Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

Depresión / Melancolía
Neurosis - Estrés
Ansiedad / Angustia
Miedos / Fobias
Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

miércoles, 9 de octubre de 2024

Lo Zar è morto (o forse no). Lunga vita allo Zar!


Secondo un celebre racconto di Tolstoj, lo Zar Alessandro I non sarebbe morto nel 1825 ma avrebbe scelto di abdicare e, fatte perdere le proprie tracce durante un ballo a San Pietroburgo, si sarebbe rifugiato in un monastero nel cuore del Caucaso, si sarebbe fatto ribattezzare secondo il rito della setta ortodossa dei Vecchi Credenti con il nome di Fedor Kuz’mic e avrebbe iniziato un viaggio attraverso la Russia durato quarant’anni che dagli ori di Bukhara e Samarcanda lo avrebbe condotto agli estremi confini della Siberia. A narrarci le picaresche peripezie dell’illustre fuggiasco tra cacciatori di orsi, briganti, zingari, sciamani e demoni è oggi una curiosa coppia di scrittori francesi, Antoinette Peské e Pierre Marty, dei quali esce proprio in questi giorni per Adelphi Qui il sentiero si perde.

di Paolo Mathlouthi

Perché l’alfabeto russo non sia dimenticato
nel suo suono primigenio, come il prolungamento
di un sospiro, che si rafforza nel tempo.

– Josif Aleksandrovic Brodskij 

La scena si apre negli affrescati saloni della rappresentanza diplomatica inglese a Pechino. Siamo alla fine degli Anni Venti del secolo scorso e Sir Edwin Bluth, da impeccabile padrone di casa, intrattiene i suoi ospiti in occasione della tradizionale cena di Capodanno. Donne fascinose e pericolosissime scivolano in splendidi abiti da sera dagli spacchi vertiginosi tra impettiti ufficiali e foschi funzionari governativi dai volti imperturbabili. All’improvviso l’atmosfera rarefatta di questo microcosmo ovattato è scossa dalla notizia, che si diffonde tra i presenti come una febbre, del ritrovamento, in un’impervia zona della Manciuria funestata dalla guerra civile, di un misterioso mendicante, lacero e contuso, in tutto simile allo Zar Nicola II, scampato fortunosamente all’eccidio della famiglia imperiale consumatosi qualche anno prima ad Ekaterinenburg.

Un impostore? Forse, ma la prospettiva che l’ultimo rappresentante della dinastia Romanov possa essere ancora vivo e quindi legittimato, in punta di diritto, a rivendicare il trono perduto con l’avvento della Rivoluzione d’Ottobre, scatena una vera e propria caccia all’uomo degna delle migliori pagine di consumati maestri della spy story come Eric Ambler e Graham Green: alcuni vorrebbero trarlo in salvo per propiziare in suo nome l’agognata restaurazione della Santa Russia, mentre i sovietici sono più che mai determinati a scovarlo per ucciderlo e scongiurare l’ipotesi dannata che le lancette dell’orologio della Storia possano mettersi a girare a ritroso.

È questo l’avvio di un romanzo ucronico curioso, uscito in prima edizione nel 1929 e salutato allora da un inatteso, strabiliante successo di pubblico, scritto a più mani da un’eterogenea combriccola di spiriti inquieti, il famigerato Gruppo dei Dieci, capitanata da Filippo Tommaso Marinetti. Nel realizzare questo articolato e gustoso pastiche che, in sorprendente anticipo su consolidati esperimenti di scrittura collettiva come Luther Blisset e Wu Ming oggi tanto in voga, ha catalizzato i velenosi strali di critici blasonati quali Luigi Pirandello e Curzio Malaparte, il padre del Futurismo, aduso a misurarsi con generi diversi, come testimonia ad esempio La Momie Sanglante, di recente riproposta in una nuova traduzione italiana nel catalogo Aspis, ha strappato all’oblio e attualizzato un tema, quello dello Zar redivivo, che, innervato di suggestioni tradizionali, vanta illustri predecessori ed epigoni oltremodo talentuosi anche tra i mostri sacri della letteratura maggiore, quella, per intenderci, che nei manuali scolastici si fregia dell’iniziale maiuscola [1].

