Le Faville del maglio sono brevi prose di carattere introspettivo che Gabriele d’Annunzio comincia a stendere nel 1911. In questa sede analizzeremo come sia l’episodio del “forzamento” della pastorella descritto ne Il grappolo del pudore sia l’episodio del “forzamento” del nicchio nericcio narrato ne Il primo segno dell’alta sorte possano essere intesi come iniziazioni al sesso, ad un sesso che oltre a ciò che appare è anche un’altra cosa: materia di sublimazione artistica, alimento dell’arte.
di Eva Colombo
Le Faville del maglio sono brevi e preziose prose di carattere introspettivo che Gabriele d’Annunzio comincia a stendere nel 1911. La seconda raccolta di “faville”, Il secondo amante di Lucrezia Buti, è composta dal poeta sul limitare della vecchiaia, nel 1924. Qui troviamo un’affascinante ed enigmatica favilla intitolata Il primo segno dell’alta sorte. Vi si narra un bislacco episodio che sarebbe stato all’origine di una cicatrice sul pollice sinistro del poeta, cicatrice cui lui assegnava un preciso significato:
Sul dosso del pollice sinistro, fin dall’infanzia ho il contrassegno indelebile della mia nativa alterezza. E di questo sigillo mi piaccio perché tanto piace a mia madre che sa chiudere alteramente in sé quel che non può appartenere se non a lei sola. Dagli anni più remoti, ogni volta che io ritorno a mia madre e ch’ella prende le mie mani infaticabili nelle sue benedette, ogni volta ella mi cerca sul dosso del pollice la cicatrice e me la guarda in silenzio […]. Così ella rammenta, così io rammento.
Avevo nove anni. Ero fuggito di casa per correre all’approdo delle paranze nella foce della Pescara, per raggiungere alla banchina un mozzo ortonese mio stregato che soleva portarmi qualche «frutto di mare» stillante e fragrante nella sua berretta crèmisi. Avevo meco in tasca un coltello a scrocco, mal rubato, da forzare i nicchi. Ricevuta l’offerta, fiutata la preda marina che già m’inebriava di salsedine e m’inumidiva la lingua di pregusto, me ne andai sul bastione dove già da tempo avevo per amico un vecchio cannone borbonico di ferro, propagginato con la bocca all’ingiù, un buon cortaldo che m’era a grado perché lo superavo di tutta la testa e gli potevo mettere i ginocchi contro gli orecchioni.
Scelsi un nicchio nericcio, non mai veduto; lo poggiai su la culatta, e di punta e di taglio mi misi a fargli forza. Era tanto serrato che non gli ritrovavo la commessura delle valve. Nell’impazienza la lama mi sguizzò, e la punta mi si conficcò nella mano che teneva fermo il guscio ostico. Il sangue mi colava giù pel ferro colato del cannone, e il salso mi coceva forte nello squarcio. Ma non mi arresi, non mi sgomentai. Con il coltello insanguinato seguitai a forzare il nicchio avverso, ostinazione contro ostinazione, crudezza contro crudezza. E le voci dei pescatori sopravvegnenti che tiravano le paranze coi canapi a ormeggio, e nel tramonto l’ultimo bagliore delle vele rogge ammainate a mano, e la rissa rauca delle profferte sopra le ceste della pesca ricca sparse all’incanto, e i fuochi del nuvolato acceso verso la Maiella, e gli squilli di tromba nella caserma lunga mi davano non so qual conturbazione confusa che m’ingrandiva sopra me, di là da me. E la ferita improvvisa, e la vista del mio sangue, e la mia stessa costanza, e la mia stessa incuranza m’ingrandivano. Ed era la prima volta ch’io sentivo con tanta solitudine il mistero del mio corpo, il mistero del mio spirito, l’elezione della mia nascita.
Alfine apersi il guscio disperato. E, senza nettar la valva, senza sgocciolare il salso misto al sangue, con una specie d’ingordigia vendicativa m’affrettai a mandar giù.
Non era se non un poco di polpa lùbrica e amariccia.
