Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

Depresión / Melancolía
Neurosis - Estrés
Ansiedad / Angustia
Miedos / Fobias
Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
Obsesiones Problemas Familiares y de Pareja e Hijos
Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
Cambio de Hábitos
Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

miércoles, 29 de octubre de 2025

Sulla precarietà del politico


Sulla precarietà del politico

 

Tra tutte le attività che, con più o meno approssimazione, possono essere chiamate mestieri, quella del politico è sicuramente la più precaria. Una precarietà che non è determinata, come si potrebbe credere, dagli umori di masse sempre volubili o dagli esiti di quelle pittoresche manifestazioni chiamate “elezioni”, ma piuttosto dalla capacità del mestierante politico di recitare sempre la parte assegnata, nel tentativo di compiacere quelli che sono i suoi veri datori di lavoro.

Il termine precario, come abbiamo visto (https://www.heliodromos.it/precarieta/) indica ciò che si basa su una preghiera, una supplica, cioè un qualcosa che sussiste solo fino a quando permane una volontà che lo sostiene: in ciò che è precario non basta solo la richiesta, ma è necessario altresì che questa venga accettata e che infine riesca a essere soddisfatta. Il filo teso tra la divinità e l’uomo, oppure, nel campo umano, tra patronus e cliens, è quindi piuttosto labile e può spezzarsi in qualsiasi momento, qualora venisse meno una delle variabili circostanze che reggono l’equilibrio. Da qui la precarietà come instabilità, incertezza, situazione che si basa su ciò che oggi esiste e domani potrebbe anche scomparire. Uno stato fondamentalmente infelice, che necessariamente porta a concentrarsi soprattutto sulla sopravvivenza, e quindi per nulla adatto né alla cura degli altri né tantomeno a quella occupazione di sommo ingegno e sacrificio che è il governo degli affari pubblici, occupazione che più di ogni altra necessita di equilibrio, indipendenza e fermezza al fine di governare secondo giustizia per il maggior bene comune.

I privilegi del sovrano hanno sempre avuto una finalità ben precisa: sottrarre la sua persona a tutte le incertezze e ai disagi della vita ordinaria per consentirgli una maggiore imparzialità e un maggior distacco dalle vicende strettamente mondane e potersi così dedicare con più agio al supremo compito del governo del suo popolo. Il ministerium, cioè l’officio, l’incarico, deve avere solide basi affinché incertezze, bisogni e necessità personali lo possano disturbare il meno possibile, non deviandolo da ciò che costituisce la sua ragione d’essere. La persona si sacrifica all’officium, la maschera deve essere deposta quando subentrano compiti superiori. Un simile compito, che potremmo definire sacerdotale(1), implica sia privilegi che sacrifici ma soprattutto una dedizione che non ha eguali tra le altre occupazioni. Il fatto che il politico debba essere un professionista e non un individuo “preso dal popolo” è cosa più che giusta, in quanto un compito così specialistico implica necessariamente un’educazione e una preparazione del tutto particolari, una vera e propria formazione in grado di preparare non solo tecnicamente ma anche moralmente e spiritualmente a rivestire la carica nel migliore dei modi. Questa è stata, nel suo intento più elevato, la finalità dell’ereditarietà del potere, sia tramite dinastie legate da vincoli di sangue sia tramite l’adozione degli imperatori in alcuni periodi della Roma antica, meccanismo in grado di garantire sia la stabilità nella successione sia l’addestramento del futuro regnante fin dalla più giovane età.

Colui che per estrazione e capacità è investito di una carica cui deve dedicare la propria esistenza, di fatto vive del suo mestiere-ministerium, attività che gli fornisce i mezzi per le necessità della vita quotidiana, ma è completamente diverso dal “professionista della politica”, colui il quale ha fatto di questa attività un lavoro come gli altri se non uno strumento per ottenere con meno fatica più benefici e favori. Le finalità sono invertite: il primo vive per governare, il secondo governa per (soprav)vivere.