Nel 1905 Lev Tolstoj ha scritto un racconto, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, nel quale si dice sicuro che lo Zar Alessandro I non sarebbe morto nel 1825, onusto di gloria per aver sconfitto Napoleone Bonaparte ma, straziato nel cuore e nell’anima per la prematura scomparsa della prediletta Sof’ja Dmitrievna, figlia illegittima avuta dalla concubina favorita Marija Naryskhina, avrebbe scelto di abdicare e, fatte perdere le proprie tracce, avrebbe trovato rifugio in un monastero nel cuore del Caucaso, si sarebbe fatto ribattezzare secondo il rito della setta ortodossa dei Vecchi Credenti con il nome di Fedor Kuz’mic, iniziando poi un viaggio attraverso la Russia durato quarant’anni che dagli ori di Bukhara e Samarcanda lo avrebbe condotto fino agli estremi confini della Siberia dove il suo corpo sarebbe stato rinvenuto, sfigurato dal gelo, nei pressi del villaggio di Taganròg [2]. L’Autore di Guerra e Pace ci rende partecipi del fatto che

Già prima di morire lo starets Fedor Kuz’mic era divenuto argomento di strane dicerie, secondo le quali egli avrebbe tenuto segreto il proprio nome e il rango, e altri non sarebbe stato in realtà che l’Imperatore Alessandro I; dopo la sua morte tali voci hanno continuato a propagarsi e precisarsi sempre più. Che egli fosse realmente Alessandro I lo si cominciò a ritenere non soltanto fra il popolo, ma persino nell’alta società, e durante il regno di Alessandro III anche nella stessa famiglia imperiale. Vi credette tra gli altri anche il maggior storico del regno di Alessandro I, il dotto Schilder. Pretesto a tali voci fu, in primo luogo, […] che più volte Alessandro avesse detto e scritto (in particolar modo negli ultimi tempi) d’avere un solo desiderio: liberarsi dalla propria situazione e fuggire dal mondo […]. Quanto al fatto che proprio in quel Kuz’mic si volesse ravvisare l’Imperatore nascostosi, il motivo ne fu in primo luogo che lo starets fosse per statura, costituzione e fattezze talmente somigliante all’Imperatore che quanti avevano veduto Alessandro o un ritratto di lui, avevano trovato tra i due una sorprendente somiglianza […]; in secondo luogo che Kuz’mic, il quale sosteneva di essere un vagabondo e di aver ormai dimenticato del tutto la propria origine, conoscesse tuttavia delle lingue straniere e mostrasse, nei suoi atteggiamenti, tutti d’un’affabilità maestosa, di essere una persona avvezza alla più alta società; in terzo luogo […] che nonostante tutta la sua devozione, lo starets non prendesse mai l’eucarestia. E quando un archierèo venuto in visita aveva cercato di convincerlo ad adempiere questo suo dovere di cristiano, gli aveva detto: “Se in confessione io non dicessi il vero su di me, il cielo si stupirebbe; ma se dicessi chi sono, si stupirebbe la terra” [3].

Lev Tolstoj

Decidendo di pubblicare le memorie di Kuz’mic, delle quali, secondo un collaudato escamotage letterario, sostiene di essere entrato fortunosamente in possesso, Tolstoj sembra intenzionato a conferire attendibilità storica ad una credenza popolare che si autoalimenta attraverso i secoli, affondando le proprie radici nella millenaria e turbolenta storia della Russia, costellata di “invasati da Dio”, personaggi animati da fervore religioso che a scadenze regolari emergono dall’anonimato della steppa a guadagnare la ribalta, sostenendo di essere la reincarnazione dello Zar di volta in volta defunto o detronizzato. Quando nel 1598, con la morte senza eredi diretti di Fedor I, la dinastia Rjurik si estingue, aprendo quello che è comunemente noto come “periodo dei torbidi”, ben tre pretendenti si avvicendano sul palcoscenico della corte nel volgere di quindici anni affermando di essere Dmitrij, figlio legittimo di Ivan il Terribile e della sua ultima moglie, Marija Fedorovna Naglaja, designato pertanto a rivendicare il trono vacante, anche se solo due di loro riusciranno, per una manciata di mesi ciascuno, nell’ardua e contestatissima  impresa di cingere la triplice corona. Il secondo pretendente, pur sostenuto da Polacchi e Svedesi, sarà trucidato senza nemmeno poter intravedere il soglio [4].

