

Thus the question he posed was this: ‘what is the basic material of the cosmos?’ He believed there must be a common denominator of sorts that could accurately compose all of matter. Surely there was some first substance from which came all other materials.

And to Thales, that substance was water.

This idea, that the entire universe is composed of one fundamental element, is known as “Monoism”. It is a branch of metaphysics that was very popular in ancient Greece, and indeed, many of Thales’ followers would build on his idea that the universe is composed of one essential substance.

It is not hard to imagine why Thales drew the conclusion that everything was made of water. He believed that the fundamental material of the universe would have to be something from which all life could be formed. It would be a material necessary for sustaining life. Additionally, it would have to be a substance that was capable of motion and change. Water satisfied all of these criteria.

Living in the Greek peninsulas, the world very much appeared to come from water. Men traveled upon boats in the rivers and the oceans, and in fact all land ended at water. Much of the food in ancient Greece was fished from the sea. The livelihood of the farmers was determined by the rainfall of that season. Water was life, and to Thales, it was also the universe.

But it is not because of his assertion that everything was made of water, that we remember Thales. His claim might seem far-fetched by the standards of modern science, but for the time period, it was a dramatic leap forward in the arena of critical thinking and scientific study.

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Of course we can’t be sure, but this initial step of challenging institutionalized ideas might have helped to blaze the way for the next controversial thinkers. By seeking rational explanations for observable phenomena, he laid the foundation for future philosophical and scientific thinking. For this reason, Thales of Miletus was one of the first pair of shoulders on which a long line of philosophers would stand…

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A Prayer for Rajab: O Allah! Grant me Your love


Peace, one and all…

Rajab is one of the four sacred months, a time for peace and the cessation of hostilities. Here is a beautiful prophetic prayer for this month.

اللَّهُمَّ ارْزُقْنِي حُبَّكَ وَحُبَّ مَنْ يُحِبُّكَ وَالْعَمَلَ الَّذِي يُقَرِّبُنِي إِلَى حُبِّكَ

Allahumma arzuqni hubbaka wa hubba man yuhibbuka wal-‘amal alladhi yuqarribuni ila hubbika.
O Allah! Grant me Your love, the love of those who love You, and actions that will bring me closer to Your love.

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España necesita reconstruir sus bases culturales elementales


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jueves, 16 de enero de 2025

Los Caminos de los Antiguos Sabios: Una Historia Pitagórica, Peter Kingsley


Publicado en inglés en Lapis en el año 1999.

En el año 1191 en Alepo, Siria, un hombre llamado Shijab al-Din Yajia al- Suhrawardi era ejecutado por orden directa de Saladino, el gran regente islámico. Tenía 38 años.

Su muerte y breve vida  nada  parecerían tener en común con Pitágoras, o con los pitagóricos de la  antigua Grecia, pero no es así.

Suhrawardi es conocido en Persia  como “el Jeque del Oriente», o simplemente como «al que mataron». Durante su vida enseñó y escribió sobre el descubrimiento de una tradición esotérica de linaje ininterrumpido; una tradición que teniendo su  comienzo  en el Oriente, sería transmitida a los primeros filósofos griegos, llevada de Grecia a Egipto  y, después  de  recorrer el Nilo, regresaría finalmente a Persia desde el sur de Egipto.

Para Suhrawardi,  la tradición que descubrió no se trataba  únicamente  de un hallazgo histórico. En realidad se consideraba  a  sí  mismo como su representante viviente, como responsable de llevarla a su culminación y de regresarla a sus raíces orientales, cerrando así el círculo.

La exigua minoría que hoy estudia a Suhrawardi gusta de creer que su visión del pasado es puramente simbólica, que su interpretación de la historia no se  debe tomar ni literal ni seriamente.

Pero Suhrawardi hablaba muy en serio. También así sus sucesores, gente que a través de la historia, y hasta el  día  de hoy, declaran haber perpetuado intacta una tradición esotérica no basada en la teoría o el razonamiento sobre  la realidad, sino en la experiencia directa, que se obtendría a través de la lucha espiritual y de técnicas específicas de la realización.

