
Tempo fa mi era capitato di leggere che il miglior racconto di Lovecraft… in realtà l’ha scritto Borges.
A sostenerlo era lo studioso Roberto Barbolini in una vecchia – e, temo, oramai quasi dimenticata – antologia di suoi scritti dall’accattivante titolo di La chimera e il terrore. Saggi sul gotico, l’avventura e l’enigma. Vecchia e dimenticata ma non priva comunque di un certo interesse ancora oggi.
Credo che la boutade non sarebbe dispiaciuta allo stesso Borges, nonostante la sua – sincera o falsa che fosse – modestia: questi giochi letterari lo divertivano assai, come ben sanno i suoi lettori più attenti. Si può dire di più: lo scrittore argentino è stato perfino capace di riconoscere a posteriori come suo un apocrifo prologo scritto per sfruttarne l’immensa popolarità… Come racconta Jaime Correas in uno strano ma appassionante libro che è al tempo stesso un intrigante romanzo, un saggio erudito ed un omaggio alla poesia di Jorge Luis: Los falsificadores de Borges. Purtroppo inedito nella nostra lingua.
Ma tornando al racconto di “Lovecraft”, ecco, infine l’ho trovato. Appare in questa raccolta degli anni settanta che stiamo recensendo in questa sede: El libro de arena. Non sono in grado di confermare se sia davvero superiore a tutta la produzione del Solitario di Providence (devo confessare di aver frequentato poco e male l’opera di Lovecraft, ahimè) ma certo è un ottimo racconto, ben costruito ed estremamente efficace. E s’intitola, shakespearianamente, “There are more things“.
In questa raccolta però v’è molto, molto di più. Innanzi tutto, l’inquietante “fábula” che poi presta anche il titolo al volume: “El libro de arena”, appunto. Si tratta di uno dei migliori racconti in assoluto dell’argentino, alla pari con capolavori quali “La forma de la espada” o “El jardín de senderos que se bifurcan”. Una breve narrazione fantastica davvero difficile da dimenticare: “Esto no puede ser… No puede ser, pero es“.
Un’ulteriore perla è poi “Ulrica”, l’unico racconto d’amore mai pubblicato da Borges. Qualcosa di più di una semplice curiosità, insomma. Un racconto che è anche un bel ritratto di donna: “Una línea de William Blake habla de muchachas de suave plata o de furioso oro, pero en Ulrica estaban el oro y la suavidad“.
Gli appassionati di “30 Coins” – la serie televisiva spagnola con Megan Montaner, trasmessa anche nel nostro paese – invece non faticheranno a riconoscere in “La Secta de los Treinta” una delle probabili fonti di questa fortunata fiction. È la storia di una possibile eresia, la pretesa trascrizione di un fantomatico manoscritto latino in cui si svelano le caratteristiche di una strana setta di adoratori di Giuda. Per l’argomento lo si può avvicinare a un altro racconto di Borges: “Tre versioni di Giuda”, pubblicato in “Finzioni”.
Ed ancora, “Utopia de un hombre que está cansado“. È un’originale ed angosciante distopia: il nostro mondo in un lontanissimo futuro in cui “la imprenta” è stata abolita in quanto rappresenta “uno de los peores males del hombre” e in cui “se discuten las ventajas y desventajas de un suicidio gradual o simultáneo de todos los hombres del mundo“. Pur nella sua brevità pare di comprendere che siamo più dalle parti di Il mondo nuovo di Aldous Huxley che da quelle di 1984 di George Orwell: l’impressione è che l’umanità si sia ridotta in tali condizioni più per corruzione che per costrizione. Per utilizzare le parole di Ray Bradbury in Fahrenheit 451: “non è stato il Governo a decidere; non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! ma la tecnologia, lo sfruttamento delle masse e la pressione delle minoranze hanno raggiunto lo scopo“. Rapida quanto necessaria parentesi: Fahrenheit 451, altro grande capolavoro della letteratura distopica, certo non inferiore al classico orwelliano, ma fin troppo spesso sottovalutato per uno sciocco pregiudizio intellettuale nei confronti degli scrittori di fantascienza.