L’aver fornito a elementi non qualificati l’accesso a posti di comando ha prodotto il duplice effetto di portare degli incompetenti in ruoli a loro non adatti, con danno alla collettività tutta, e di aver creato la più totale incertezza sull’assegnazione di ogni tipo di carica riguardante il mondo politico. Se “chiunque” può diventare “quello che vuole”, a prescindere dalle sue vere qualità, allora ogni carica potrà essere disponibile per tutti, a patto di saperla conquistare, non importa con quali mezzi. Non più la capacità, ma la forza, l’astuzia, la persuasione, il servilismo, tutto potrà servire per raggiungere il posto desiderato, l’incarico e i relativi privilegi. Di fatto l’apoteosi della precarietà. Il dipendere da circostanze esterne, da volontà altrui, da intrighi propri, dalla capacità di saper “pregare” le persone giuste, entrare nelle loro grazie, ripagare i favori ricevuti. Tutte doti che nulla hanno a che vedere con il reggere Stati, amministrare finanze, elaborare e far rispettare leggi giuste.

Una simile precarietà non potrà fare altro che ripercuotersi sul corpo sociale, che subirà un tale stato di disordine perdendo completamente la fiducia nella politica, accentuando così un distacco crescente nei confronti di un mondo che attualmente è già, nonostante la retorica democratica, completamente a se stante e distaccato dalla realtà. Viene così a crearsi una situazione per cui il popolo è rappresentato da rappresentanti che non lo rappresentano, che lo governano dall’alto senza avere con loro alcun vero contatto e che in nome di democrazia e uguaglianza lo vessano per mantenersi in uno stato di separazione e privilegio.

Il gestore del potere vive in una specie di bolla, di Paradiso Terrestre circondato da mura che gli garantisce una vita più agiata di quella del semplice cittadino, anche se forse con qualche incertezza in più, poiché da questo Paradiso rischia sempre di essere cacciato. Non a caso abbiamo utilizzato il termine “gestore”, in quanto il politico non ha in sé alcuna vera sovranità, non detenendo il Potere ma solo amministrandolo per conto di altri. Incarico quanto mai precario, basantesi su di una volontà che può venire meno in ogni momento, su precisi criteri che devono essere soddisfatti, su linee guida aziendali da seguire scrupolosamente. E la volontà reggente ovviamente non è quella della cosiddetta “volontà popolare”. Qui il discorso si complica, legandosi ai meccanismi della recitazione e della messa in scena, tra le ambiguità del rapporto volto-maschera e di una rappresentanza che deve essere rappresentazione senza mai rivelarsi come tale.

Il politico è l’interfaccia tra il vero Potere (che, come si sarà compreso, è quello economico) e un Potere non reale che vive nelle illusioni della “sovranità popolare” e del “processo elettorale”.

La commedia si svolge quindi in questa maniera: il politico sul palcoscenico recita una parte, che però è la parte di se stesso, simulando cioè quello che dovrebbe dire e fare realmente se non fosse costretto a recitare. Il suo successo in teoria dovrebbe dipendere dal pubblico, che però non conta nulla, in quanto le decisioni vere sono prese dai padroni del teatro. Chi recita bene la sua parte (cioè riesce a farsi credere “vero” dal pubblico) ha quindi garantito il posto di lavoro e può continuare nel ruolo, con tutti i benefici che ne conseguono. Lo spettacolo prosegue così a tempo indeterminato, con le decisioni che vengono prese altrove e il pubblico che crede di decidere ciò di cui è solo spettatore. Pubblico che, pur essendo passivo, però si illude di contare qualcosa, e quindi alza la voce, rumoreggia, litiga per difendere gli attori preferiti, i quali a loro volta, ben felici di suscitare simili reazioni, valutano il successo non nei termini dei risultati del loro governo ma della credibilità che sono riusciti a ottenere.