Allora mi ritrovai solo con la mia ferita sola, con la mia mano rossa e dolente; e col pensiero della mia madre, con la figura della mia soglia, con l’inquietudine del ritorno. Affrettavo la sera, affrettavo il buio. Cominciavo a sentirmi fiacco. La mia pezzuola era scarsa per farmene una fasciatura stretta. Mi venne l’impeto di sporgermi dall’orlo del bastione e di chiamare a squarciagola il mozzo, di chiamare qualcuno a soccorso. Ruppi l’impeto in me, lo troncai sùbito. Sfrombolai le conchiglie come ciottoli, conficcai il mio coltello in terra, a piè del cannone propagginato, spingendolo così che v’entrasse anche il corno. Poi, sùbito, mi pentii per un pensiero che mi balenò. E grattai la terra, e sconficcai la lama che riscintillava perché l’attrito l’avea netta. Mi tolsi la giubba. Mi tagliai un lista di camicia, mi tagliai una manica di camicia. Mi rimisi la giubba, senz’avvedermi che m’insanguinavo tutto. Mi fasciai col lino la ferita. Scesi dal bastione, a testa alta, opponendo non so che strana alterigia alla fiacchezza. Evitai gli incontri. Mi diressi verso un luogo basso della vecchia fortezza, verso il vecchio arsenale cortinato tutt’intorno, chiamato Rampigna, invaso dalle erbe, ridotto a pascolo di capre e ricreazione di scolari, non distante dalle scuole e dalle carceri. S’annottava. S’udiva il martellare dei carcerieri sopra le sbarre delle inferriate. Si vedeva ancora qualche capra fosca intagliarsi nel cielo, di sul profilo della cortina erbosa; e mi ricordo che scambiai per l’occhio fosforescente della capra dimònia una delle prime stelle, e sussultai sotto quella guardatura da zodiaco.
La ferita mi doleva sempre più. La fasciatura si faceva rossa. Mi venne in mente che le femmine del mio contado usavano il ragnatelo […] come una specie di balsamo vulnerario, buono a ristagnare il sangue. Avevo veduto dita di bimbi avvolte in tele di ragno. Avevo veduto una mia sorella scendere nella carbonaia a ricercarne per medicarsi un taglio di temperino. Sapevo che giù pe’ finestroni dell’antica santabarbara ne pendevano senza numero, ché più volte m’ero scapriccito a lacerarle con una gran frasca eccitato dal vincere il ribrezzo che mi faceano i ràgnoli.
Ora, nell’abbellarsi della ricordanza, mi piace quel fanciullo fantastico e scontroso che perde sangue e non si sbigottisce, e ripugna al soccorso, e guarda e tocca la sua ferita senza venir meno, e dallo splendore del suo sangue riceve la prima vampa di un entusiasmo inconsapevole, e in una credenza del suo popolo ripone la speranza di guarirsi da sé stesso, e s’indugia al ritorno nella casa paterna per un’angoscia quasi gloriosa che inconsapevolmente gli aggrava la disparità fra il piccolo guaio puerile e l’anelito della piccola anima riscossa.
Annottava. Là, dinanzi al finestrone della santabarbara, il ribrezzo dei ràgnoli era fatto più grave dall’abbuiarsi. Serravo i denti contro i brividi. A tratti a tratti gettavo un grido roco credendomi di porre in fuga le tante zampe paurose. Raccoglievo le tele con la tesa del mio cappello da marinaio. E, non so perché, come più dominavo la paura, come più reprimevo il mio istinto, come più mi arrischiavo alla conquista, più mi s’ingrandiva nella fantasia la virtù vulneraria del rimedio popolesco.
