Psicología

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sábado, 20 de abril de 2024

Sheela Na Gig: La forma mentis medievale sul terreno pagano


Pubblichiamo, con il permesso di Venexia editrice, un vasto estratto (alleggerito dalle immagini e dalle note) del quarto capitolo del libro di Starr Goode dedicato alla Sheela Na Gig.

di Starr Goode

Estratto dal libro dell’Autrice Sheela Na Gig – Il potere sacro della dea oscura, Venexia 2023

La religione cristiana non emerse come una tabula rasa durante l’epoca medievale. In effetti, alla Chiesa Cattolica Romana furono necessari secoli di lotte e conflitti per riuscire ad avere la meglio sulle antiche tradizioni dell’Europa pagana. Possiamo considerare il cristianesimo come una patina, come l’ultimo strato di vernice sulla superficie di una storia religiosa che ebbe inizio nel Paleolitico superiore con il culto imperante della Grande Dea. Il terreno artistico dell’Europa fu prima di tutto pagano. Come dimostrato dai ritrovamenti archeologici, gli esempi più antichi dell’arte scultorea risalgono a decine di migliaia di anni fa, quando in diverse parti d’Europa vennero create le cosiddette Veneri paleolitiche. Tra le centinaia di esemplari scoperti fino a oggi, non esiste nemmeno una figura maschile – una testimonianza del primato della Dea Madre. 


La religione della Dea in Britannia e in Irlanda 

In Irlanda e in Britannia esistono ancora tradizioni che attestano le radici celtiche e neolitiche delle Sheela na gig. Lo studioso Frank Battaglia descrive “prove certe che testimoniano la presenza della religione della Dea nelle antiche Isole Britanniche”, a cominciare dai popoli neolitici che edificarono enormi monumenti di pietra come Stonehenge, alla presenza romana in Britannia, includendo anche i Pitti, gli Anglosassoni e i Celti. Autrice di numerosi libri sui Celti, Miranda Green fa risalire le origini delle loro credenze alla “prova decisiva della presenza in Europa del culto della Dea Madre tra il 7500 e il 3000 a.C.”. La Green sostiene che le dee avevano un ruolo “centrale nella percezione celtica del mondo” e che quindi “potrebbero aver predominato nella religione del mondo celtico”. Nell’opera Pagan Celtic Britain, Anne Ross, una studiosa che ha vissuto per anni in comunità di locutori celtici, tra le quali ha rintracciato diverse tradizioni vernacolari, sostiene che, secondo la visione del mondo degli antichi Celti, c’era “una dea madre che presiedeva su tutti gli esseri mortali”, e che gli dei stessi derivavano ed erano controllati “da una grande madre divina, nutrice degli dei e della terra”.

Forse i monumenti più grandiosi dell’arte neolitica che riflettono la religione della Dea in Irlanda e in Britannia sono le grandi tombe a corridoio come il tumulo circolare di Newgrange, nella valle del fiume Boyne, in Irlanda, e il più famoso di tutti i siti neolitici, Stonehenge, nello Wiltshire, in Inghilterra. Costruito più di 5000 anni fa, l’ingresso del tumulo di Newgrange è allineato al sorgere del sole al solstizio d’inverno. I raggi mattutini passano attraverso l’entrata principale e illuminano il corridoio di diciannove metri di lunghezza, fino a toccare l’altare che si trova alla fine della camera interna (Figura 4.1). Questo fenomeno simboleggia la tomba della dea invernale della morte che viene rigenerata per diventare il ventre che darà alla luce una nuova vita nella primavera successiva. Le incisioni presenti sulla pietra posta davanti all’ingresso (spirali doppie e triple chiamate triskell) e su una pietra di cordolo (molteplici archi con un triangolo dentro) rappresentano la vulva creatrice della Dea.

Stonehenge è stato descritto – quasi come un cliché – come un sito che deve essere stato il luogo di sepoltura di qualche importante capotribù (maschio). Tuttavia, come fa notare Battaglia: “R. J. C. Atkinson, uno dei principali archeologi di Stonehenge, scoprì sulla pietra 57, uno degli enormi triliti eretti verso il 1500 a.C., quelle che lui malvolentieri riconobbe [l’enfasi del corsivo è una mia aggiunta] essere la ‘probabile…rappresentazione di una dea-madre’”. Come il tumulo di Newgrange, anche Stonehenge è allineato con il sorgere del sole al solstizio d’inverno. La sua costruzione durò per più di mille anni, tra il 3000 e il 1500 a.C., a dimostrazione dell’impressionante longevità del credo nella sacralità del sito. Battaglia aggiunge che i raggruppamenti di case raggiungibili a piedi ubicati attorno al sito megalitico sono caratteristici della “residenza matrilocale associata a una parentela matrilineare”, e che tale organizzazione sociale discende dalla pratica della religione neolitica della Grande Dea. 

Un recente articolo, “Stonehenge: A View from Medicine”, pubblicato nel numero di luglio 2009 della rivista inglese Journal of the Royal Society of Medicine, rivela alcune notizie ancor più sorprendenti: la disposizione delle pietre riproduce dei genitali femminili. Anthony Perks, un dottore in ostetricia e ginocologia presso la University of British Columbia, sostiene che da una veduta aerea “il cerchio interno di pietre di Stonehenge rappresenta le piccole labbra, mentre il cerchio esterno di enormi massi di arenaria rappresenta le grandi labbra. La pietra dell’altare è la clitoride, mentre lo spazio centrale aperto è il canale vaginale”. Perks sostiene che la visione del mondo che avevano gli antichi, con la Grande Creatrice che genera e sostiene la vita, ci rivela che “Stonehenge potrebbe rappresentare, simbolicamente parlando, l’apertura attraverso la quale Madre Terra dava la vita”. In questo modo, l’intero monumento sarebbe un omaggio ai suoi poteri vivificanti. 

Una delle più antiche raffigurazioni di una divinità antropomorfa in Britannia è l’Idolo di Dagenham. Scolpito in un pezzo di pino silvestre, è lungo circa cinquanta centimetri (Figura 4.2). Scoperto nel 1922, è attualmente conservato nel museo del castello di Colchester, nell’Inghilterra orientale. La targhetta museale descrive il manufatto di 4500 anni nel seguente modo: “La seconda raffigurazione umana più antica di questo paese, scoperta a sei metri di profondità in un’area paludosa presso Dagenham, sulla sponda settentrionale del Tamigi”. Molte altre figure di legno sono state riportate alla luce in terreni paludosi presso diversi siti in Irlanda e in Britannia, come la statua di Ballachulish menzionata nel Capitolo 3. La statua di Ralaghan venne trovata durante il taglio di un campo di torba nella contea di Cavan (Figura 4.3). In mostra al National Museum di Dublino, questa statua di più di sessanta centimetri di altezza è scolpita in un pezzo di legno di tasso e risale a un periodo tra il 1100 e il 1000 a.C.. Sia l’Idolo di Dagenham che la statua di Ralaghan presentano due fori simili nell’area pubica, anche se il primo è di tremila anni più antico. 