Para estos adeptos la tradición estaba viva, dotada de un increíble poder inmanente. Suhrawardi la describió  como eterna «levadura», capaz de transformar todo aquello que tocara, elevando a aquellos que estaban preparados a otro nivel de ser; y que, a modo de levadura, actúa sutil pero irresistiblemente,  transformando  desde el interior – imparable precisamente por ser tan sutil. Los teólogos contemporáneos de  Suhrawardi  se dieron cuenta de que la única manera de poner fin a sus enseñanzas era  matándole. Pero no consiguieron matar nada.

Suhrawardi, así como sus  sucesores  los sufíes persas, identifica muy clara y específicamente a sus ancestros. Apunta en particular a dos antiguos filósofos griegos: Pitágoras y alguien procedente de Sicilia llamado  Empédocles.  También nombra la población del sur de Egipto donde arribó eventualmente la tradición, así como al responsable de desplazarla fuera de Egipto en el  siglo IX d.C., cerca de mil quinientos años después de los tiempos de Pitágoras y Empédocles.

Como comprobaremos posteriormente, Suhrawardi sabe de lo que habla. Pero comencemos por el principio.

Los especialistas de la Grecia Clásica suelen sentir un desagrado innato al mencionarse cualquier contacto con el antiguo Oriente. Puede resultar desconcertante darse cuenta de que el área de estudio a la que uno ha dedicado toda una vida no es más que una ínfima casilla en un vasto tablero de  ajedrez; que los detalles que uno ha estado investigando tan cuidadosamente no son sino las huellas trazadas por las piezas según se deslizan de un lugar desconocido a otro que no se llega a comprender.

La filosofía occidental se considera  hoy como un fenómeno estrictamente griego, comprensible únicamente en términos de la antigua Grecia. Los antiguos relatos que describen cómo los primeros filósofos viajaron a lugares lejanos en busca de conocimientos y sabiduría son repudiados como fantasías románticas, como los sueños de autores griegos que vivieron mucho tiempo después de los personajes sobre los que escribirían.

El problema es que en el caso de Pitágoras, los relatos que  existen  sobre él y que describen cómo se desplazó por casi todo el mundo son, en líneas generales, contemporáneos a su vida. A los historiadores les agrada referirse  a  un «espejismo oriental», la exótica fantasía que convencería a los  griegos  de que su cultura mucho le debía al Oriente. Pero en realidad, el  espejismo es un «espejismo griego», la absurda pretensión que la cultura griega se desarrolló en un mundo impenetrable y estrictamente autóctono.

La realidad es esta: el mundo de la antigüedad era un vasto y entrecruzado conjunto. Todo estaba íntima y sutílmente conectado entre sí. Sería suficiente advertir lo que sucedió en la época de Pitágoras, cuando las tradiciones astrológicas de Babilonia fueron llevadas por los magos persas al Egipto, y más     al Este, esas  mismas tradiciones se introducirían  a la  India por los magos.  Sin excepción  alguna, hoy se sostiene que Alejandro  Magno fue quien provocó la apertura del Oriente, siglos después de Pitágoras. Pero esto se trata de otro mito. Las rutas que siguió  el  ejército alejandrino  eran ya    utilizadas por comerciantes  y maestros persas mucho tiempo antes del nacimiento del conquistador macedonio. Asimismo  podríamos examinar el caso de Pitágoras. Vivió en la isla de Samos, a poca    distancia de la costa mediterránea de Turquía. Los habitantes de Samos eran los especialistas entre los especialistas del comercio exterior. Disfrutaban de una reputación cuasi mítica en el mundo del viaje y el comercio. El gran templo de Hera de Samos se convirtió en el depósito de todo tipo de objetos importados de Siria y Babilonia, del Cáucaso, del Asia Central y de la India.

Existía un país en particular  con  el  que Samos mantenía lazos  muy estrechos en su actividad comercial. Se trataba de Egipto. Los comerciantes de Samos, así como otros griegos, construyeron sus propios almacenes y templos a lo largo del Nilo. Para ellos Egipto no era una tierra exótica y lejana, sino parte integral del mundo en el que vivían y trabajaban.

