Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

Depresión / Melancolía
Neurosis - Estrés
Ansiedad / Angustia
Miedos / Fobias
Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

miércoles, 10 de julio de 2024

Alessandro Magno, l’India e gli Yogin


La pubblicazione di un recentissimo libro di Chiara Di Serio offre l’occasione per raccontare le mirabolanti avventure di Alessandro Magno nel suo viaggio di conquista in India e oltre. Un incedere di peripezie che l’erudito lettore medievale poteva scoprire sfogliando preziosi codici manoscritti, nei quali la realtà si mescolava alla meraviglia. 

di Ezio Albrile

Un po’ di anni fa ci fu chi credette di ravvisare tra i modelli minori dell’Eneide il Mahābhārata, grandioso poema indiano d’incerta datazione che Virgilio avrebbe conosciuto forse attraverso una traduzione greca. Il Mahābhārata narra, come tema centrale, la contesa e la rivalità tra i cinque fratelli Pāṇḍava e i loro cugini, i Kaurava, i cento figli del re cieco Dhṛtarāṣṭra. Il capo dei Kaurava è il perfido Duryodhana, sempre sostenuto nelle sue imprese dal fratello Duḥśāsana. Il loro antagonismo è incentrato sulla successione al trono che per diritto spetterebbe ai Pāṇḍava. Nel quinto libro del Mahābhārata è narrato il ritorno dei Pāṇḍava nella loro terra dopo l’esilio imposto dai Kaurava che avevano precedentemente usurpato il trono. Secondo alcuni studiosi l’episodio avrebbe ispirato l’arrivo dei Troiani nel Lazio (Aen. VII) per volere del fato, e fors’anche l’epopea fantascientifica di Dune. Anche l’intervento di Aletto, che attraverso un sogno istiga Turno alla battaglia (Aen. VII, 421-434), sarebbe da ricollegare all’episodio di Duryodhana che, mal ispirato, vuole la guerra contro i Pāṇḍava, che invece erano disposti a una soluzione pacifica. Questi e altri materiali analizzati da Cristiano Dognini in Aevum, 71 (1997, pp. 71-77), rimandano alla straordinaria impresa di Alessandro Magno in Oriente


La tracotanza del re

Sull’argomento oggi è tornata una giovane studiosa della Sapienza di Roma, Chiara Di Serio con il libro Alessandro e i Brahmani. La costruzione di un’alterità ideale dalla Grecia antica al Medioevo (Chi Siamo / Storia delle Religioni, 51; Bulzoni Editore, Roma 2024). Quando, nel cosiddetto Romanzo di Alessandro(2,37), un’elaborazione del tutto fantastica in greco che risale al III secolo d.C., giuntaci nel latino di Giulio Valerio, Leone Arciprete, e due ulteriori versioni latine indipendenti e assai più complete, il re macedone dopo aver conquistato quello che era l’impero di Dario III, decide di spingersi ad esplorare le regioni più remote ad Est di quel regno, le guide lo sconsigliano, senza però ricevere ascolto ai loro prudenti suggerimenti; tanto che, dopo le prime sconcertanti scoperte di luoghi strabilianti, al re, che vuole spingersi ancora in avanti, rispondono sconsolati di non aver più nozione di dove lo stanno conducendo, esortandolo a tornare sui suoi passi. Ciò che hanno visto, e che vedranno Alessandro e il suo esercito, è presentato come un misto di fantastico e di tremendo; in ogni caso, tutto l’opposto dell’ambiente in cui sono abituati a vivere e, per assurdo, ben differente da qualsiasi realtà ostile, seppur nota. Un mondo avverso in ogni senso. Oltrepassare il limite, guardare, esplorare, acquisire nuovi spazi: dopo, la realtà non sarà più la stessa; così come per coloro che tale confine extra-umano hanno varcato. Le guide al seguito di Alessandro lo esortano a non spingersi più oltre – ci racconta il celebre Romanzo ‒, ma per il tracotante dinasta non è più una questione di conquista; giunto al fiume Indo, che aveva segnato il limite per l’avanzata della mitica regina Semiramis, resta l’esigenza di vedere e di scoprire, e in Alessandro emerge prepotentemente l’identità dell’esploratore. È, del resto, questo un elemento che ritorna più volte nelle narrazioni che riguardano le imprese del macedone, nelle quali egli non appare mai unicamente come un conquistatore. Il bel libro di Chiara Di Serio intende guidarci in questo tragitto, fra immaginato e vissuto, alla ricerca d’uno spazio antropico costruito sulla meraviglia.