A questo punto sorge una domanda: si tratta di due figure femminili, maschili, oppure ermafrodite? I fori servono per inserirci dentro un fallo artificiale, oppure solo per rappresentare una vulva? Permane una certa ambiguità di genere. Tuttavia, ad oggi non è stato trovano nessun fallo nelle vicinanze dei siti di ritrovamento dei due manufatti. L’Idolo di Dagenham esibisce le anche tondeggianti di una donna, mentre la statua di Ralaghan presenta un pronunciato triangolo pubico femminile. Nel suo studio “Anthropomorphic Wooden Figures from Britain and Ireland”, l’archeologa Bryony Coles riferisce che, dopo aver inserito un dito dentro il foro della statua di Ralaghan, ha scoperto che il buco “si allarga con il corpo e sul pavimento del canale è presente una piccola striscia di materiale granulare bianco, forse quarzo”. A causa di questi fattori, e del fatto che il foro dell’Idolo di Dagenham ha una forma ovale, entrambe le aperture sono “progettate male” per accogliere un fallo. Nel complesso, queste figure rivelano un ricco filone di tradizioni sopravvissuto fino alla creazione delle prime Sheela. 


La comparsa della Sheela na gig 

Per decine di migliaia di anni, l’immaginazione umana è stata devota alla Dea. Quindi non possiamo sorprenderci di trovare immagini di femmine sovrannaturali come le Sheela che adornano edifici sia sacri che secolari in gran parte del territorio europeo. Come con tutte le immagini viventi – quelle che mantengono la loro energia vitale – ci sono superfici e profondità da esplorare. Quando la figura medievale della femmina esibizionista entra in contatto con le tradizioni celtiche indigene, l’immagine si evolve dando origine alla Sheela irlandese. Ciononostante, alcuni studiosi, come Jørgen Andersen, negano ancora le origini pagane della Sheela perché tale ipotesi “è meno facile da dimostrare” di quella secondo cui la Sheela è una “invenzione cristiana medievale”. Comunque sia, come sostiene lo studioso Frank Battaglia, Andersen “vorrebbe farci credere che l’immagine della Sheela sia emersa spontaneamente nelle menti degli artisti cristiani medievali, piuttosto che essere un’espressione di pratiche religiose popolari che può essere fatta risalire a migliaia di anni fa nella maggior parte delle aree in cui sono presenti raffigurazioni di Sheela”. Infine, Battaglia sostiene che l’ipotesi secondo cui la Sheela è solamente un elemento decorativo francese che compare nelle chiese del XII secolo, non può spiegare “perché così tante Sheela irlandesi si trovano sulle mura di castelli o in siti come le mura difensive medievali del villaggio di Tipperary”. 

E allora cosa può spiegare tale presenza? Abbiamo esposto la nostra tesi riguardo la diffusione dell’architettura romanica che portò le figure femminili esibizioniste dal Continente alla Britannia e in Irlanda, e riguardo l’ambiente pagano che fornì terreno fertile per la creazione delle Sheela na gig. Abbiamo anche parlato di altri eventi storici che aiutarono a formare il milieu culturale in cui si diffusero le Sheela: l’invasione normanna dell’Irlanda nel 1169, e la distruzione della Chiesa celtica da parte della Chiesa cattolica. 

Dopo la colonizzazione dell’Irlanda da parte dei nobili normanni, il romanico, uno stile architettonico di transizione, scomparì e, con il tempo, lo stile gotico inglese portato dagli invasori si evolse nel tardo gotico irlandese. Tra i secoli XIII e il XVII, sui muri degli edifici medievali comparvero le Sheela na gig irlandesi. Le tradizioni scultoree e mitiche autoctone dell’Irlanda trasformarono gli elementi decorativi romanici. Le figure delle Sheela sono maggiormente concentrate al centro del paese, sulle mura di chiese e castelli edificati sulle terre appena conquistate dai signori anglo-normanni che reclutarono scalpellini gaelici. Profondamente influenzati dalla cultura irlandese – con le sue leggi, la sua lingua e la sua letteratura – i baroni stranieri divennero, come dice il proverbio, “più irlandesi degli Irlandesi”. Si sposarono con donne irlandesi e fecero alleanze con re irlandesi. Questo processo di assimilazione aiutò a promuovere una rinascita gaelica nelle arti, che durò dal tardo XIII secolo al XVI secolo.

Proprio come la precedente diffusione di chiese romaniche lungo i percorsi dei pellegrinaggi in Spagna e Francia, dopo l’invasione normanna l’Irlanda “cominciò a essere ricoperta di castelli, torrioni e luoghi fortificati” man mano che i nuovi nobili si stabilivano sul territorio. Quasi tutte le Sheela na gig irlandesi “ebbero origine con, o vennero inserite su, edifici” eretti durante quel periodo di rapida crescita edilizia. Tuttavia, nel XIV secolo avvennero alcuni eventi, come la campagna militare di Roberto I di Scozia in Irlanda, tra il 1315 e il 1318, e la peste nera che colpì l’Irlanda dal 1348 e il 1350, che interruppero temporaneamente l’espansione edilizia. Ma quando con il XIV secolo ci fu un ritorno della prosperità, si ricominciò a erigere edifici, ma questa volta secondo la scuola gotico irlandese, in cui “gli scalpellini irlandesi diedero vita al loro stile personale che era un amalgama tra elementi del passato e del presente”. Questa rinascita gaelica nelle arti dell’Irlanda medievale attinse a un antico repertorio di motivi indigeni. La Sheela del castello di Ballinderry, nella contea di Galway, coi suoi nodi celtici, il triskell e la calendula, costituisce una delle creazioni più raffinate del rinnovato interesse per l’autoctona arte celtica (Figure 4.4 e 4.5). 

Durante i turbolenti anni che vanno dal XII al XVI secolo, oltre che nelle chiese, la maggior parte delle Sheela irlandesi furono posizionate nelle mura delle case-torri fortificate. Erette a scopo difensivo sui terreni di ricchi nobili, questi edifici fungevano anche da punti di ritrovo delle comunità circostanti. Grazie alla sua crescente popolarità, la Sheela divenne una figura molto importante, spesso l’unica presente in un intero edificio. Rispecchiando l’aumento di potere della sua immagine, è come se alcune strutture fossero state erette solo per fungere da cornici della Sheela, a dimostrazione del suo duraturo, e forse mutevole, valore per la gente del luogo. Le raffigurazioni della Sheela cominciarono ad apparire anche su torri rotonde, pozzi sacri, mura cittadine, menhir e persino sul monumento funebre di un vescovo (Figura 4.6). Questa aggressiva rappresentazione dell’esibizione sessuale venne usata per adornare opere architettoniche in gran parte del paese. 