Pero todos estos detalles no forman más que parte de la historia. Según una antigua tradición, el padre de Pitágoras fue grabador de gemas, y ese oficio habría sido naturalmente transmitido  a  su hijo. Para un grabador de gemas de aquellos tiempos, de mediados del siglo VI a.C., sería imprescindible aprender técnicas fenicias e importar materiales  del Oriente. Tenemos asimismo conocimiento de otros famosos grabadores de gemas de la isla  de  Samos, que vivieron en los tiempos de Pitágoras. Sabemos que recibieron su formación en Egipto,  que  trabajaron para los reyes de Anatolia, y  que  crearon verdaderas obras de arte en el corazón de la antigua Persia. En efecto, Samos mantuvo estrechísimos lazos con Persia a través de varios siglos.

En el mundo real de la Historia uno se encuentra con ironías y paradojas en todas partes. Con Pitágoras, las paradojas se multiplican a partir del momento en el que decide abandonar Samos  y  asentarse  en  Italia,  en  el  año 530 a.C. La isla en la que creció compartía una relación muy  próxima con Egipto y sería  natural suponer que, al abandonar Samos por el Oeste, Pitágoras perdería así sus contactos con ese  país.  Pero, en  realidad,  no  perdió nada. La Italia de aquella época estaba saturada de influencias egipcias. Una serie de extraordinarios hallazgos en Italia y Sicilia han revelado la existencia de objetos mágicos, procedentes del siglo VII a.C., que muestran a la diosa Isis amamantando a su hijo, el dios Horus. Las semejanzas con efigies de la diosa Perséfone amamantando al infante Dioniso – imágenes que representan el momento crucial en los misterios iniciáticos órficos, cuando el iniciante muere para luego renacer como hijo de Perséfone – son demasiado obvias como para tratarse de mera coincidencia.

La tradición órfica floreció en Italia y  el pitagorismo original absorbió su lenguaje y sus técnicas, convirtiéndolos así en suyos propios; pero las raíces son claramente egipcias.

Esto queda especialmente evidenciado por las famosas láminas áureas de carácter órfico, halladas en tumbas de iniciantes en el sur de Italia. Se trata de láminas de oro plegadas, grabadas con inscripciones que  explican  como navegar en el mundo de los muertos y que ofrecen garantías para obtener la inmortalidad. Las láminas también describen a los guardianes del averno  que obstaculizan el pasaje del alma, impidiéndole encontrar el fortalecimiento que necesita, y le recuerdan a esta como afirmar su verdadera identidad, su origen divino.

Cabría ahora mencionar la otra  persona que Suhrawardi nombra junto a Pitágoras: el gran filósofo Empédocles. Empédocles vivió en el siglo V a.C. y desempeñó un papel crítico en la transmisión de las ideas de Pitágoras en Sicilia. Su poesía emplea el mismo lenguaje que las láminas áureas y describe como el proceso de morir para luego renacer no consiste en morir físicamente, sino que los iniciantes debían de «morir antes de morir»; es decir, de descender al averno antes de la muerte física.

El parecido que existe entre los  detalles descritos en las láminas áureas   y los que se hayan en el Libro Egipcio   de los Muertos es evidente. Pero lo que todavía no se ha comprendido es que no se trata simplemente de un caso  de  textos paralelos procedentes de Egipto e Italia, sino que los eslabones perdidos también han sido descubiertos.

Se trata de una serie de extraños hallazgos que en su  conjunto  forman  una especie de camino de piedras, trazando un arco de influencia que se extiende desde Egipto hasta  Italia.  Se han encontrado también cintas o bandas áureas en Cartago (en lo que es hoy Tunicia) y en la isla de Cerdeña. Fueron llevadas allí durante los siglos VII, VI y  V a.C. Aunque  las  bandas  fueron creadas por fenicios, estaban grabadas  con iconografía egipcia y, a la manera de amuletos, habían sido enrolladas e introducidas dentro de tubos que a menudo mostraban en su superficie imágenes de los dioses de Egipto.