In fondo, a parte qualche altra bella citazione sparsa su “la superstición de la democracia“ e la decadenza dell’Occidente, questo resta il racconto più “politico” del libro. Borges e la politica… argomento molto delicato, complesso, che ha portato a vari fraintendimenti, per usare un eufemismo.
L’argentino era in realtà un conservatore vecchio stile, di stampo britannico, estremo discendente di una nobile genealogia che idealmente si può far risalire fino a Edmund Burke. Per utilizzare le sue stesse parole, dal prologo di El informe de Brodie: “Mis convicciones en materia política son harto conocidas; me he afiliado al Partido Conservador, lo cual es una forma de escépticismo, y nadie me ha tildado de comunista, de nacionalista, de antisemita, de partidario de Hormiga Negra o de Rosas. Creo que con el tiempo mereceremos que no haya gobiernos. No he disimulado nunca mis opiniones, ni siquiera en los años arduos, pero no he permitido que interfieran en mi obra literaria, salvo cuando me urgió la exaltación de la Guerra de los Seis Días“.
Comprensibile quindi che guardasse con una certa diffidenza alle caratteristiche di massa dei moderni regimi e movimenti politici: nazionalsocialismo, comunismo, fascismo, nazionalismi vari, ma anche la stessa democrazia. Ed è chiaro che ai giorni nostri avrebbe guardato con sospetto – e giustamente, aggiungo io – anche alla pericolosa deriva totalitaria delle moderne democrazie occidentali e alle sue peggiori manifestazioni: la follia del politicamente corretto, la mafia del cosiddetto linguaggio inclusivo, le demagogiche crociate contro i fantasmi del patriarcato o della transfobia…
Se da una parte teniamo sempre presente lo spirito dell’epoca (gli anni sessanta e settanta del secolo scorso), e dall’altra invece le sue convinzioni “poco” democratiche, vi aggiungiamo pure qualche imprudente dichiarazione iniziale a favore della dittatura militare argentina (dichiarazione peraltro davvero discutibile), non deve pertanto sorprendere l’antipatia, se non proprio l’aperta ostilità, che gli dimostrò una parte almeno dell’intellighenzia progressista europea… Sentimenti che probabilmente gli costarono il Nobel. E che sono ben testimoniati da un gustoso aneddoto riportato da Alfredo Bryche Echenique (in un sagace articolo di cui abbiamo curato la traduzione per Il Pensiero Storico), che ricorda le parole di un professore francese di letteratura latinoamericana incontrato a Parigi: “Borges no es latinoamericano. No lo es porque en sus libros no hay terremotos, ni golpes de Estado, ni indios, ni hace calor, ni se muere de hambre nadie. Borges es un escritor francés de segunda clase porque escribe en español”. Nel frattempo, dalle nostre parti, Umberto Eco lo infilava come “cattivo” ne Il nome della rosa, nei panni di un odioso e fanatico monaco cieco di nome Jorge da Burgos…
Ma sono, queste, riflessioni che ci portano lontano e che meritano di essere adeguatamente sviluppate in un’altra occasione. Mentre il nostro attuale obiettivo, assai più modesto, è presentare ai lettori del Centro Studi La Runa il libro che lo stesso Borges considerava il proprio capolavoro. Certo, una presentazione sommaria la nostra: i racconti presenti nella raccolta sono tredici e in questa sede noi ne abbiamo ricordati giusto cinque o sei. Quelli che più ci hanno colpito, non necessariamente i migliori. Un semplice invito alla lettura di un’opera tanto raffinata quanto inimitabile, un’opera che – proprio come il libro di sabbia che dà il nome alla raccolta – si può leggere e rileggere, all’infinito…
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(Nota di servizio per chi non conosce la lingua spagnola: El libro de arena, come tutte le opere di Borges, è stato tradotto in italiano: l’edizione più recente e facilmente reperibile è quella pubblicata da Adelphi nel 2004 con la traduzione Ilide Carmignani).
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