L’immagine della Sheela stimolò certamente l’immaginazione di quegli artisti irlandesi che, seppur utilizzando il simbolo della femmina esibizionista, trassero ispirazione da radicati temi pagani per dare vita alla formidabile Sheela na gig. Secondo lo spirito dei tempi, gli artisti “si misero a lavoro con rinnovato entusiasmo e gusto, arrivando a produrre Sheela-na-Gigs migliori rispetto a quelle di qualunque altro artista”. In lei, gli scalpellini irlandesi vedevano la dualità dei poteri creativi e distruttivi delle loro antiche dee, rappresentato dall’esibizione della sua immensa vulva – un’immagine di rigenerazione e di morte. Oltre a essere un portale per la nascita di una nuova vita, la vulva è anche un simbolo di ritorno, testimoniato dalle pratiche funerarie di sepoltura del cadavere nel ventre della Madre Terra per poter, in un certo modo, rinascere. La morte che si avvicina è riflessa nel suo aspetto da vecchia megera, con i seni avvizziti, il torace rinsecchito e il volto emaciato, che ricorda un teschio. Le Sheela irlandesi diventano più grandi, più selvagge e più gloriose nel loro modo di esibirsi, rispetto alle loro sorelle più antiche presenti in Francia e in Spagna. 

In quale momento la figura esibizionista si guadagna il magico nome di Sheela na gig? Alcuni chiamano la “vera” Sheela na gig il prodotto della fusione tra la cultura normanna e quella celtica che avviene in Irlanda. Ma cosa dire delle Sheela inglesi, scozzesi e gallesi? A differenza di quelle irlandesi, tutte le Sheela britanniche si trovano nelle chiese e, in generale, l’entusiasmo per questo elemento decorativo non durò fino al XVII secolo, come invece fece in Irlanda. Ad eccezione di qualche raro esemplare, come la Sheela di Llandrindod, nel Galles celtico (Figura 9.11), le Sheela britanniche non hanno un aspetto così minaccioso come quello delle Sheela irlandesi. Ma con il passere del tempo, anche quelle si liberarono delle restrizioni delle mensole romanesche, e divennero più grandi e più preminenti nella loro ubicazione sulle mura delle chiese, come le Sheela di Oaksey, Fiddington (Figura 4.7), Church Stretton, Buckland, Crofton-on-Tees, Easthorpe e Pennington. 

Eamonn Kelly, del National Museum of Ireland, sostiene che le Sheela inglesi potrebbero aver influenzato quelle irlandesi. Secondo lui, le figure esibizioniste potrebbero essere state reintrodotte in Irlanda dagli Anglo-Normanni durante una seconda serie di invasioni nel 1171. Quegli invasori provenivano dal Galles e dalle aree di confine con l’Inghilterra, tra cui il canale di Bristol – proprio le zone in cui c’è un’alta concentrazione di Sheela na gig nelle chiese. In riferimento a questa storia, Joanne McMahon e Jack Roberts commentano: “Questo potrebbe spiegare una combinazione di incisioni ancor più sbalorditiva”.

Dobbiamo ricordare che la cultura celtica si era diffusa in tutta la Britannia a partire dal 600 a.C., pertanto la tradizione della strega esibizionista è sempre stata presente anche lì, come anche la reputazione aggressiva delle donne celtiche. La guerriera celtica Budicca, regina degli Iceni, guidò una rivolta nel 60 d.C. contro il potente esercito romano, e riuscì quasi a vincere. Inoltre, anche in Britannia ci fu il culto della dea durante il periodo neolitico. Tutti questi fattori influenzarono le Sheela britanniche. Ma c’è qualcosa di speciale riguardo la Sheela irlandese, come la sua duratura popolarità (il numero di Sheela irlandesi è quasi il triplo di quelle britanniche) e il suo aspetto feroce, che la rende diversa dalle altre.


Custode delle entrate 

La quintessenza della Sheela è la sua vulva nuda ed esibita senza alcuna vergogna. Da quella cavità emergono numerosi significati. Proprio come si è liberata dagli spazi ridotti che limitano la sua antenata romanica, la vera Sheela na gig è emancipata anche nel suo proposito. Libera dalla misogina e minacciosa avversione cristiana per il corpo femminile, in lei rinasce un entusiasmo per i propri poteri. Qualunque funzione negativa possa aver avuto l’elemento esibizionista di tali figure, non è più la funzione della Sheela. Se la figura più antica era stata usata come strumento di protezione contro il peccato, anche la Sheela più tarda viene usata per i suoi poteri protettivi, ma per sorvegliare i confini di un territorio, le mura di un castello e, a un livello più sottile, i confini tra i diversi stati dell’essere.

Come veniva utilizzata? Tramite un’armonia di associazioni. Grazie alla loro ubicazione, le Sheela na gig divennero custodi delle entrate, osservando chiunque le attraversasse. Ma indipendentemente dalla sua ubicazione, qualunque Sheela può essere considerata una “entità liminale” che rappresenta “il divino, o almeno una via d’accesso al divino”, visto che la vulva è di per sé una porta, un luogo d’entrata e di uscita. I misteri del sesso, della vita, della morte e della rinascita si sono certamente accumulati attorno all’immagine della vulva. Rappresenta un invito aperto al sesso, è il canale del parto e, paradossalmente, incarna un ritono simbolico alla Madre Terra dopo la morte. 

Conosciamo bene gli utilizzi quotidiani e pratici delle porte, mezzi necessari per entrare e per uscire da determinati luoghi. Eppure la porta esiste anche in un altro regno immaginario: il richiamo di ciò che si trova al di là di una porta aperta ci attira a entrare e ad adottare un cambiamento di coscienza. Che sia una piccola coppia di Sheela inglesi nel villaggio di Tugford, nello Shropshire, una indolente, l’altra aggressiva, posizionate all’interno della porta d’accesso meridionale della chiesa di St. Catherine (Figura 9.13); oppure un’enorme Sheela solitaria nella chiesa di Killinaboy, contea di Clare, in Irlanda (Figura 8.1), la figura della Sheela attira coloro che devono passare sotto le sue gambe divaricate sopra l’entrata, per transitare da un luogo secolare a un luogo sacro. Più di ottocento anni fa, i chierici e i fedeli passavano attraverso il suo campo di potere per entrare nel sancta sanctorum, o ventre, della chiesa, un temenos di comunione spirituale. 