Con l’ascesa al potere dei Romanov, sancita nel 1613 dalla consacrazione di Michele I a Zar di tutte le Russie, lo spettro del monarca senza requie torna a celarsi nell’ombra, salvo riaffiorare alla fine del XVIII secolo con il volto e le fattezze di Pietro III: i Cosacchi, i Tatari e i Baskhiri che a centinaia accorrono ad accrescere i ranghi dell’esercito che Emel’jan Ivanovic Pugacev ha mobilitato per marciare contro le armate di Caterina II, dando fuoco alle polveri di una rivolta che si propaga come un incendio tra il Volga e gli Urali, sono pronti a giurare di fronte all’icona del Cristo Pantocratore e sul santo nome di Allah il Misericordioso che il loro comandante, devoto alle setta dei Vecchi Credenti esattamente come Kuz’mic, sia la reincarnazione del defunto Zar, assassinato dalla consorte nel 1762 perché ritenuto inadatto a reggere le sorti dell’Impero. Una leggenda alla quale anche Aleksandr Puskin e Sergej Esenin sembrano inclini a prestar fede, tanto da immortalare le gesta del loro antieroe in pagine divenute giustamente celeberrime [5].

Si palesa anche qui, a stento dissimulato tra le pieghe della narrazione, il tema centrale del sovrano celato, sul quale così bene si è espresso Yves-Marie Bercé in un suo denso e argomentato saggio di qualche anno fa [6]. Sulla scia delle riflessioni complementari svolte da Ernst Kantorowicz e Marc Bloch, lo storico francese osserva che nella cultura dell’Europa premoderna la figura del monarca riveste una funzione eminentemente sacrale in quanto, nella sua duplice veste di vertice della gerarchia umana e ultimo gradino di quella divina, assolve al ruolo di anello di congiunzione tra il cielo e la terra, garante con il suo stesso corpo del patto tra gli uomini e Dio [7]. Questo aspetto è particolarmente evidente nell’ambito del Russkij Mir dove, complice la forte polarizzazione della dialettica tra la Luce e le Tenebre indotta dall’Ortodossia, lo Zar è visto, in una prospettiva millenaristica, come il Katéchon, chiamato ad arginare l’avvento dell’Anticristo nell’attesa che la profezia dell’Apocalisse si compia. Egli è il Demiurgo per eccellenza, appartiene cioè alla stirpe degli Dèi terreni che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte e deve quindi essere Imperatore e Redentore insieme, “ambedue in uno solo e uno in due”, come ha scritto Dmitrij Merezkovskij, secondo l’antica prerogativa del Pontifex Maximus [8].

Quando, come nel caso di una successione al trono ritenuta illegittima, la stabilità dell’Impero è messa a rischio da forze ostili e il monarca è quindi costretto ad occultare i segni esteriori della regalità per evitare che siano usurpati, salvo poi palesarsi per portare a compimento la sua missione, si cala nel divenire vestendo i panni di personaggi collocati ai margini del consesso civile. Se Ulisse, nel canto XIV dell’Odissea, torna ad Itaca facendosi passare per un mendicante e viene riconosciuto solo dal suo cane Argo e dal fedele guardiano di porci Eumeo che lo accoglie nella propria umile dimora, Shakespeare, nella tragedia omonima, ci mostra Enrico V nelle vesti di un gentiluomo di fortuna di origini gallesi aggirarsi tra i soldati a raccogliere, forte dell’anonimato, le loro confidenze e i loro umori alla vigilia della battaglia di Azincourt, dall’esito della quale dipenderanno le sorti dell’Inghilterra [9]. Per richiamarci ad un esempio a noi più prossimo, Aragorn, erede designato al trono di Isildur, compare per la prima volta ne Il Signore degli Anelli di Tolkien come un Ramingo, vale a dire un bandito, un fuorilegge, un cacciatore di taglie intento a pattugliare i confini delle terre dell’Eriador infestate dagli orchi [10].