Di poi non so più nulla. Non mi ricordo se non del buio, in quella specie di bolgia inselvatichita tra le cortine disarmate, dove pur sempre la capra d’inferno mi guatava nera col suo occhio di stella. Non mi ricordo se non della mia corsa disperata verso la casa, con negli orecchi un gran ronzìo che a quando a quando mi pareva scoppio di lamenti. Non mi ricordo se non di una fanfara di fanti che mi venne incontro andando alla caserma; e passai tra gli squilli come per mezzo a un folto di sferze acute che mi sferzassero senza ch’io gridassi. Non mi ricordo se non d’un silenzio di tomba alla mia soglia; e poi d’una scala che mi fuggiva sotto i piedi come una cateratta di mulino rimbombante; e poi d’un altro silenzio spaventoso, e dell’urlo di mia madre, e del pallore di mia madre, e del suo balbettio folle che non era se non un tremito del mento come dislocato; e di me in ginocchio ai suoi ginocchi, di me col braccio rosso levato verso di lei come un moncherino, di me che dentro ero scavato e che pur dal vuoto traevo non so che tuono di voce coraggiosa ripetendo: «Non aver paura! Non aver paura! Non aver paura!».
Tutto il resto non vale. L’agitazione, l’inquisizione, il tumulto, le grida, il pianto, il rimprovero, le domande iterate, i sospetti ingiusti, le accuse incerte si confondono nella mia memoria, s’affievoliscono, vaniscono. Il grande valore spirituale di questo ricordo è per me nel primo segno impresso al mio animo dalla mia sorte, nella prima impronta segreta della mia predestinazione.
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È molto probabile che questo supposto episodio autobiografico, ammesso che sia realmente avvenuto, abbia subito una pesante rielaborazione volta a fargli sorreggere il prezioso contenuto che il sessantunenne scrittore ha inteso apporvi. Possiamo ravvisare un importante indizio rivelatore della natura di questo contenuto fin nel titolo della favilla, Il primo segno dell’alta sorte: un primo segno, un’impronta iniziatica.
La pulviscolare atmosfera di surreale enigmaticità in cui è immerso l’episodio del “nicchio nericcio” sembra emanata proprio dal connotato rituale che lo scrittore ha voluto imprimervi. Molti elementi della favilla infatti possono essere letti come tessere componenti un quadro evocativo d’un rituale iniziatico. Se la cicatrice sul dosso del pollice sinistro è il “contrassegno” di un’alterità ontologica, è molto simile alla scarificazione rituale cui in molte culture tradizionali vengono sottoposti gli iniziandi come segno visibile del loro passaggio da uno stato all’altro dell’essere.
Il poeta sostiene di aver avuto nove anni quando visse l’esperienza del “nicchio nericcio”, l’età di Dante all’inizio della Vita Nova. Il nove nel patrimonio della ritualità iniziatica simboleggia l’eternità come perpetuo rinnovamento: nel ciclo dei mondi, nei “secoli dei secoli”, dopo l’ottavo un nono mondo viene creato che è nuovo perché con esso un altro ciclo ha origine. Questa simbologia del nove scandisce la Vita Nova, che è nuova appunto perché dà origine a un nuovo ciclo. La “lotta” che viene sostenuta dal futuro poeta per aprire il “nicchio avverso” con la sanguinante ferita che ne consegue ed il coraggio “eroico” dimostrato dal bambino che alla vista del proprio sangue non s’arrende, non si sgomenta e non chiama nessuno in soccorso ma è determinato a cavarsela da solo, è esattamente una di quelle prove di coraggio, di abilità e di maturità che sono passaggi obbligati dei rituali iniziatici. Nucleo di tali riti è la morte rituale dell’iniziando, la sua discesa agli Inferi. Ed è quello a cui va incontro il piccolo Gabriele quando, al calare della notte, si dirige verso «un luogo basso della vecchia fortezza», un vero e proprio inferno dalla cui prospettiva le stelle assumono lo spaventoso aspetto «dell’occhio fosforescente della capra dimonia».