Gli scalpellini potevano utilizzare i poteri talismanici delle Sheela na gig posizionandole accanto alle finestre delle chiese e delle case-torri. Questi edifici vennero eretti tra il XIV e il XVI secolo come residenze per nobili irlandesi autoctoni e aristocratici anglo-normanni gaelicizzati. Attraverso la sua ubicazione e la sua esibizione sessuale, la Sheela genera un duplice dramma di apertura. Appollaiata sopra una finestra, volge il suo sguardo verso il confine tra il mondo fisico e quello metafisico, sia esteriore che interiore. Il suo aspetto può essere alquanto feroce, con un volto spesso minaccioso, spalle possenti e tatuaggi spaventosi.

Anche se quasi tutte le Sheela non si trovano più nelle loro ubicazioni originarie, rendendo così impossibile sapere con esattezza quante ne esistevano in passato, ce ne sono ancora molte che si trovano in situ. Da secoli sopravvivono agli assalti del tempo, come anche a quelli dei mutevoli comportamenti religiosi. Ecco un breve elenco di alcune delle Sheela na gig che ancora si trovano nelle loro ubicazioni originali sulle mura di chiese o castelli, sopra porte o finestre: in Irlanda ci sono le Sheela di Blackhall, Ballinderry, Ballyvourney, Killinaboy, Kilsarkin, Shanrahan, Taghmon e Moate; in Britannia ci sono le Shella di Iona, Oaksey, Holdgate, Tugford, Buckland, Church Stretton, Romsey Abbey, Whittlesford e Taynuilt (Figure 4.8, 4.9 e 4.10).

Una precoce convalida del potere apotropaico della Sheela na gig venne documentata negli anni ’50 del XIX secolo dal topografo John Windele quando descrisse la presenza di una Sheela nel cimitero di Barnahealy, nella contea di Cork. Lui la definisce un vecchio feticcio, una Strega del Castello che, se posizionata sopra una porta, possiede “un potere tutelare o protettivo in grado di far scomparire qualunque intenzione malvagia nella mente di un nemico che, passando accanto l’edificio, l’avesse vista”. Nel suo saggio, “The Worship of the Generative Powers”, scritto nel 1866, il collezionista Thomas Wright sostiene che “tutti sapevano che loro [le Sheela] erano usate come amuleti protettivi contro il malocchio”. La studiosa Anne Ross attribuisce la potenza delle Sheela al continuum di energie possedute dalle più antiche dee celtiche. La Sheela, in quanto disgustosa megera, riecheggia l’apparenza “della dea guerriera o territoriale nel suo aspetto stregonesco” e canalizza “i poteri scaramantici” che le dee autoctone si credeva possedessero. La Ross considera le Sheela na gig come ritratti di antiche dee, ricordate nelle “tradizioni e festività popolari”, e sostiene che le loro vulve prominenti “potrebbero essere dei talismani estremamente apotropaici”. 

Come custode delle entrate, la Sheela sorveglia le parti più aperte e penetrabili di un edificio grazie alla sua ubicazione accanto a porte e finestre; come Strega del Castello, la Sheela protegge il territorio dagli intrusi se inserita in una posizione alta nelle mura dell’edificio. Da questo punto strategico, è in grado di esercitare la massima sorveglianza sul suo túath, o territorio. Spesso una figura stregonesca viene posizionata sull’angolo esterno di un muro, il concio d’angolo, o pietra angolare, perché ovunque venga inserita aumenterà la solidità della struttura muraria. Due famose streghe ubicate sulle mura di due castelli del tardo XV secolo, nella contea di Laois, in Irlanda, difendevano i confini delle travagliate terre dei Fitzpatrick. La Sheela del castello di Ballaghmore era rivolta verso il confinte settentrionale, mentre quella del castello di Cullahill era rivolta verso il confine meridionale. Il fatto che negli altri castelli dei Fitzpatrick non sono presenti altre figure di Sheela indica “una funzione chiaramente apotropaica delle Sheela come guardiane del territorio”. Le due figure potrebbero anche aver avuto la funzione di potenti status symbol, o “totem clanici”, in quelle aree di ricche tenute nobiliari che, avendo un enorme bisogno di protezione, presentavano la massima concentrazione di Sheela. Secondo la tradizione, le famiglie dei capiclan avevano la loro personale “strega divina con un nome specifico”. 

La Strega del Castello come custode del territorio risale alla dea della sovranità del luogo. I re e i capiclan irlandesi posizionavano le Sheela na gig “sui loro castelli come rivendicazione del loro antico diritto di sovranità sulla terra d’Irlanda”. Come elemento della loro assimilazione culturale, i nobili anglo-normanni fecero lo stesso. In senso figurato, i governanti erano considerati gli sposi dei loro territori. Eamonn Kelly cita molti esempi di Sheela posizionate sulle case-torri dei re supremi d’Irlanda e dei governanti anglo-normanni. Due di questi esempi sono la Sheela na gig presente accanto a una finestra del castello di Bunratty, contea di Clare (Figura 4.11), dimora del XV secolo degli O’Briens, conti titolari di Thomond; e la Sheela scoperta tra le rovine del castello di Carne, contea di Westmeath, una casa-torre del XVI secolo appartenente agli O’Melaghlin, discedenti dei re di Meath e dei re supremi d’Irlanda.

Alcuni esempi di Sheela ubicate su edifici anglo-normanni sono la Sheela che si trova sulla destra della porta d’entrata del castello di Blackhall, contea di Kildare, dimora della famiglia Eustace, e la Sheela presente sulle mura fortificate dei villaggi di Fethard e Thurles, contea di Tipperary. La studiosa Maureen Concannon sottolinea che molte Sheela si trovano anche nelle sedi dei re provinciali: “due Sheela si trovano vicino a Cruachan, nella contea di Roscommon, l’antica sede dei re O’Connor della provincia del Connacht, e nel Leinster è presente la Sheela della pietra di Adamnán, a Tara” (Figura 4.12).

Ma l’enigma della Sheela come Strega del Castello non è ancora risolto, perché che significato si può determinare dal fatto che tali figure sono quasi sempre posizionate ad altezze che le rendono di difficile individuazione a occhio nudo? Inoltre, le pietre su cui sono incise le Sheela nella loro consueta posizione accovacciata, sono state spesso inserite orizzontalmente negli angoli esterni delle mura, così che oggi appaiono in una postura reclinata. Che tipo di protezione potrebbe offrire una Sheela la cui presenza è così poco visibile? Una possibile risposta è che fa parte della sua magia non essere vista dal nemico finché non si trova troppo vicino per poterle sfuggire – più ci si trova vicini alla Sheela, maggiore è la sua capacità di intrappolarci per poi metterci in fuga. Questo inganno aumenta il suo potere: non ha bisogno di essere in bella vista, basta la sua presenza. Ovviamente, queste Sheela non sono usate come elementi decorativi per rendere più bello il castello. Questo tipo di disposizione derivava da una scelta consapevole da parte degli scalpellini, che probabilmente “perpetuavano un’usanza che aveva un qualche significato per loro”, e si basava sulla credenza in “una forma di magia al di là dell’impiego delle sheela”. 