Lo sterminato patrimonio fiabesco del popolo russo, solo in parte canonizzato da Aleksandr Nicolaevic Afans’ev, ci offre d’altro canto numerosi episodi di questa nigredo, spesso e volentieri associati alla figura di Ivan il Terribile che, in aperta controtendenza rispetto all’immagine negativa prevalsa in Occidente, è descritto come un protettore degli umili, draconiano, tenace ed inflessibile persecutore dei malvagi [11]. La slavista inglese Maureen Perrie, in un suo scritto assai pertinente rimasto purtroppo inedito nella nostra lingua, riporta e analizza nel dettaglio una fiaba, trascritta in origine da Samuel Collins, medico personale dello Zar Alessio I, che vale la pena menzionare perchè si rivela paradigmatica a questo riguardo [12]. In essa Ivan, camuffatosi in modo da sembrare un uomo del popolo, incrocia i propri passi con un ladruncolo che gli offre la sua amicizia. I due decidono di dedicarsi insieme a qualche furto con destrezza per saggiare le rispettive abilità. Quando Ivan propone all’amico, soddisfatto del bottino accumulato, di alzare la posta in gioco derubando lo Zar in persona, questi, con sua grande sorpresa, lo schiaffeggia sonoramente dicendo che, sebbene sia un ladro di professione e discenda da un’impunita stirpe di malfattori, non si sognerebbe mai di fare un simile torto al proprio sovrano. Al contrario, si dice ben disposto a derubare i boiari, arricchitisi a dismisura alle spalle dello Zar tiranneggiando la povera gente.

Colpito positivamente dalla fedeltà e dalla devozione mostrate dall’amico nei suoi confronti, Ivan palesa allora la propria identità e offre al ladro di diventare suo consigliere privato. Un rovesciamento dialettico, quello messo in scena da Ivan il Terribile in questo celebre apologo, che può essere compreso appieno solo tenendo conto dell’enfasi che la cultura russa pone fin dagli albori sul concetto di narodnost, lo spirito popolare, percepito, da quanti nel corso dei secoli si sono incaricati di codificare le coordinate culturali del Russkij Mir, alla stregua di un’ipostasi metafisica, collocata fuori dal tempo e dallo spazio, sorta di fonte dell’eterna giovinezza dalla quale la Grande Madre Russia copiosamente attinge i tratti salienti della propria fisionomia, rimasta sostanzialmente inalterata sino ai giorni nostri, nonostante la parentesi sovietica che ha anzi contribuito a rafforzare ed amplificare questa mentalità, perché non compromessa, come ha scritto Walter Schubart, dai dubbi e dai sofismi razionalistici della cultura europea [13]

La Storia, in una prospettiva siffatta, viene posta al servizio di una di una visione del mondo regressiva e antimoderna, un sogno chiliastico che ha nella Russia il proprio fulcro propulsore. Le incursioni dei Vichinghi lungo il corso del Dnepr, l’affermarsi nell’Alto Medioevo della Rus di Kiev quale nucleo embrionale dello Stato russo sotto i regni di Vladimir il Santo e Jaroslav il Saggio, le vittorie di Aleksandr Nevskij contro i cavalieri dell’Ordine Teutonico nel XIII secolo, ma anche l’opera di evangelizzazione promossa dai martiri della fede attraverso la fondazione di monasteri in luoghi inospitali infestati da tribù pagane ostili e sanguinarie, nonché le vittorie dell’Armata Rossa sulle truppe del Terzo Reich durante l’ultimo conflitto mondiale, vengono considerati tanti episodi di un unico grandioso affresco, corale perché frutto dell’azione sinergica e organica di tutto il popolo russo, nel quale è possibile ravvisare i prodromi di un provvidenziale disegno escatologico. Lo Zar, nella fiaba citata, si mimetizza tra la sua gente quasi a voler compiere un lavacro lustrale, un percorso iniziatico dall’andamento circolare che lo riconnetta con l’Origine, consentendogli di ritrovare nella voce profonda del proprio popolo le ragioni ultime della sua funzione di sovrano e del suo retto agire secondo giustizia. Una chiave di lettura che ritroviamo, arricchita da uno stile barocco e da una lussureggiante, polifonica fioritura di echi e rimandi letterari mutuati dalle suggestioni più diverse, in un libro anomalo e tuttavia straordinario, Qui il sentiero si perde, licenziato da Adelphi all’inizio dell’estate nella sontuosa traduzione di Daniele Petruccioli.