La recita ha infatti tutta l’ambiguità delle cose che si fingono vere, dovendo essere abbastanza credibile da convincere il pubblico senza mai costituire una minaccia per i datori di lavoro, e per di più senza mai scoprire l’inganno e rompere così l’incantamento della realtà simulata. In questa situazione paradossale l’importanza del pubblico c’è ancora, ma è diversa da quella che ci si aspetterebbe: non decreta il successo direttamente, scegliendo chi più incontra i suoi favori, ma è determinante solo nella misura in cui riesce a farsi ingannare, ovvero incaricando indirettamente con la sua credulità gli attori di essere i loro ingannatori ufficiali e autorizzati. Perché la recita può continuare solo se si realizza come minimo una di queste due condizioni: o gli attori sono convincenti, riuscendo a mantenere una certa credibilità, o il pubblico si lascia ingannare, non importa se per un suo difetto intellettivo o per il talento attoriale.

Come si potrà constatare siamo oltre il metateatro, in quanto non solo la finzione scenica rappresenta se stessa in quanto messa in scena, ma ormai tutto è diventato parte di una grande rappresentazione teatrale, una recita collettiva in cui immedesimazione e finzione si intrecciano in maniera quasi inestricabile. Una situazione di rara artificialità e labilità, che può interrompersi in qualsiasi momento e che appunto per questo spinge gli attori a una disperazione che assume spesso tratti farseschi. Voracità nel conquistarsi un ruolo, nel compiacere chi ha assegnato le parti senza però scontentare il pubblico, nel cercare di ingannare mentre si cerca di essere se stessi che recitano la parte di se stessi e si indossa una maschera che è uguale alla propria faccia.

Agitazione per ottenere il consenso di tutti, fame atavica di tutto, onori, applausi, cibo.

Ritorna il parasitus, tipica figura della commedia antica, personaggio che deve essere adulatore, compiacendo i potenti che gli offrono il pranzo, ma anche buffone, procurando allegria ai partecipanti del banchetto. Sullo sfondo la miseria della sua condizione, sempre dipendente dai favori altrui, con lo spettro incombente della fame, della povertà, di una caduta-ritorno nel mondo dei comuni mortali, realtà che atterrisce perché ricorda ciò che con grandi sforzi si era abbandonato con la speranza di non farvi più ritorno.

Totale inaffidabilità di chi dovrebbe ispirare fiducia e rispetto. Precarietà che diventa “patrimonio collettivo”, interessando ormai tutti, anche chi ha avuto successo nel ben governare la propria vita privata.

Situazione invero poco invidiabile che ci ricorda ancora una volta come nell’attuale degenerazione le categorie che sembrano più elevate non solo siano le più basse, ma anche portino in sé i segni di un’anomalia che è estranea a qualsiasi tipo di buon governo così come a ogni tipo di ordine regolare. Vero coronamento, trionfo di uno sfaldamento che nella sua totale confusione non riesce più a distinguere non solo il giusto dall’ingiusto ma anche ciò che è reale da ciò che ne è l’imitazione.

 

 

Renzo Giorgetti

 

[1]   Se il termine “laico” deriva da laòs (il popolo, i semplici soldati), è il termine kleros, la sorte, quello che indica, oltre a un bene materiale, anche un incarico più specifico, riguardante la direzione della massa del laòs. La sorte in questo caso non è intesa come casualità ma come assegnazione di un ruolo da parte delle forze imperscrutabili del fato (da questo punto di vista ci sono molte similitudini con la moira). Chi riveste una carica, chi ha un kleros, ha perciò il compito, ovvero il dovere, di guidare i “laici”, siano essi i fedeli di una religione, un esercito o un popolo.

 

- Enlace a artículo -

Más info en https://ift.tt/FMUY7f1 / Tfno. & WA 607725547 Centro MENADEL (Frasco Martín) Psicología Clínica y Tradicional en Mijas. #Menadel #Psicología #Clínica #Tradicional #MijasPueblo

*No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí compartidos. No todo es lo que parece.

No hay comentarios:

Publicar un comentario