Una delle più belle streghe dei castelli è la Sheela di Tullavin, nella contea di Limerick, presente sul muro meridionale di una peel tower, o torre di guardia, del XV secolo (Figura 4.13). Si tratta di una Sheela molto scultorea, con un corpo tondeggiante piuttosto sensuale, creata per spiccare nitidamente dalla superficie muraria. Particolarmente evidenti sono le robuste gambe, i piedi divaricati nella classica posizione accovacciata della preistorica dea-rana che governava sulla morte e sulla rigenerazione. Possiede le possenti spalle sollevate di molte streghe dei castelli, ma presenta degli insoliti capelli ricci o un copricapo. Tiene la mano sinistra sollevata all’altezza dell’orecchio, compiendo lo stesso gesto profetico della Sheela di Kiltinan (Figura 1.3), anch’essa inserita trasversalmente in un muro, ma di una chiesa. Il braccio destro della Sheela di Tullavin è steso fin sotto la coscia per permetterle di toccarsi delicatamente la vulva.

In che modo una vulva in bella vista può essere considerata apotropaica? Cosa le conferisce questo potere? Storicamente, le tradizioni multiculturali sembrano attestare la nota credenza secondo cui l’esibizione dei genitali è un potente gesto apotropaico. Le raffigurazioni di femmine esibizioniste incise su porte di legno di granai africani, su pietre tombali ecuadoriane o sui timpani delle entrate delle case cerimoniali in Micronesia, ricorrono tutte all’uso dei poteri protettivi della vulva (maggiori informazioni a riguardo nel Capitolo 11). La fede nel potere apotropaico della vulva risale ai tempi degli antichi Greci e Romani, come viene spiegato dallo storico Frederick Elworthy nel saggio The Evil Eye: The Classic Account of an Ancient Superstition. Non si tratta solamente di una superstizione relegata a un passato arretrato; ancora oggi utilizziamo i ferri di cavallo come amuleti di buona fortuna, e li inchiodiamo sopra le porte per proteggere le nostre case dalle forze malefiche – e non deve sorprendere che il ferro di cavallo sia anche una rappresentazione simbolica della vagina della cavalla (nei tempi antichi veniva usato l’organo riproduttore vero e proprio dell’animale). 

Ulteriori testimonianze di una fervente fede nei poteri apotropaici della vulva durante il Medioevo si possono trovare negli osceni distintivi che i pellegrini inglesi e nordeuropei indossavano durante i loro viaggi verso i luoghi sacri. Fatti di una poco costosa lega di piombo e stagno, “i distintivi erano oggetti del tutto comuni e ordinari”. La loro iconografia includeva varie raffigurazioni dei genitali umani, come anche l’immagine di una Sheela esibizionista, e uno dei soggetti favoriti era il cosiddetto Pudendum Pilgrim (Figura 4.14), una vulva itinerante con tanto di cappello e stivali da pellegrino, che tiene in una mano un bastone e nell’altra un rosario; l’immagine ricorda la figurina di Baubò ritrovata a Priene (Figura 5.1). Lo scopo di questi distintivi era di fornire ai loro “proprietari medievali una protezione contro la minaccia del malocchio e della Morte Nera”.

Vivere in Europa nella metà del XIV secolo significava dover affrontare e sopravvivere a una catastrofe naturale che andava al di là di ogni immaginazione – la peste bubbonica del 1348, le cui epidemie si succedettero per anni fino al XVIII secolo. Una credenza comune era che la malattia potesse essere tramessa tramite il contatto visivo con un malato, e che “persino uno sguardo fugace degli occhi deformi dell’appestato era sufficiente a trasmettere l’infezione a tutti coloro su cui cadeva”. Come scrive Shakespeare nella commedia Pene d’amor perdute, “Nei lor cuori s’annida la peste, e se la sono attaccata dai vostri occhi”. Secondo le tradizioni popolari, la sorprendente comparsa di una vulva ambulante con le sue qualità ludiche poteva neutralizzare qualunque sguardo malefico, perché l’energia negativa veniva attratta su quell’osceno distintivo, e quindi deviava il suo influsso nocivo da chi l’indossava. (Questo processo può spiegare in parte anche la dinamica di funzionamento della Strega del Castello). Facendo appello a tradizioni antiche, i pellegrini medievali indossavano quelle figure apotropaiche per allontanare il malocchio invocando lo spirito protettivo della vulva. 

È certo che la fonte di potere della Sheela si trova nella sua esibizione sacra. Con il suo grande fascino e il suo potere di attrazione, sorveglia le soglie, come una dea dei passaggi. In essenza, i suoi misteri vanno al di là delle nostre conoscenze, i suoi terrificanti e paradossali aspetti hanno il potere sulla vita e sulla morte; il suo sessuale “invito a entrare” è giustapposto alla repulsiva minaccia del suo sguardo e del suo aspetto stregonesco. Questi attributi potenziano i suoi poteri apotropaici che deviano gli influssi malefici. Una fede durevole nelle capacità delle Sheela che portano fortuna e salute, emerge chiaramente in molte sue raffigurazioni, come nelle Sheela di Kilsarkin e di Castlemanger, che possono essere facilmente toccate dai visitatori. Infatti mostrano i segni di secoli di sfregamenti e carezze da parte dei pellegrini che le veneravano, e che credevano che la polvere di pietra strofinata dalle loro vulve avesse “poteri curativi” (Figura 4.15).

Un’altra fonte del potere apotropaico della Sheela sgorga dalla sua visione frontale. Sperimentiamo l’impatto di una visione diretta del suo corpo sovrannaturale, con una vulva che nessuna donna mortale ha mai avuto. Lo studioso Jørgen Andersen descrive la frontalità della figura della Sheela come un elemento su cui tutta l’arte primitiva fa affidamento per ottenere “un effetto drammatico in un confronto voluto tra un’immagine incisa o dipinta, e i nemici mortali o spirituali contro i quali tale immagine è diretta”. La raffigurazione della Sheela potrebbe essere considerata come una forma d’arte primitiva – rozza, non sofisticata, potente. È vero che in gran parte delle Sheela è presente un’energia grezza. La raffinatezza della Sheela di Ballylarkin (Figura 13.21) o della Sheela di Tullavin (Figura 4.13) è un’eccezione. Ma primitiva significa anche “primordiale”, o “prima”, o “originaria”, e sono pochi coloro che dubitano della scioccante originalità dell’immagine della Sheela. 


Figure di fertilità? 