L’«alterità ideale» ‒ come la chiama la nostra autrice ‒, cioè la rappresentazione del paesaggio che fa da sfondo alle vicende belliche della campagna in Oriente e la caratterizzazione di luoghi e popolazioni come componenti essenziali, tanto dei successi sul campo di battaglia, quanto della configurazione di uno spazio umano, risultano funzionali a una ridefinizione dell’Oriente sul piano culturale, quasi un ridisegnare la mappa di questa porzione di mondo, una volta che Alessandro, percorrendola, l’ha acquisita; e un riassetto di questa realtà nel momento in cui ha dovuto fare sua la presenza del macedone e delle sue schiere. Non contento d’inviare i suoi legati a scandagliare nuove vie, Alessandro si fa egli stesso audace, superbo e ansioso cercatore di luoghi nuovi, oltre il limite del conosciuto. Avanza sempre più verso Oriente, come in un itinerario epico, incontro a una realtà che può configurarsi a un tempo come mirabile e mostruosa. Ma a questo punto, non c’è per lui altro che il ritorno, un regresso verso la morte e poi la cerimonia funebre, trasportato dai suoi compagni verso l’Egitto; ancora uno spazio «altro», lo spazio del dio Amon-Râ, che sancirà così definitivamente il suo passaggio nella dimensione dell’extra-umano.

L’aspirazione alla conquista è spesso sovrapposta all’ansia dell’esplorazione, cioè la ricerca di quegli spazi idillici che il mito aveva raccontato quale meta o rifugio per un nugolo d’eletti, oppure come luogo separato di perfezione. Da allora, dai resoconti degli incontri di Alessandro con i gimnosofisti, i saggi nudi indiani, verisimilmente yogin, e della loro lezione esemplare di saggezza e distacco, l’India con i suoi asceti e santi, ma anche con le sue favolose ricchezze, sarà sempre presente nell’immaginario occidentale come la terra incantata della spiritualità. Per esempio Plotino (204 ca.-270) cercherà di giungere in India aggregandosi alla sfortunata spedizione militare dell’imperatore Gordiano, e Dante nel Paradiso coglierà lo spunto da una figura esemplare d’indiano virtuoso per porre il problema capitale della giustizia divina e della salvezza per chi non ha conosciuto il Cristo. I gimnosofisti corrisponderebbero a una specie particolare di yogin, identificabile nella cerchia ascetica dei Digambara, la forma più intransigente del Giainismo, Brahmani eterodossi sulla soglia della liberazione dal ciclo delle rinascite. La parola greca è un composto di gymnos, «nudo» e sophistēs, «sapiente», corrispondente del sanscrito Digambara, «vestiti d’aria», cioè nudi, con allusione alla pratica della totale nudità degli appartenenti alla setta. I Greci conobbero i gimnosofisti in seguito all’impresa di Alessandro e alle relazioni degli storici che lo accompagnarono. Onesicrito di Astipalea, in particolare, filosofo cinico oltre che storico di Alessandro, narrò le loro dottrine, mettendone in rilievo le affinità con gli ideali etici della scuola cinica. Verso la fine del IV secolo san Gerolamo, nel quadro d’una polemica antipagana, scriveva nel Contro Gioviniano che i gimnosofisti, i «saggi nudi» dell’India, ritenevano che il Buddha, primo maestro della loro dottrina, fosse stato procreato dal fianco d’una vergine: ma i Buddhisti non erano gimnosofisti e la loro tradizione non insisteva sulla verginità di Māyā quanto piuttosto sull’eccezionalità del concepimento e della nascita. 