Il bambino nell’antica santabarbara raccoglie le tele di ragno per medicare con quelle la ferita, secondo una credenza popolare, e «il ribrezzo dei ràgnoli era fatto più grave dall’abbuiarsi». Ora, il ragno è
Un insetto considerato portatori di presagi, quasi figlio assoluto delle tenebre. Nella farmacologia popolare i ragni pestati, avvolti in un’ostia e ingeriti con un po’ di vino, erano considerati un ottimo rimedio contro la febbre. Anche le ragnatele, impastate con miele, erano utilizzate allo stesso fine; inoltre, se poste sulle ferite, si riteneva ne favorissero la rimarginazione. Nel ragno che tesse ininterrottamente la tela con perfezione geometrica, e poi si abbatte in modo distruttivo sulla propria vittima, è possibile scorgere la simbologia della continua inversione dei valori perpetrata attraverso una sorta di sacrificio costante, destinato a mantenere un improbabile equilibrio volto a coniugare gli opposti. Naturalmente la cultura esoterica ha potuto sfruttare molto questo complesso allegorico, traendone tutta una serie di riferimenti che sono andati ad alimentare il patrimonio delle dottrine iniziatiche.
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L’inferno racchiuso nell’antica santabarbara è una buia bolgia inselvatichita «dove pur sempre la capra d’Inferno» guatava il futuro poeta «nera col suo occhio di stella»; l’intrepido iniziando riesce a fuggire da quell’orrore e a risalire verso la vita. La soglia di casa è come una tomba («un silenzio di tomba alla mia soglia»), il piccolo la oltrepassa, sale la scala che è come «una cateratta di mulino rimbombante», che è come un percorso nel liquido amniotico che lo conduce verso la rinascita; l’urlo e il pallore della madre accompagnano un nuovo parto che rimette al mondo un Gabriele nuovo, marchiato e trasformato dalla prima impronta segreta della sua predestinazione.
Nella favilla successiva, Sum id quod sum, lo scrittore parla in questi termini dell’episodio del “nicchio nericcio”:
Ero un fanciullo impetuoso. E mi fu concesso di comprendere in quella sera, per una specie di comandamento muto a cenni, come io non fossi nato se non per servire la mia vita profonda e la mia verità incomunicabile. Mi fu concesso di comprendere in confuso come io fossi destinato a un conflitto perpetuo fra la interpretazione comune dei miei atti e la mia intima potenza di trasfigurazione e di sublimazione. E oggi, nel rimemorare, penso che già da allora io fanciullo mi sapessi inoppugnabilmente unico interprete della mia coscienza umana governata pertanto da regole sovrumane. Già da allora mi appariva un baglior sanguigno della mia fede oggi certa della rispondenza, necessaria e fertile senza misura e senza pausa, tra il mio servaggio bestiale e la libertà del mio genio.
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«Un comandamento muto a cenni»: le direttive per l’espletamento del rituale iniziatico che dona al futuro poeta la consapevolezza e la comprensione di aspetti fondamentali della propria personalità. Le fasi e gli elementi dell’episodio del “nicchio nericcio”, o, per meglio dire, le fasi e gli elementi del rito iniziatico sono interpretabili come una «successione di simboli» il cui significato è un’asse portante della vita e dell’arte del futuro poeta: la sua «concordanza attuosa con la natura e con la stirpe».
Non v’è forse nella mia puerizia un simbolo più potente, anzi una successione di simboli, da quel primo sprazzo fulgido di sangue a quella scipitaggine molliccia, da quel coltello nettato nel suolo a quella credulità nel rimedio rustico, da quella sosta quasi magica nella santabarbara a quell’astro acceso nell’occhio demonìaco della capra, una successione di simboli significanti la mia concordanza attuosa con la natura e con la stirpe.
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Fin da subito il bambino capisce che quell’episodio significa altro:
E quando ella [la madre di Gabriele] seppe la storietta del coltello a scrocco, quando per un séguito singolarissimo di casi la mia disavventura del bastione fu scoperta, alla sua sollecitudine nell’appurare il fatto consumato, nell’esaminare ogni particolarità, nel cernere il vero dal falso, io rispondevo: «Ma era un’altra cosa». E non di mentire arrossivo sì bene di non mentire.