Per pregiudizio patriarcale, un’immagine femminile viene spesso considerata simbolo di fertilità, un pregiudizio che riduce il suo potere, limitandolo al ruolo di madre o sposa. In questo ruolo diviene giusto un elemento accessorio della divinità maschile, e smette di incarnare una potenza originaria in sé e per sé. Certamente nel corso degli anni alcuni studiosi hanno etichettato le Sheela come figure di fertilità, anche dopo solo uno esame del tutto superficiale. Le loro ampie vulve impongono la domanda: le Sheela sono simboli di fertilità? La risposta può essere sì e no. No, in quanto una delle funzioni basilari della Sheela ha a che fare con i varchi. Il suo potere apotropaico è strettamente correlato all’esibizione del suo sesso. La vulva è certamente un organo di fertilità, ma in questo caso il suo potere creativo viene usato metaforicamente, non letteralmente, in quanto offre protezione dagli influssi malefici, attrae la buona fortuna e fornisce un passaggio sicuro nella sacralità di una chiesa o nella protezione di un torrione.

Sì, in quanto, da un punto di vista femminista, è possibile attribuire alla Sheela una funzione procreatrice. Una delle prime studiose delle Sheela, l’antropologa ed egittologa Margaret Murray, le definisce raffigurazioni della fertilità appartenenti a un archetipo di dea che lei chiama “Yoni personificata”. Garbatamente ricorda che la qualità erotica della vulva nuda è un elemento stimolante non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Menziona altresì l’usanza popolare delle spose che, prima delle nozze, fanno visita alla Sheela di Oxford per assicurarsi un matrimonio fecondo. 

Alcune Sheela sembrano gravide. Per esempio, la Sheela di Moate, nella contea di Westmeath, Irlanda (Figura 8.3), presenta, sotto un volto mostruoso, un’addome rigonfio che protrude al di sopra della vulva. Altre due Sheela raffigurate con pance sporgenti o cascanti sono la Sheela della Dowth Old Church, contea di Meath, Irlanda, e la Sheela deteriorata dagli elementi che si trova nella Nun’s Church sull’isola di Iona (Figura 4.16), in Scozia. Entrambe mostrano una “pancia rotonda e cascante, con due piccole gambe divaricate, una postura che ricorda molto la fase della gravidanza appena prima del parto”. Una Sheela scozzese nella chiesa di Rodil, sull’isola di Harris, sembra avere appena partorito ed essere intenta a cullare il suo bimbo appena nato (Figura 4.17).

In un numero della rivista Folklore uscito nel 1937, la studiosa Edith Guest sostiene che le Sheela na gig sono raffigurazioni della feritlità, e sottolinea come la Sheela del castello di Widenham “ancora in anni recenti venga toccata molto spesso per facilitare il parto”. Fare assegnamento su queste figure per ricevere aiuto è una pratica che continua, come testimoniato da James O’Connor nella sua monografia sulle Sheela, Sheela na gig, uscita nel 1991. Quando era adolescente, l’eccentrica proprietaria di lunga data del castello di Kiltinan, nella contea di Tipperary, conosciuta localmente come Lady La [abbreviazione di Joan de Sales La Terriere (1889-1968), famosa cavallerizza irlandese. N.d.T.], gli disse che le due Sheela di Kiltinan “rappresentavano un’antica dea della fertilità e che le donne sterili erano solite raschiare la pietra nel cortile della chiesa per ottenere un po’ della sua polvere curativa”. O’Connor si sentì gratificato quando il padre gli confermò tale spiegazione.

Un altro resoconto contemporaneo della credenza nel potere generativo delle Sheela è stato documentato nel 2012 dalla ricercatrice Sonya Ines Ocampo-Gooding. Durante le sue ricerche, ha raccolto brani tratti da racconti orali e dagli scritti dell’autore P. J. Curtis, cresciuto nei paraggi della Sheela na gig della chiesa di Killinaboy, contea di Clare, i cui antenati sono sepolti nel cimitero della chiesa sin dal XVII secolo, proprio accanto al lato destro della porta su cui si mostra la Sheela. Così racconta di alcune delle usanze locali: 

Le donne infertili venivano a rivolgerLe delle preghiere, di solito nel cuore della notte, per sfuggire all’attenzione della gente e in particolare dei preti … Sin da quando abbiamo memoria, le donne senza figli che desideravano avere un figlio o una figlia venivano qui e chiedevano direttamente alla Sheela di aiutarle. Per prima cosa le si inchinavano davanti. Poi dovevano camminare attorno alla chiesa per sette volte, per poi cadere in ginocchio davanti alla Sheela implorandola di rispondere alle preghiere … Alcune lasciavano piccole offerte, come facevano presso i pozzi sacri – monete, medaglie, cimeli, o altri oggetti del genere… Ma so anche di molte donne che, dopo aver avuto dieci o più figli, venivano a pregarla e a supplicarla di renderle sterili! 

Nel suo libro recente, Sheela-na-gigs: Unravelling an Enigma, la studiosa Barbara Freitag sostiene che la funzione centrale delle Sheela era il loro ruolo di “divinità popolari responsabili delle nascite”. Oltre alla loro assistenza durante il parto, la Freitag scrive che le Sheela garantivano “la fertilità negli esseri umani, negli animali e nelle piante coltivate”. I poteri vivificanti della vulva assicuravano che la natura avrebbe continuato a dare frutti. La Freitag riporta anche gli alti tassi di mortalità di madri e infanti durante gli orribili secoli del Medioevo, e sostiene che tale situazione generò un urgente bisogno di interventi magici per sopravvivere. Per dar più peso alla sua ipotesi riguardo a questa necessità di mediazioni sovrannaturali, la Freitag mette in evidenza la mancanza di formazione medica delle levatrici medievali. E tuttavia appare poco convincente che, dopo millenni di assistenza alle partorienti, le levatrici non avessero accumulato le conoscenze necessarie riguardo le tecniche e le erbe medicinali utili a favorire il travaglio.

Nella visione della Freitag, nel momento del bisogno le donne medievali prossime al parto facevano affidamento sulla credenza nelle magiche energie delle Sheela. Attraverso il gesto rituale dello sfregamento di quelle vulve di pietra, le donne credevano di potersi assicurare l’assistenza divina necessaria ad aiutarle ad affrontare i dolori delle doglie. Altre usanze popolari testimoniano tale credenza, come nel summenzionato esempio riportato da Edith Guest, dell’uso della Sheela del castello di Widenham come strumento per agevolare il parto. Dunque, come divinità popolari, le Sheela svolgono due funzioni separate: assicurare la fertilità e favorire un parto senza problemi. La Freitag non spiega esattamente in che modo lo sfregamento della vulva di una Sheela possa tradursi nel processo del parto. La maggior parte delle Sheela non sono portatili, in quanto si trovano inserite all’interno di strutture murarie; molte sono ubicate sulle mura di castelli ad altezze impossibili da raggiungere senza l’aiuto di una scala. Prima del travaglio del parto, le donne in dolce attesa toccavano solo quelle vulve di pietra che erano a portata delle loro mani? Se è facile immaginare che alcune Sheela venissero usate a questo scopo, era questo il loro scopo originario? Oppure era un utilizzo derivato dai molteplici poteri dell’esibizione sacra, sviluppatosi nel tempo, quando le donne notarono qualcosa di antico e familiare nelle figure delle Sheela? La Freitag suggerisce anche un’insolita cronologia, secondo la quale le pietre in origine sarebbero state scolpite per essere usate durante il parto e conservate in luoghi speciali o da “determinate donne anziane”, e solo in un secondo momento sarebbero state intenzionalmente inserite dal clero nelle mura di edifici, ad altezze irraggiungibili, proprio per sopprimere tali pratiche.