Le virtù dei Brahmani

Attraverso le varie versioni del Romanzo di Alessandro, cioè la «Lettera di Alessandro sulle meraviglie dell’India», che circolavano nel Medioevo, i portenti in cui incappò il re macedone ebbero larghissima fortuna; anche grazie alla ‘pubblicità’ recata da Isidoro di Siviglia (560 ca.-636) nelle enciclopediche Etimologie. Sant’Ambrogio, citando una versione particolarmente bella della lettera che il gimnosofista Calano avrebbe inviato ad Alessandro, faceva trasparire tutta la personale ammirazione: il filosofo indiano aveva una «mente piena di libertà»; era giunto a quel sereno disprezzo per la morte che l’avrebbe reso indomabile non solo al fuoco, ma anche a qualsiasi minaccia Alessandro potesse rivolgere a lui e ai suoi seguaci. Plutarco ricorda che, fra gli «altri sapienti dell’India», Alessandro ebbe al suo seguito anche un certo Calano, il cui vero nome sarebbe stato Sfine. Il dipinto di Jean-Baptiste de Champaigne (1631-1681), L’ambasciata indiana e Calano a cospetto di Alessandro Magno, del 1672, sulla volta del Salone di Mercurio a Versailles, raffigura il grande condottiero seduto sul suo trono mentre i filosofi indiani gli recano le notizie. Le ultime parole di Calano rivolte ad Alessandro, che furono «ci rivedremo in Babilonia», sono state viste come una profezia sulla sua morte; però, in quel momento il re non aveva nessuna intenzione d’andare a Babilonia. Avrebbe, più tardi, cambiato i piani, e l’ultima parte della sua vita si svolse a Babilonia.

I cristiani avrebbero dovuto considerare i gimnosofisti come dei nobili saggi, venerarli come i Padri del Deserto, sia per la loro vita ascetica che per il loro credere in un solo Dio?

Nella corrispondenza fra Alessandro e il re dei Brahmani Dindimo ‒ una compilazione cristiana del III secolo la cui versione latina ci è rimasta nel manoscritto di Alessandro ora a Bamberga e copiato in Italia meridionale attorno al Mille ‒ il macedone esordisce chiedendo al bramino se il suo inusuale stile di vita sia retto dalla saggezza, perché allora, «Se possibile, anch’io seguirò il tuo modo di vivere. Sempre infatti, sin dall’infanzia, ho avuto il desiderio d’imparare». Dindimo replica che la vita d’un bramino è troppo dura per uno come Alessandro, e la descrive pura e semplice, ricca nella povertà che tutti i bramini condividono, fondata solo sul cibo che la Madre Terra offre senza essere coltivata (oggi lo definiremmo un ‘fruttariano’). Nell’ultima parte della lettera, poi, Dindimo perde tutta la sua serenità e si scaglia in una polemica palesemente cristiana: Alessandro e i suoi compatrioti ‒ egli scrive ‒ non sono che politeisti e idolatri, e dopo la morte saranno puniti per i loro errori. Il sapiente bramino ha gettato la maschera, rivelandosi un collerico Padre della Chiesa che sfrutta l’aura esotica di Alessandro e dell’India per fornire una seducente cornice narrativa al proprio zelo apologetico. Un primo studio su questa Collatio Alexandri et Dindimi, con la traduzione italiana, è uscito sulla rivista on-line Chaos & Kosmos a cura di una giovane allieva della prof. Chiara Tommasi, Caterina Fregosi, e si può leggere qui.