Pero las bandas áureas de las tumbas fenicias han merecido escasa mención en la bibliografía. Los historiadores muestran muy poco respeto por los fenicios, considerándoles inferiores a los griegos. Se prescinde así de las pruebas que demuestran que habría varios fenicios entre los seguidores y maestros pitagóricos de Italia, y se le resta toda importancia al hecho de que   se dice que un hombre en particular -la persona que más claramente desmiente el mito de los pitagóricos como idealistas y poco prácticos- aprendió la mecánica y la ingeniería de un fenicio en Cartago.

Este hombre se llamaba Arquitas. Era el mejor amigo de Platón entre los pitagóricos y, junto con sus discípulos, fue quien le transmitió a este la sabiduría preservada en los famosos mitos platónicos. Pero ya en aquella época, en el círculo de Platón, se empezaba a distinguir una clara tendencia a glorificar a los griegos, y en especial a los atenienses, a costa de los demás. Fue el secretario de Platón el autor de la famosa declaración que dice que «todo aquello que los griegos reciben de los bárbaros es mejorado y llevado a la perfección».

Fue precisamente esa gente -la más cercana a la verdad- la responsable de crear el falso sentimiento de superioridad occidental del que hoy sufrimos con tanto orgullo.

Las tradiciones, así como las culturas, están sometidas al flujo y al reflujo. La gente se acaba desplazando, se dé cuenta o no, exactamente a donde se les necesita.

Las ideas de Egipto fluyeron durante mucho tiempo hacia Italia, pero eventualmente se creó una corriente opuesta que discurriría de Italia a Egipto. Comenzó de pleno cuando Alejandro Magno ordenó construir la cuidad de Alejandría en la desembocadura del río Nilo, a finales del siglo IV a.C. La gente del sur de Italia y de Sicilia buscó entonces todo tipo de razones para hacer lo que debía hacer: emigrar a Egipto.

El pitagorismo siempre fue una tradición flexible. Las exigencias personales que pesaban sobre el adepto pitagórico eran formidables pero, paradójicamente, el formar parte de esa tradición también significaba pertenecer  a un sistema que favorecía la iniciativa   y la creatividad, que cambiaba continuamente,   adaptándose conscientemente a las necesidades  de  las diferentes gentes, lugares y tiempos.

Fue así que los pitagóricos, al desembarcar en Egipto, no se asentaron simplemente como pitagóricos sino que procedieron a fundir sus enseñanzas con una tradición puramente egipcia. Esa tradición era la del dios egipcio Tot, o, como fue llamado por los griegos de Egipto, Hermes Trismegistos.

Los textos herméticos  que  comenzaron a ser escritos en griego, conocidos como «Hermética»  o  corpus hermeticum, eran textos iniciáticos. Servían un propósito muy práctico y específico dentro de los círculos místicos herméticos, y una gran parte de los métodos que allí se describen, así como una gran parte de la terminología, es explícitamente  de origen pitagórico.

Pero los textos herméticos son mucho más que adaptaciones de temas pitagóricos. Se trata también de la más clara expresión del retorno del pitagorismo a Egipto.

Hasta muy recientemente, las referencias a dioses egipcios que aparecían ocasionalmente en los textos herméticos se consideraban como una especie de chapa superficial, como retoques folclóricos añadidos a  los  textos griegos para dar la impresión de que poseían la auténtica sabiduría de Egipto. Pero en realidad, la literatura hermética es egipcia hasta la médula. Incluso el título de «Poimandres» o «Pimander», a menudo asociado con la obra hermética en su totalidad, es egipcio. Se trata de la versión griega de P-eime nte-re, o la inteligencia de Re; y el dios conocido en Egipto como la inteligencia del dios-sol Re era Tot, el Hermes egipcio.

A principios de los años noventa era posible ya entrever la deuda que el corpus hermeticum tenía con Egipto. La imagen que resultó era de por sí sorprendente, pero entonces, y al poco tiempo, ocurrió algo extraordinario.