Frutto del lavoro a quattro mani di un’eccentrica coppia di scrittori francesi, Antoinette Peské e Pierre Marty, lui giurista e lei figlia di un pittore allievo di Pissarro nelle vene della quale scorre il sangue dei principi mongoli dell’Orda d’Oro, il romanzo prende l’avvio, esattamente come l’esperimento marinettiano menzionato in apertura, da un episodio mondano, un ballo sfarzoso che si consuma nelle sale ornate di stucchi e marmi policromi di un palazzo principesco nel cuore di San Pietroburgo, in un tripudio di maschere porpora che volteggiano sotto un manto trapuntato di stelle nella notte ciscaucasica. Mentre la fiamma della festa raggiunge il suo apice, un “messaggero della notte” reca ai presenti la ferale notizia della morte dello Zar Alessandro I. Le congetture più disparate s’inseguono di bocca in bocca ad alimentare il fitto chiacchiericcio degli illustri ospiti. Le dame, accrocchiate a capannello, evocano sussurrando la passione smodata del sovrano per Marija Naryshkina, la straniera, la polacca odiata, invidiata e temuta. Molte di loro si dicono sicure che la prematura scomparsa della prediletta Sof’ja, fiore proibito sbocciato dalla loro unione clandestina, abbia procurato allo Zar un dolore così cupo da indurlo ad un insano gesto mentre ufficiali e dignitari, mostrando una naturale tendenza alla cospirazione, lamentano le stranezze del sovrano e si dolgono per quella sua indulgenza verso le funamboliche teorie dei filosofi francesi che ne avrebbero alla lunga minato il carattere, rendendogli insopportabile il peso della corona.

La schiacciante vittoria conseguita su Napoleone, la freddezza assoluta con la quale ha dato ordine alle sue truppe in ritirata di incendiare Mosca, la città santa dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile il sacro crisma della loro solenne investitura, distrutta senza esitazione pur di tagliare i rifornimenti all’odiato avversario e consegnarlo così all’inesorabile stretta del generale inverno, non sono state in tutta evidenza prove sufficienti della sua tempra agli occhi avari degli uomini a lui più prossimi. Alessandro I non è certamente un debole. Gli anni della giovinezza trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano fatta di privazioni e marce forzate, fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

Boris Kustodiev, Emperor Nicholas II of Russia, 1915

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le astrazioni care agli illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le signore ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano. Sconfitto il suo acerrimo rivale e raggiunte le vette della gloria terrena, lo Zar avverte tuttavia, impellente, l’esigenza di spogliarsi di ogni orpello esteriore connesso alla sua condizione e alle responsabilità gravose che questa comporta. Decide quindi di lasciare San Pietroburgo, la città neoclassica voluta dal suo illustre antenato Pietro il Grande perché fosse il ponte gettato dalla Russia ad abbracciare l’Occidente e, indossati i panni del pellegrino, volge il proprio sguardo verso il cuore asiatico del suo grande Paese. “Si consumava la mia rottura con quello che ero stato. Smisi di guardarmi indietro. Fissai davanti a me i contrafforti scintillanti dell’Oriente” [14].

Un punto di non ritorno, una soglia al di là della quale si aprono per l’illustre fuggiasco protagonista di queste pagine spazi sterminati che non ammettono possesso e anzi instillano nel cuore del viaggiatore il desiderio di quel “perpetuo vagare che spinge le greggi di pascolo in pascolo, e gli uomini di orizzonte in orizzonte insieme ad Attila, a Gengis Khan, a Timur Lang, a conquistare il mondo e le anime verso l’indicibile” [15]. Indossando maschere sempre diverse, di volta in volta bracconiere, chierico vagante, cercatore d’oro, condannato ai lavori forzati, saltimbanco, Alessandro s’incammina lungo la scia delle carovane dirette verso la Via della Seta, s’innamora di due splendide gitane, Sarasya e Maluzia, lussureggianti nel corpo e demoniche nell’anima, molto simili alle bellezze moresche che irretiscono Alfonso van Worden all’inizio del Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, salvo poi rivelare la loro natura infernale. Il misterioso viaggiatore di cui seguiamo le peripezie pagina dopo pagina e che solo alla fine palesa la sua reale identità, fa perdere le proprie tracce smarrendo se stesso in un’umanità variopinta composta da “dervisci erranti alla ricerca di un’estasi che non è più di questo mondo, lama ascetici sfuggiti alle gelide desolazioni della Mongolia, sciamani iniziati ai segreti della taiga” [16]. La sua non è però una fuga, piuttosto una discesa verso le insondabili profondità dell’anima dove, come ci ricorda Ivan Aleksandrovic Il’in, “protetto in eterno e nei secoli inesauribile” riposa “l’occhio divino della terra russa, l’occhio della Rivelazione” [17].