Meraviglie d’Oriente

Altri resoconti su Alessandro e i gimnosofisti hanno un tono più ‘frivolo’ e un andamento narrativo quasi da fiaba. Ci sono diverse versioni in cui Alessandro, per mettere alla prova la loro saggezza, pone ai gimnosofisti una serie di domande apparentemente filosofiche, alle quali essi rispondono con prontezza di spirito assolutamente evasiva, battendo il re in una tenzone d’indovinelli. Alessandro aveva deciso d’uccidere il sapiente che avesse risposto meno bene, ma per mezzo di un’abilissima risposta conclusiva l’ultimo sapiente fa sì che le vite di tutti vengano risparmiate. O ancora, alla fine i sapienti supereranno in astuzia il conquistatore mettendolo di fronte all’evidenza della sua tracotanza, la sua hybris.

Accanto al bramino Dindimo, il sovrano che fu l’avversario intellettuale di Alessandro, i testi nominano Poro, il re indiano che fu l’antagonista politico più coraggioso e più forte. Anche dopo un combattimento in cui sarà ferito quasi a morte, Poro, parlando con Alessandro, manterrà la sua «grandezza di spirito», e il re macedone lo eguaglierà accogliendolo «non solo con compassione, ma con onore: curò il re malato come se questi avesse combattuto per lui… presto gli conferì un regno più grande di quello che aveva prima». 

Il resoconto più sensazionale dell’esperienza indiana di Alessandro è contenuto nel Romanzo di Alessandro, vi sono molte variazioni e di dettaglio e di rilievo, sia fra i testi latini che fra quelli volgari che da essi dipendono, ma in sostanza la narrazione, nelle versioni più estese, ci conduce dallo splendore incomparabile del palazzo di Poro ‒ i muri d’oro massiccio dello spessore d’un dito, i viticci d’oro con uva di cristallo, gli uccelli dai becchi dorati alle cui orecchie pendono perle ‒ agli straordinari pericoli che il re e i suoi uomini affrontano con incomparabile fortezza d’animo quando percorrono l’India. Questi ultimi comprendono molti degli esseri meravigliosi della tradizione pseudoscientifica che leggiamo in Plinio e Solino, ma anche creazioni nuove come l’odontotyrannus, più grosso d’un elefante, con tre corni sulla fronte, che massacra ventiquattro macedoni e ne calpesta altri cinquantadue prima che Alessandro riesca a ucciderlo. Nel Romanzo le fantasie di pericoli mortali non escludono sogni di tipo sensuale: ecco che in un ruscello delle donne dai capelli lunghi e di meravigliosa bellezza attirano fra le canne gli uomini di Alessandro e quindi li affogano oppure li uccidono con tecniche erotiche (probabilmente tantriche), vagine insaziabili dai coiti infiniti e mortali.

L’India di Alessandro è il paese degli eccessi: sfrenatezze di crudeltà e coraggio, di sopportazione e d’abbandono. L’India, con le incredibili meraviglie e i pericoli altrettanto incredibili, le infinite ricchezze e l’infinita ricerca di sapienza spirituale, i modelli di perfetta magnanimità e di perfetto distacco dai sentimenti, riflette in definitiva ciò che Alessandro desiderava dominare: era l’omologo del controllo di sé, della propria natura. Il momento culminante del Romanzo di Alessandro racchiude una meraviglia che non ha paralleli fra i prodigi e i mostri tradizionali, e sembra l’invenzione d’uno scrittore tardoantico dalla sensibilità particolarmente acuta verso il mito del re macedone. Il bosco sacro dove Alessandro consulta gli alberi oracolari del Sole e della Luna, che parlano sia in greco che in vedico (sanscrito), possiede, persino nella prosa goffa e disadorna delle versioni latine, un notevole potere d’evocazione e d’attrazione, e costituisce un vero e proprio picco narrativo. E il destino che i due alberi predicono ad Alessandro ha l’ambiguità delle streghe di Macbeth: «Sarai signore del mondo, ma non tornerai a casa vivo».

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