En 1995 dos historiadores anunciaron discretamente la existencia del Libro de Tot, escrito en egipcio demótico. Se  trata, al igual que el Hermética griego,  de un diálogo entre maestro y discípulo. El maestro es Tot -el «tres veces  grande» – el equivalente exacto de  Hermes Trismegisto. Trata en parte, como el Hermética griego, del  proceso de renacimiento; es decir, de la  necesidad de hacerse joven al envejecer, y de envejecer en lugar de ser joven.

El Libro de Tot es puramente egipcio, no se encuentran en él trazas de ninguna influencia extranjera. Pero la correspondencia general con los textos herméticos griegos y los numerosos paralelos que existen, incluyendo el uso compartido de expresiones y detalles específicos, demuestran que, sin duda alguna, se trata de un prototipo egipcio del Hermética que hasta entonces  sólo era conocido a través de  sus  traducciones y adaptaciones griegas.

Son estas las tradiciones egipcias con las que el pitagorismo se fundiría para crear el corpus hermeticum griego. Y se podría decir que, por medio de ese proceso de fusión, estaba finalmente regresando a casa.

Los escritos herméticos griegos marcaron el comienzo del regreso de los pitagóricos a Egipto.

En el siglo II a.C., egipcios cuya lengua  materna era el griego y que vivían en el delta del Nilo, adoptarían la doctrina pitagórica al mismo tiempo que formarían los  orígenes de lo que posteriormente  se llamaría  la alquimia.  El norte  de Egipto se convertiría así en el punto de origen de un proceso de transmisión cuyo flujo se dirigiría de vuelta al Este desde el Oeste. A través  de los siglos,  una combinación  del pitagorismo  y   la alquimia fue desplazándose cientos de millas a lo largo del Nilo hacia el sur, hasta   la frontera  con    Etiopía.    Esta tradición fue eventualmente llevada  a una ciudad en particular. Los griegos la conocían como Panópolis, y más adelante se le llamaría Akhmim. Se ha dicho de esta ciudad que «no tiene Historia», y así es, puesto que su verdadera historia y transcendencia pertenecen a otra dimensión.

El más célebre de los alquimistas griegos, Zósimo, vivió en el siglo III d.C. y era procedente de Panópolis. En  su tiempo existían ya pequeños  grupos de alquimistas que vivían en Panópolis,  o que mantenían contactos con otros alquimistas que vivían en la ciudad.  Estos grupos no estaban interesados únicamente en la transformación de objectos físicos, se dedicaban también a la perpetuación y el  perfeccionamiento de técnicas cuyo objetivo álgido era la transformación personal.

Fue aquí, en Panópolis, donde los alquimistas preservaron las enseñanzas de los primeros filósofos griegos -en especial las de Pitágoras y los  pitagóricos- cuando ya se habían perdido en el Occidente, y donde continuarían manteniendo esa filosofía intacta durante siglos, de generación en generación.

Todavía es posible seguirle las huellas a las enseñanzas de Empédocles en particular, y observar cómo estas fueron primero introducidas  desde Sicilia a Egipto y al Hermética, posteriormente a las tradiciones mágicas egipcias, y finalmente a los círculos alquímicos de Akhmim. En 1998 se publicaron por primera vez los restos de un papiro de Akhmim que contenía en gran parte la poesía de Empédocles,  algo que resultó ser mucho más que un simple hallazgo fortuito.

En el siglo IX d.C., setecientos años después de que la poesía de Empédocles

fuera copiada a ese papiro,  un  alquimista de  Akhmim  escribió  una obra que llegaría a tener una influencia inconmensurable en todos y cada uno de los aspectos de la alquimia medieval. Se llamaba Uthman Ibn Suwais, y escribió su libro en árabe.

Ese texto era conocido en el mundo islámico  como El  Libro   del  Encuentro, y una vez traducido al Latín se  le  llamó   el   Turba  Philosophorum o Encuentro de los Filósofos. El libro describe una serie de cuatro «conferencias pitagóricas» en las que se reúnen antiguos filósofos griegos,  y  cuyo objetivo era penetrar el corazón de la alquimia. Las conferencias estaban presididas por  el  mismísimo  Pitágoras, y uno de los oradores, Empédocles, describe allí varios aspectos  auténticos de sus enseñanzas históricas. En particular, Empédocles habla de la importancia fundamental del fuego que se encuentra en el centro de la Tierra, algo que hasta recientemente había sido completamente olvidado o distorsionado en el Occidente.