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Poche pagine più avanti, la favilla Il grappolo del pudore ci offre l’opportunità di penetrare ancora più addentro il viluppo di significati racchiusi nell’episodio del “nicchio nericcio”. Vi si narra un’adolescenziale esperienza erotica del poeta che sarebbe avvenuta durante le vacanze estive del 1878 o del 1880 nel podere paterno di Villa del Fuoco, a Lanciano. L’intraprendente Gabriele sorprende una graziosa pastorella nella vigna e con modi da precoce seduttore riesce a vincerne le resistenze:
Mi studiavo invano di sorprenderla, ché era molto guardinga e mi sapeva manesco, e le piacevo. Ma, verso la fine di settembre, a vespro, avendola spiata e seguitata cauto, la colsi nella vigna deserta. Ella m’adocchiò di lontano. E, sgomenta, perché io non la riconoscessi, colse un grappolo d’uva nera e se lo schiacciò contro il viso, se ne impiastricciò tutta la faccia da gota a gota da mento a fronte, si fece una maschera insana, una maschera di piccola baccante; e rimase a tremare sotto i pampani, contro la vite carica, simile a un’altra canna della vite, che fosse sostenuta e non sostenesse. M’avvicinai anch’io tremando, forse con gli occhi del supplice e forse con la bocca del fauno; e la chiamai per nome con una voce che la turbò a dentro, perché mi parve che sotto la maschera di mosto impallidisse e quasi tramortisse.
Allora le presi le mani di pigiatrice, che stillavano e appiccicavano, imbrattate di bucce e di fiòcini. E le parlai d’amore, e la pregai d’amore; e le cercai la bocca nella vendemmia intempestiva, cercai il succo d’uva di là da’ suoi denti di lupatta, quasi avviluppando il mio desiderio con l’ombra del vespro supplicato e stimolato. Ella repugnava tremava balbettava, afflitta dalla sua stessa maschera nericcia, da quel dolciore acquoso che le colava pel mento giù nel seno, dalle pellicole dei chicchi e dai racimoli del graspo ne’ capelli e negli orecchi e ne’ pendenti. Mi si ruppe alla presa come la canna della vite; si lasciò cadere a terra, s’accosciò, singhiozzò, scoppiò in lagrime. E la faccia dell’orgia fu il viso dell’afflizione; e lo sgomento d’amore si torse come il ceppo della vite, pianse come la vite tagliata, parve accecarsi come la cieca radice sotterra. E il mosto si mescolò col pianto, e colarono insieme il pianto e il mosto!
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La vicenda, in sé, potrebbe sembrare banale ma quel che importa è il valore simbolico che il poeta le attribuisce, il suo essere un’altra cosa:
Io credo che per me anche in quel punto fosse un’altra cosa, come quando volli forzare quell’altra conchiglia.
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Quell’altra conchiglia è ovviamente il “nicchio nericcio” de Il primo segno dell’alta sorte. Quindi viene instaurato un parallelismo tra la conchiglia – sesso della pastorella e la conchiglia – e il “nicchio nericcio” (tra l’altro, la ragazza impiastricciandosi il volto di mosto diviene “nericcia” proprio come il nicchio!). Quindi se l’apertura, il “forzamento” del nicchio nericcio è il nucleo del rituale iniziatico descritto ne Il primo segno dell’alta sorte e se a questo nicchio può essere attribuito il valore simbolico di vagina, possiamo concludere che nucleo del rituale iniziatico è un atto dalla marcata connotazione sessuale, una vera e propria rappresentazione simbolica del coito. Che la “prima impronta segreta” della predestinazione artistica di d’Annunzio venga impressa nel corso di un atto rituale che mima simbolicamente l’atto sessuale non può certo destare meraviglia tanto è lampante la centralità del sesso nella sua arte, sesso che lo scriba del Notturno definirà «il più attivo levame lirico» [8].
Quindi sia l’episodio del “forzamento” della pastorella descritto ne Il grappolo del pudore sia l’episodio del “forzamento” del nicchio nericcio narrato ne Il primo segno dell’alta sorte possono essere intesi come iniziazioni al sesso, ad un sesso che oltre a ciò che appare è anche un’altra cosa: materia di sublimazione artistica, alimento dell’arte.