La Freitag esamina anche l’aspetto esteriore delle Sheela, mettendo in evidenza la loro postura accovacciata, una posizione per partorire consacrata dal tempo. Ovviamente, la caratteristica essenziale delle Sheela è l’esibizione dei genitali e l’aspetto della vulva turgida (il portale della nascita) poteva certamente indicare il processo fisiologico del parto. La Freitag sostiene anche che molte figure, come le Sheela di Oaksey (Figura 4.18), Ballinderry, Ballyportry, Bunratty e Killinaboy potrebbero avere un sacco amniotico che penzola tra le loro gambe.

Ma non si può parlare della fertilità di una Sheela ignorando il resto del corpo. Non possiamo descrivere solamente le tumide grandi labbra senza fare riferimento alla parte superiore del corpo che spesso incarna la sterilità della vecchiaia – costole scarne, seni rinsecchiti (non mammelle piene di latte) e un’espressione minacciosa sul viso. Tutta l’immagine della Sheela incarna la congiunzione di inizio e fine. Nello stato liminale della nascita, la morte è sempre una possibilità. Nelle aree rurali, gli abitanti che coltivavano prodotti agricoli e allevavano animali vivevano all’interno della grande ruota della natura; erano in stretti rapporti con i cicli di nascita, morte e rinnovamento. Anche se la Freitag non arriva mai a definire le Sheela come dee, chiamandole solamente divinità o idoli popolari usati per favorire la fertilità, riconosce l’esistenza millenaria sul suolo europeo della venerazione del femminino divino (anche se, per caratterizzare questo tipo di venerazione, utilizza ancora il termine peggiorativo culto).

Qualunque osservatore delle Sheela può facilmente notare la presenza di simboli di vita e di morte nel loro aspetto esteriore. Ogni Sheela può rappresentare la fertilità ma anche molto di più. Come Dea Oscura della morte e della rigenerazione (maggiori informazioni a riguardo nel Capitolo 6), la sua vulva sovrannaturale simboleggia un luogo di entrata (sesso), uscita (nascita) e ritorno (la sepoltura dei morti come figli nel ventre di Madre Terra per rinascere in un’altra stagione). Il legame della Sheela con il regno degli antenati viene forgiato dal suo potere di creare nuova vita. È chiaramente un’immagine polivalente con molte funzioni possibili; sull’estensione e sul campo d’azione dei suoi poteri non si può dire nessuna parola definitiva. 

[…]


La scomparsa delle Sheela 

Il mistero delle Sheela na gig medievali non riguarda tanto la loro esistenza, ma il fatto che vennero create proprio quando le ultime vestigia dell’Antica Religione stavano per essere completamente distrutte. Ma l’energia che permea le loro immagini non poteva essere eradicata del tutto, e così le Sheela non solo continuarono a esistere nel bel mezzo della misogina Europa cattolica, ma adottarono una nuova forma sorprendentemente audace. Lontanissima dal remissivo ideale angelico della Vergine Maria, la Sheela è una figura aggressiva e sessuale, proprio come le dee e le eroine delle leggende celtiche. Non chiede il permesso di esistere. 

La Sheela na gig è una figura molto antica: una sua datazione precisa è spesso impossibile, e le ipotesi riguardo le sue origini sono svariate, complicate e, a volte, elusive. L’immagine della femmina esibizionista come elemento decorativo della scultura romanica del XII secolo si accorda bene, dal punto di vista stilistico, con i suoi compagni scolpiti sulle mensole degli edifici del Nord Europa. Cosa passava per le menti di coloro che scolpirono tali immagini? Le Sheela emersero spontaneamente da un’oscura memoria inconscia di un mondo più antico, da un incubo di qualche scalpellino particolarmente creativo, o forse dal desiderio di emancipazione da una chiesa repressiva che condannava gli istinti corporei? Oppure, più probabilmente, per creare le Sheela na gig gli scalpellini irlandesi trassero ispirazione dagli antichi miti celtici e dalla tradizionale arte scultorea in pietra, come anche dal culto della Dea profondamente radicato nella loro terra natia da migliaia di anni?

Per più di cinque secoli, le Sheela apparvero come figure preminenti sulle mura delle chiese e delle case-torri, specialmente in Irlanda, diventando sempre più potenti fino al XVII secolo. Sfortunatamente, la disintegrazione dello stile di vita celtico ebbe inizio con un’altra invasione dell’Irlanda, questa volta da parte delle truppe inglesi di Elisabetta I verso la fine del XVI secolo [la cosiddetta Riconquista Tudor dell’Irlanda, N.d.T.], e venne esacerbata dall’implementazione di un codice penale estremamente repressivo contro i cattolici irlandesi sotto il governo degli Stuart. Dopodiché scoppiò la brutale guerra contro gli Irlandesi guidata da Oliver Cromwell nel 1649, che segnò la fine dell’Irlanda gaelica. Un altro fattore in questo processo di annientamento della cultura autoctona fu la cosiddetta Colonizzazione dell’Ulster iniziata nel 1609, ossia un’immigrazione progettata e promossa da Giacomo I d’Inghilterra di decine di migliaia di protestanti scozzesi e inglesi nella provincia settentrionale irlandese dell’Ulster. Questo insediamento forzato non solo usurpò le terre dei nativi irlandesi, ma li privò anche della loro antica cultura. La studiosa Maureen Concannon crede che questo sia il motivo per cui ci sono così poche figure di Sheela nell’Irlanda del Nord. Potrebbero essere state quasi tutte distrutte dal fanatismo religioso dei colonizzatori protestanti intenzionati ad annientare la cultura celtica, la nobiltà irlandese e quelle figure che rappresentavano un simbolo del loro diritto di sovranità sulla terra natia. Infine, a causa della marea crescente di puritanesimo in tutta Europa, e la conseguente Controriforma della Chiesa cattolica, l’immagine della Sheela perse il potere del consenso ufficiale, e anche questo contribuì alla fine della sua era. 