La trascendencia de estos detalles es inmensa. Las enseñanzas que Empédocles  formuló  durante  el  siglo V a.C. han tenido un papel fundamental en la creación de la filosofía y la ciencia de Occidente, así como en la historia de las ideas occidentales. Pero lo cierto es que en  el  mundo  europeo  no  se consiguió preservar un entendimiento genuino  de su saber. Todo lo que perduró aquí de su doctrina -sobre los misterios  del  mundo que nos rodea y sobre la naturaleza del alma- se convirtió en ideas vacuas y teorías falsas. La realidad auténtica se trasladó a otra parte.

Resulta extraño contemplar, desde nuestra perspectiva moderna,  las  pruebas que se pueden encontrar en textos árabes sobre la existencia de grupos de alquimistas que se calificaban a sí mismos como «círculos de Empédocles» o «círculos de Pitágoras». Aparece también mención de estos «círculos de Empédocles» en las descripciones de grupos esotéricos islámicos que veían a este último como su guía, que «se consideraban como seguidores de su sabiduría y que lo juzgaban como superior a cualquier otra autoridad». Esta era gente que,  a  pesar de su cultura, religión y lenguaje, aceptarían como inspiración y como maestro a un hombre que había vivido mil quinientos años antes de su tiempo.

Suhrawardi, “el Jeque del Este”, señala en sus escritos al responsable de transmitir la esencia de la filosofía de Pitágoras y Empédocles a los sufíes: alguien llamado Dhu ‘l-Nun.

Dhu ‘l-Nun era originario de Akhmim. Durante su vida fue fuertemente hostigado por los teólogos islámicos y llevado a juicio por ellos. Apenas logró salvar la vida. A este hombre, que generó tanto antagonismo por lo que enseñó, se le llegó a conocer como al «cabecilla de los sufíes», por la simple razón que prácticamente todas  las líneas de descendencia sufíes proceden, de alguna forma u otra, de él.

A Dhu ‘l-Nun se le estimaba como figura crucial en «una línea de conocimientos gnósticos secretos», que él mismo transmitió al gran sufí Sahl al- Tustari, y que a través de este pasaron a su discípulo al-Hallaj, y de este modo a las primeras ordenes sufíes. Dhu ‘l-Nun también era conocido por sus lazos con  la alquimia, y se sabía que su sabiduría provenía de las tradiciones alquímicas preservadas en Akhmim.

Este nexo entre la alquimia y los orígenes del Sufismo se ha rechazado a menudo como algo embarazoso. Pero como se han dado cuenta algunos historiadores, las pruebas que los vinculan se remontan a un pasado tan remoto que sería injusto descartarlas. Existe además otro elemento de prueba que curiosamente también se ha pasado por alto.

Ibn Suwaid, la primera persona que atestigua de la relación que Dhu ‘l-Nun tuvo con la alquimia, apenas vivió unos años más tarde que éste. Ibn Suwaid fue el alquimista de Akhmim y autor de El Libro del Encuentro y otras obras alquímicas, así como de una obra en la que refutó las acusaciones contra Dhu ‘l- Nun.

Aparte de sus lazos con Pitágoras, Empédocles y Dhu ‘l-Nun, Ibn Suwaid estuvo vinculado a los orígenes del Sufismo. Fue autor  de  una  obra  titulada El Libro del Azufre Rojo, algo que resulta ser muy significativo ya que el azufre rojo desempeña un papel esencial en la alquimia al representar la luz al fondo del averno, el sol de media noche, el fuego en el centro de la Tierra. Es también significativo porque El Libro del Azufre Rojo se convertiría en poco tiempo en obra modelo de los sufíes. Para estos, el azufre rojo era el término que describía la esencia de ese «legado» esotérico que supondría el objetivo culminante de todo sufí.