Unica testimone oculare dello svolgimento del rituale iniziatico de Il primo segno dell’alta sorte è una “capra dimònia”, una “capra d’inferno” che segue attentamente il piccolo Gabriele «col suo occhio di stella». Anche questo è un elemento che rientra perfettamente nell’ambito dei rituali iniziatici:
Sulle sponde settentrionali ed orientali del Mediterraneo, gli Antichi fecero della capra uno degli emblemi dell’Iniziazione, perché, dicevano i vecchi naturalisti, la potenza della vista della capra aumentava da sola, man mano che si innalzava nell’aria delle cime. In ugual modo, il misto diventa più penetrante man mano che raggiunge e supera i gradi dei misteri.
[9]
La capra, presso gli Antichi, simboleggiava anche la lubricità femminile:
in tutto il mondo antico la capra ha personificato, nel suo aspetto negativo e come il capro, il suo maschio, il simbolo della lubricità, e particolarmente della lubricità femminile nel senso più odioso e ripugnante. Una statuetta greco–cipriota rappresenta un donna che tiene sotto il suo braccio sinistro una capra e, nella sua mano destra, tre melograne. Altre opere d’arte antica ce la mostrano in scene della più odiosa bestialità. Del resto, gli autori di quel tempo ci informano sufficientemente su queste turpitudini, che si collocano tra quelle follie di cui Tertulliano diceva: «Non sono dei peccati, ma delle mostruosità».
[10]
Quindi la capra è la testimone ideale di un rituale iniziatico di carattere sessuale. Come se non bastasse la capra de Il primo segno dell’alta sorte è una “capra dimònia”, una “capra d’inferno” ed il connotato satanico non fa che rafforzarne il carattere di simbolo della lussuria:
La capra è entrata nel simbolismo satanico come immagine del demone dell’impurità, che essa impersonificava molto prima della nostra era, a causa dei crimini di bestialità ai quali la si faceva partecipare, e che le prescrizioni mosaiche punivano con la morte presso gli Ebrei. […] la Capra fu, nella speciale emblematica di una volta, il simbolo del succube o demonio femmina incarnato sulla terra.
[11]
Il piccolo Gabriele scambia “la prima stella” per “l’occhio fosforescente della capra dimònia” e nell’antica santabarbara sente fisso su di sé lo sguardo dell’“occhio di stella” della “capra d’inferno”. La stella a cinque punte con la quinta punta rivolta verso il basso è presso varie correnti esoteriche l’emblema dell’Animalità e in quanto tale spesso associata ad una figura caprina talvolta interpretabile anche come emblema di Satana:
Nei gruppi ermetici del Medioevo […] il capro fu anche emblema di Satana, come allo stesso tempo lo fu dell’Animalità. È a questo titolo che la sua testa ornava la stella a cinque punte, la cui punta centrale si abbassa verso la terra, la «Stella nera decaduta», che è l’antitesi della stella pentagrammatica della Spiritualità, la cui punta guarda il cielo.
[12]
Più alcun dubbio è possibile a questo punto circa la pregnanza di valori simbolici della capra de Il primo segno dell’alta sorte. La “capra d’inferno” testimone del rituale iniziatico simboleggia al contempo l’Iniziazione, la Lussuria e l’Animalità; o, più precisamente, l’iniziazione alla Lussuria e all’Animalità, vere e proprie vie maestre che condurranno Gabriele verso la propria arte.
NOTE:
[1] Gabriele d’Annunzio, Il primo segno dell’alta sorte in Il secondo amante di Lucrezia Buti, Prose di ricerca, I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1234 – 1238
[2] Massimo Centini, Le bestie del diavolo. Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Milano, Rusconi, 1998, p. 90
[3] Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I, cit., pp. 1238 – 1239
[4] Ivi, p. 1239
[5] Ivi, p. 1240
[6] Ivi, pp. 1243 – 1244
[7] Ivi, p. 1244
[8] Ivi, p. 368
[9] Louis Charbonneau – Lassay, Il bestiario del Cristo: la misteriosa emblematica di Gesù Cristo, Roma, Arkeios, 1994 pp. 289 – 290
[10] Ivi, p. 290
[11] Ivi, pp. 296 – 297
[12] Ivi, pp. 281 – 282
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