Con l’inizio della Riforma, le antiche tradizioni irlandesi furono attaccate dal clero, e venne lanciata una drastica campagna per rimuovere dalla vista le immagini delle Sheela – in realtà per seppellirle o distruggerle del tutto. Dopo la Riforma, la Chiesa si sentì abbastanza potente da decidere di eliminare del tutto un’immagine che aveva tollerato per secoli. Barbara Freitag avanza l’argomentazione convincente secondo cui la Chiesa cristiana aveva permesso l’esistenza di queste figure pagane, certamente non cristiane, come strategia per assoggettare e controllare le genti di campagna. Le Sheela facevano parte di una religione popolare “troppo importante e intimamente legata al benessere delle comunità contadine per poter essere spregiata dalla Chiesa cristiana”. La Chiesa aveva tollerato le usanze tradizionali degli abitanti delle campagne per invogliarli ad andare a messa, fino al momento in cui le mutevoli condizioni sociali che portarono alla Controriforma le permisero finalmente di agire contro le Sheela. Inoltre, non può essere un caso che, nel XVII secolo, anche le levatrici, che da secoli si tramandavano le antiche conoscenze pagane e che erano spesso associate alle Sheela, vennero gradualmente sostituite dalla crescente classe medica maschile. I dottori colsero l’opportunità di assumere il controllo delle pratiche ostetriche per “spodestare le levatrici”, che rappresentavano i loro principali concorrenti commerciali; in diverse parti d’Europa, “un gran numero di queste levatrici” vennero accusate e denunciate per stregoneria. 

La distruzione delle Sheela ebbe seriamente inizio nel XVII secolo. Sfortunatamente, il più antico riferimento scritto alle Sheela è uno statuto ecclesiastico scritto a Tuam, contea di Galway, nel 1631, che ordinava ai “parroci di nascondere e di registrare dove sono nascoste quelle che, nella velata oscurità della lingua latina, vengono descritte come imagines obesae et aspectui ingratae, mentre sono localmente chiamate ‘sheela-na-gigs’”. Nel 1676, un regolamento della diocesi irlandese di Ossory ordinava la distruzione con il fuoco delle Sheela-na-gig; in quell’anno, il vescovo Brehan di Waterford, in Irlanda, diede lo stesso ordine di distruggere con il fuoco quelle immagini. Queste ordinanze richiamano alla mente lo scempio compiuto nel XVIII secolo da alcuni esaltati puritani che misero in atto un elaborato processo di riscaldamento e raffreddamento dei megaliti del grande circolo di pietre di Avebury per spaccare i massi e riutilizzarli come materiale edile; oppure, in anni più recenti, la distruzione da parte dei Talebani degli antichi Buddha giganti scolpiti nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan. Alcune Sheela sopravvivono ancora oggi nelle loro ubicazioni originarie, ma presentano i gravi segni delle mutilazioni che fecero a pezzi la parte inferiore del loro corpo, come le Sheela di Ballyvourney (Figura 3.11), di Bilton (Figura 9.8), di Killinaboy (Figura 8.1) e di Taghmon (Figura 3.1). La Sheela di Llandrindod (Figura 9.11), trovata nel 1894, si salvò essendo stata scolpita a testa in giù nel muro settentrionale della chiesa locale. Molte altre, come la Sheela tatuata di Clonbulloge, contea di Offaly, sono state recuperate dai fiumi in cui erano state gettate. 

La distruzione delle Sheela è continuata per qualche secolo, fino ad arrivare ai nostri giorni. Nel novembre del 2004, la Sheela di Buncton, nel Sussex, ubicata sul lato sinistro dell’arco del presbiterio della All Saint Chapel, venne distrutta da alcuni vandali che le deturparono il volto con uno scalpello e poi ridussero in polvere i frammenti – una perdita incommensurabile. Ciononostante, in quel villaggio sopravvive ancora la tradizione pagana secondo cui i novelli sposi devono salire su una piccola scala a libretto e carezzare la vulva della Sheela di Buncton per avere molti figli; la vulva appare consunta da secoli di carezze da parte dei devoti. 

Malgrado i secoli di repressioni, le tradizioni di lunga data che ancora esistono nelle campagne ci rivelano la persistente fede nel potere della Sheela. Probabilmente, è stata proprio questa radicata credenza ad assicurare la sopravvivenza di molte sue raffigurazioni. Nel 1781, quando la Sheela di Binstead, Holy Cross Church, Isola di Wight, venne rimossa dalla sua posizione di guardiana sopra la chiave di volta della porta settentrionale della chiesa, gli abitanti del luogo rimasero così contrariati che ne chiesero immediatamente il ripristino, a dimostrazione che quella Sheela aveva un posto nell’immaginazione popolare e la sua rimozione venne considerata come una “violazione di antiche usanze”. 

Forse alcune furono nascoste da persone che non volevano seppellirle, ma salvarle dal furore distruttivo dei cristiani. Ancora oggi continuano a essere scoperte nuove figure nei luoghi in cui sono rimaste nascoste per secoli. Una scoperta piuttosto recente è avvenuta all’inizio degli anni ’80 durante uno scavo archeologico all’interno del castello di Glanworth, contea di Cork. Sotto un pavimento ricoperto di detriti c’era una botola che nascondeva una camera sotterranea a volta. Lì dentro è stata scoperta una Sheela con spalle larghe che, molto probabilmente, vi era stata nascosta nel XVII secolo, durante i travagliati anni delle persecuzioni.

Anche se in Irlanda sopravvivono ancora più di centoventi Sheela, molte delle quali salvatesi grazie alla loro posizione elevata sulle mura di castelli, è impossibile sapere con esattezza quante adornassero un tempo gli edifici sacri prima dell’inizio di quelle cacce alle “streghe di pietra”. Le direttive ecclesiastiche che ne ordinarono la distruzione sono esse stesse testimonianze che “molto tempo fa potrebbero esserci state molte più Sheela di quante ne possiamo vedere oggi”. Quante sono le Sheela che devono ancora essere tirate fuori dai loro nascondigli? 

Possiamo essere grati per tutto ciò che è giunto fino ai nostri giorni, che in questo mondo esistono ancora Sheela che ci affascinano con la loro insolita bellezza, e ci rivelano quello che le nostre antenate/i consideravano sacro. Come qualunque altra immagine vivente, anche la particolare forma della Sheela venne modellata dai bisogni estetici dell’epoca, ma le forme cambiano con il passare del tempo, e anche l’epoca della Sheela è passata. Eppure, l’energia che anima la sua immagine permane ancora oggi. La Sheela è un’antinomia visiva delle forze di distruzione e creazione, una strega che offre la sua vulva sempre rigenerativa, una manifestazione della Dea Oscura con il potere di ridare la vita. Molte dee del genere l’hanno preceduta; altre la seguiranno. 

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