En la actualidad se tiende a asumir que, cuando los sufíes tomaron posesión del lenguaje alquímico, cambiaron su significado, espiritualizándolo y dotándole de una nobleza que no tenía antes, algo que sería tan acertado como sostener que Carl Jung, en el siglo XX, fuera la primera persona en interpretar la alquimia en términos simbólicos y del inconsciente, y en explicar que esa ciencia, en realidad, trata de la transformación del ser humano.

El hecho es que los textos alquímicos más antiguos que se conservan en estado más o menos original en el Occidente, se refieren a la alquimia, explícitamente, como al  arte  de la transformación interna; es decir, como el proceso mediante el cual se  logra traer lo divino al plano de la existencia humana, y el  plano  humano de regreso al divino.

Estos textos, que fueron escritos en griego durante el siglo III d.C. por Zósimo, el célebre alquimista de Panópolis o Akhmim, nunca han sido correctamente traducidos al inglés.

No es sorprendente que Suhrawardi fuera ejecutado.

Su obra demuestra que era un musulmán devoto, profundamente inspirado por el Corán; pero el impulso fundamental de su doctrina apuntaba a otra dirección. Es sobre todo gracias a él que Empédocles y Pitágoras son conocidos como dos de los más grandes jeques de todos los tiempos, en especial entre ciertos sufíes de Persia.

Es evidente que tal manera de  calificar a los dos antiguos filósofos no concuerda con la imagen tradicional del Sufismo. Asimismo, la idea que Empédocles y Pitágoras fueran maestros, responsables de transmitir una tradición esotérica basada en la práctica espiritual y la realización personal, no encaja tampoco dentro del marco convencional de la filosofía antigua.

Aunque esto último era de esperar. En el Occidente se ha olvidado, desde hace ya mucho tiempo, el significado original de la palabra «filosofía», es decir, el amor por la sabiduría, y no por argumentar hasta la saciedad sobre el amor por la sabiduría; y lo que es  todavía más trágico: hemos conseguido convencernos de que no hemos olvidado nada.

Como dijo Shahrazuri, uno de los seguidores de  Suhrawardi:  las  realidades sobre las cuales este enseñó,   y por las que fue ejecutado, son tan fundamentales que no son fáciles de comprender. En el Occidente  hace mucho tiempo que «desaparecieron las huellas de los caminos de los antiguos sabios», que «sus enseñanzas fueron eliminadas, o desfiguradas  y pervertidas».

Pero como bien sabían Suhrawardi y sus discípulos, esas realidades nunca se pierden de verdad.

El relato presentado en este artículo se desarrolla en mayor detalle en los libros En los oscuros lugares del saber (Ediciones Atalanta) y Filosofía antigua, misterios y magia (Ediciones Atalanta).

Peter Kingsley es Doctor en Filosofía por la Universidad de Londres. Sus escritos se centran en el misticismo antiguo, la filosofía y los orígenes del mundo occidental, temas que también trata en conferencias y charlas públicas.

La entrada Los Caminos de los Antiguos Sabios: Una Historia Pitagórica, Peter Kingsley se publicó primero en Sendero a la Nada.

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IES / Actividades: Diálogos del IES con Halil Bárcena


 INSTITUT D'ESTUDIS SUFÍS / ACTIVIDADES

Diálogos del IES con Halil Bárcena

Halil Bárcena presenta su último libro

Rûmî, alquimista del corazón, maestro de derviches, 

en el Institut d'Estudis Sufís de Barcelona.

Editada por Herder Editorial, se trata de la primera biografía en lengua castellana

del sabio fufí y poeta persa Mawlânâ Rûmî (q.a.s.).

Además de la palabra, sonará la voz del ney,

la flauta sufí de caña tan amada por Mawlânâ, a cargo del propio autor.


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INSTITUT D'ESTUDIS SUFÍS  


6 de febrero, 19’15 h.


Entrada libre. Plazas limitadas


Es preciso confirmar la asistencia escribiendo aquí:

sufismo786@yahoo.es

 

 

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