

Peggio del «Guai ai vinti» c’è solo «Guai ai vinti che si credono vincitori», soprattutto quando questi credono che la vittoria sia giunta sotto forma di “liberazione” portata da benefattori esterni, armati tanto di buona volontà quanto di armi vere e proprie.
Se la conquista militare viene concepita come liberazione o vittoria già si è perso il contatto con la realtà, condannandosi così ad avere una visione distorta di se stessi e del mondo; un’alterazione della coscienza che non indica soltanto un decadimento delle facoltà intellettive ma, a un livello più profondo, mostra che già un cambiamento di stato è avvenuto e che forme mentali servili hanno preso il posto di quelle dell’autodeterminazione. Riflesso questo di una condizione ben nota fin dai tempi antichi, secondo la quale l’uomo libero caduto in una condizione servile non è più la persona di prima, avendo perso una parte della propria natura umana (le prerogative della libertà essendo solo un aspetto, un riflesso dell’essere libero): una persona, dopo aver persa la libertà, sarebbe privata dal dio di metà del suo valore, non come punizione, ma come adeguamento al suo nuovo stato.(1) Il termine “valore” non è da intendersi ovviamente in senso economico, ma qualitativo, essendo l’aretè soprattutto la dote caratteristica, l’eccellenza, il pregio, la capacità che definisce qualcuno o qualcosa. Non avendo più la sua aretè originaria quindi, il libero decaduto avrebbe perso anche le sue capacità peculiari, distintive della sua umanità, prima fra tutte la mente, la facoltà di discernimento, di decisione e scelta.
Attualmente ci troviamo in questa situazione, con una servitù di fatto in cui si ragiona in base a principi che si rifanno ancora a una libertà non più posseduta: uno stato oggettivamente penoso, in cui la sudditanza non viene quasi percepita e si confonde spesso con l’adesione volontaria ai dettami del conquistatore, visti non come imposizioni ma come principi fondamentali. In tale situazione ci si potrà domandare quale significato abbiano ancora tutti quei concetti ordinatori della vita associata che danno forma all’attività cosiddetta politica. La libera discussione, la possibilità di scelta, l’azione comune orientata verso scopi condivisi non sembrano più essere possibilità praticabili; ora ci sono solo chiacchiere inutili, moti disarticolati e senza senso, il nulla di chi nulla può fare mentre tutto promette, su tutto disquisisce, pontifica, minaccia. Ottenebramento mentale e paralisi di ogni facoltà che valga veramente qualcosa. L’immagine patetica del servo che si crede padrone. La polis è morta. La vita civile non può più sussistere.
Per Aristotele una città composta da soli schiavi non sarebbe una vera città, ma solo un aggregato di individui incapaci di scegliersi una modalità di vita che andasse oltre quella della semplice sopravvivenza.(2) La vera vita politica necessita invece di individui liberi e dotati di tutte le migliori qualità, prima fra tutte il senno: chi ne è privo non può governarsi, non avendo né le capacità né il potere per farlo. Le plebi, presunte sovrane di loro stesse, ancora si affannano e discutono di poteri che non hanno, rappresentanti che non li rappresentano e un futuro che non appartiene loro. Ma ovviamente il Potere vero esiste ancora e continua a esercitare la sua influenza, anche se da luoghi non più percepibili. L’irrealtà in cui vive chi si crede liberato pone tutto su piani differenti. Il “popolo sovrano” non conta nulla e, pur oscuramente avendone sospetto, non riesce a trarne le dovute conseguenze. Se si riuscisse ad uscire dallo stato di irrealtà la situazione diventerebbe più chiara, non meno opprimente ma almeno più concreta e soprattutto comprensibile. Un rientro nella storia, un’uscita dall’illusione sognante. Contatto con una dimensione che, pur nella sua durezza, avrebbe almeno il pregio di essere coerente con la realtà delle cose. Realtà servile, in cui è assente ogni possibilità di autodeterminazione, dove nulla si può costruire in autonomia, su nulla decidere, su nulla agire. Uno stato di minorità la cui avanguardia è proprio la politica, attività ormai senza alcun senso, movimento di ingranaggi che girano a vuoto consumando energia e rischiando di schiacciare gli sprovveduti che le si avvicinano troppo. Totale rumorosa impotenza che danneggia tutto ciò che non riesce a corrompere.
A questo punto, per tentare almeno l’uscita da questo stato, sarebbe necessaria come prima cosa una presa di coscienza. Il fatto di mettersi “nelle mani” di altri rappresenta soltanto un atto di pura e semplice sottomissione. Gli uomini liberi si impongono, determinano per quanto possibile la loro sorte e decidono quale cammino esistenziale intraprendere. Si impegnano con fierezza sia nell’affermazione della loro persona che in quella della polis, che è comunità di liberi che riconoscono solo i loro pari: individui che costituiscono e gestiscono il potere, difendendo la disciplina e l’ordine sociale, opponendosi a ogni tipo di influenza esteriore. Tutto questo attualmente non esiste più, e ogni discorso di tipo politico quindi semplicemente non ha valore. Niente libertà, niente sovranità, nessuna possibilità di determinare il proprio destino.
Suddito dell’apparato che lui stesso contribuisce a mantenere in vita, il “cittadino” del presente, se non vuole continuare a essere sfruttato per un tempo indefinito ha dinanzi a sé due possibilità: o rinegozia la propria condizione in una forma per cui il suo stato servile viene ufficialmente riconosciuto e poi tutelato e accompagnato da una serie di autentici diritti – caso raro ma di cui esistono precedenti storici(3) – oppure riconquista la propria libertà combattendo, rimettendo cioè in discussione tutto l’assetto del potere attualmente vigente, cercando di invertire il processo di regressione che lo ha portato alla servitù, in questo caso mettendo a rischio non solo la tranquilla quiete quotidiana ma anche la propria stessa esistenza. In caso contrario ci sarà solo inerzia, vita vegetativa che continuerà uguale a se stessa fino all’esaurimento definitivo.
Il vero cittadino, cioè il polites, concorre alla vita comune in tutte le sue forme, e quando occorre diventa oplites, soldato che difende insieme alla città anche l’insieme di valori che la costituisce. La sua dimensione esistenziale essendo totale, non può ignorare il dovere, inteso come componente imprescindibile del suo essere, parte fondamentale della sua identità. Se non facesse questo sarebbe solo un idiotes, individuo che cura l’idion, i suoi affari personali, disinteressandosi del mondo che lo circonda, credendo di essergli estraneo, ignorando invece di esserne totalmente coinvolto.
Queste sono le posizioni, e nessun compromesso è possibile, così come ogni altra pretesa derivante da quella dimensione dell’irrealtà che dovrebbe essere abbandonata ma che ancora costituisce per molti l’unico sistema di valori di riferimento. Se non avverrà una significativa presa di coscienza nessun cambiamento sarà possibile, permanendo con l’illusione anche il servaggio, condizione innaturale che mentre promette un benessere e una tranquillità sempre incerti e lontani, sicuramente esclude da quella dimensione di libertà e dignità che un tempo si possedette e che ora, pur essendo perduta, è ancora possibile recuperare.
Renzo Giorgetti
1 “Il giorno che ha perso la libertà, Zeus l’ha privato di metà del valore”. Odissea XVII, 322.
2 Politica III, 1280a 31-34.
3 Secondo Posidonio (FGrH 87 F8) i Mariandini, popolazione della Bitinia, si sottomisero volontariamente con un contratto di servitù volontaria agli abitanti di Eraclea Pontica, in cambio del diritto a non essere venduti al di fuori della regione.
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