NOTE

[1] Gruppo dei Dieci, Lo Zar non è morto, Sironi Editore, Roma 2005.

[2] Movimento scismatico nato nel XVII secolo, la setta dei Vecchi Credenti, assimilabile ai gruppi preconciliaristi cattolici, si oppone alle riforme liturgiche introdotte dal Patriarca Nikon (1605 – 1681) nell’intento di uniformare l’attività delle varie confessioni ortodosse, quali, ad esempio, la nuova traduzione del Credo, imposta nel 1654, considerata blasfema dai seguaci dell’antico rito perché praticata su un testo che la tradizione ritiene ispirato da Dio stesso e, in quanto tale, non passibile di modifica.

[3] Lev Tolstoj, Memorie postume dello starets Fedor Kuz’mic, in Tutti i racconti, 2 volumi, Mondadori, Milano 1991; pag. 992 – 993.

[4] Per maggiori dettagli sull’epoca dei torbidi si rimanda al bel saggio di Simon Sebag Montefiore, I Romanov 1613 – 1918, Mondadori, Milano 2017. 

[5] Si vedano di Aleksandr Puskin, Storia della rivolta di Pugacev, Einaudi, Torino 2016 e di Sergej Esenin, Pugacev, Einaudi, Torino 1968.

[6] Yves-Marie Bercé, Il Re nascosto. Miti politici popolari nell’Europa moderna, Einaudi Torino 1996.

[7] Si vedano di Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989 come pure di Marc Bloch, I Re taumaturghi, Einaudi Torino 1984.

[8] Padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merezkovskij (1865 – 1941) ha elaborato nei suoi romanzi e nei suoi scritti teorici un’articolata filosofia della Storia d’ispirazione hegeliana secondo la quale spetterebbe alla Russia il compito salvifico di propiziare l’avvento di una nuova Età dell’Oro, il cosiddetto “Terzo Regno”, segnata dalla ricomposizione della frattura tra spirito e materia indotta dalla caduta dell’uomo nelle contraddizioni del divenire. Particolarmente significative a questo riguardo sono le due biografie romanzate incentrate sulle figure di Pietro il Grande e Alessandro I. Quest’ultima è stata di recente riproposta dalla casa editrice milanese Iduna in una nuova edizione a cura del sottoscritto.

[9] William Shakespeare, Enrico V, atto IV scena I.

[10] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1978; pag. 218.

[11] Per maggiori dettagli sull’interpretazione della figura di Ivan il Terribile nell’ambito della cultura russa si veda Casimiro Waliszewski, Ivan il Terribile, il primo Zar russo. Evoluzione intellettuale e politica di una leggenda, Res Gestae Editore, Milano 2016.

[12] Maureen Perrie, The image of Ivan the Terrible in russian folklore, Cambridge University Press, Cambridge 1987.

[13] Sul tema controverso della dialettica tra Russia ed Europa attraverso i secoli e sull’osmosi tra Oriente ed Occidente quale elemento costitutivo dell’identità russa si veda il fondamentale saggio di Walter Schubart, L’Europa e l’anima dell’Oriente, Oaks Editrice, Sesto San Giovanni 2023. 

[14] Peské Marty, Qui il sentiero si perde, Adelphi, Milano 2024; pag. 346.

[15] Ivi; pag. 361.

[16] Ivi; pag. 10.

[17] Ivan Aleksandrovic Il’in, Sulla Russia, Aspis Edizioni, Milano 2023; pag. 35.                                                                                               

- Enlace a artículo -

Más info en https://ift.tt/x58z2ut / Tfno. & WA 607725547 Centro MENADEL (Frasco Martín) Psicología Clínica y Tradicional en Mijas. #Menadel #Psicología #Clínica #Tradicional #MijasPueblo

*No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí compartidos. No todo es lo que parece.

No hay comentarios:

Publicar un comentario