Un saggio di Matteo Martini ripropone la vexata quaestio
Nietzsche è uno dei pensatori più letti di ogni tempo. A tale primato hanno contribuito fattori diversi: lo stile poetico-aforistico che connota la sua opera, la sua asistematicità, il tratto radicalmente inattuale delle sue tesi, nonché l’esemplare apoditticità delle stesse. Aspetti che, in modalità differente, hanno indotto letture a volte divergenti della sua filosofia. Il momento più discusso e problematico della proposta del pensatore di Röcken va individuato nei suoi rapporti con la politica. Matteo Martini, in un recente volume edito da Controcorrente, Friedrich Nietzsche e il nazionalsocialismo e altre questioni nietzscheane, ripropone la vexata quaestio dei legami tra il pensatore e il regime di Hitler (per ordini: controcorrente_na@alice.it, pp. 191, euro 18,00). Il volume è arricchito dalla prefazione di Francesco Ingravalle e dalla postfazione di Marina Simeone.
L’analisi dei testi è condotta dall’autore con metodo assai diverso da quello adottato da Giorgio Colli. Il grande antichista riteneva che l’esegesi del filosofo non potesse esser affrontata attraverso singole citazioni, in quanto ciò avrebbe indotto la “falsificazione” di un pensiero che, al contrario, ha tratto articolato, complesso, addirittura spiraliforme. Inoltre, Martini cita, per esplicita scelta, quasi esclusivamente testi scritti da Nietzsche negli ultimi anni, in particolare tratti dalla Volontà di potenza. Tale metodo lo sollecita a sostenere che: «Nietzsche ha inequivocabilmente preparato le basi filosofico-etico-culturali sulle quali il nazionalsocialismo […] avrebbe proliferato» (p. 30). L’affermazione può essere vera nello stesso senso in cui lo è sostenere che la Rivoluzione conservatrice ha preparato l’humus esistenziale-politico che permise ad Hitler di affermarsi nella società tedesca del tempo. Il problema è che, per chi scrive, il nazionalsocialismo ha realizzato il tradimento, tanto delle idealità nietzscheane, quanto di quelle Rivoluzionario-conservatrici (molti, tra i Rivoluzionari conservatori, durante il regime, vissero ai margini, appartati, o all’estero). Non si può sostenere, pertanto, una derivazione diretta del programma nazista di sterminio degli “indesiderati” e dei diversi da aforismi decontestualizzati di Nietzsche, di cui, peraltro, Martini, riconosce il tratto umano gentile e cortese.
Al contrario, da queste pagine emerge, giustamente, come il richiamo ai valori aristocratici nel filosofo non faccia riferimento a: «requisiti di tipo razziale» (p. 31), nonostante una certa ambiguità di giudizio caratterizzi alcuni frammenti riferentesi agli ebrei. Nietzsche: «a volte ha per loro parole di elogio, altre volte di disprezzo, anche se non accenna mai a qualcosa che possa anche solo assomigliare a un’esortazione all’eliminazione sistematica del popolo ebraico» (p. 33). Il pensatore, rileva l’autore, era totalmente alieno dagli ideali del nazionalismo tedesco e ciò, tra altre cose, aveva provocato la rottura dei suoi rapporti con Wagner. Per il filosofo, la decadenza greca ed europea era stata preparata dal primato attribuito da Socrate al concetto, che aveva contribuito a oscurare la concezione tragica della vita propria degli Elleni arcaici. Con il “socratismo” si aprì la corsa al sovramondo, al teleologismo, ai dualismi essenza/esistenza, essere/nulla, che troverà il suo momento apicale nella visione cristiana. “La morte di Dio” in Nietzsche ha il senso di una constatazione di fatto di una realtà storico-spirituale in atto, che riguarda tanto il suo, quanto il nostro tempo, che non coincide, si badi, con una sua presa di posizione ateistica, come ci pare ritenere l’autore. Uno degli interpreti che egli cita, Eugen Fink, ben sapeva che la costruzione del pensatore era centrata su uno sforzo “teologico”, certamente non cristiano, avente al centro il recupero della sacralità della physis, luogo dell’origine sorgiva a cui tutto fa ritorno.
Martini ha certamente ragione nel sostenere che Hitler non incarnò l’ideale dell’ “oltreuomo”, ma cercò di riproporre, senza riuscirvi e distocendola tragicamente, un’altra figura creata dal Nietzsche, quella dell’“uomo grande”, del dominatore (principi del Rinascimento, Napoleone). “Oltreuomo” è colui che accetta la tragicità del mondo e la nobilita attraverso la creazione di nuove tavole di valori. “Nuovi valori” centrati su menzogne “anagogiche”, non su menzogne “catagogiche” (il sovramondo e Dio), produttrici di decadenza. Egli è profeta di una futuro di là da venire (non incarnato dal nazismo, che semmai, come riconosciuto da de Benoist, con il motto: “Un Capo, un Popolo, un Impero”, faceva evincere la propria vocazione monoteistica, altro che pagana!): egli sapeva di essere “dinamite” perché aveva contezza che il suo annuncio epocale avrebbe sconvolto la vita dell’“ultimo uomo”, non certo in quanto profeta dei drammi del Secondo conflitto mondiale!
La parte che ci è parsa più interessante del volume è la terza, in cui Martini affronta l’interesse del filosofo per il “quotidiano”, l’“umano”. In realtà, tale interesse è legato al fatto che Nietzsche, come i Greci, ha in vista la nuda vita. Il suo guardare al corpo, all’alimentazione, al clima sono testimonianza del fatto che egli aveva contezza che tutto ciò che è vivo è “animato”, che non esiste alcun dualismo anima/corpo. Martini pare intuirlo quando scrive: «per un motivo che non è facile spiegare […] in questa filosofia, nonostante sia caratterizzata da un materialismo sfrenato, ci sia (c’è) qualcosa di spirituale, una sorta di “materialismo raffinato”» (p. 120). No, nessun “materialismo”, in Grecia il corpo era sacro in quanto espressione della dynamis, possibilità-potenza che lo animava e che anima per Nietzsche tutto ciò che è. Proprio in quanto possibile, la dynamis non ha alcunché di provvidenziale, come vorrebbe l’autore (l’“affidarsi” alla Volontà di potenza). Il filosofo di Röcken rappresenta l’ultimo anello della dissoluzione dell’hegelismo. In tale sequela di pensatori ci sono molti nomi che contribuirono, più di Nietzsche, alla definizione della cultura politica nazionalsocialista. A Nietzsche, al più, si potrebbe imputare di non esser giunto a un effettivo recupero della physis greca. Lo mostrano le ambiguità della dottrina dell’eterno ritorno dell’identico (rilevate, correttamente, anche da Martini), pensata attraverso la categoria metafisica per eccellenza, il principio d’identità. Tale limite fu colto da Klages che lo corresse parlando dell’eterno ritorno del simile, vigente in natura e nella storia.
Con Klages, il lascito nietzscheano e la stessa volontà di potenza, possono venir lette e vissute oltre l’onto-teo-logia di cui il pensatore, a dire di Heidegger, è stato l’ultimo interprete. In tal caso, la filosofia immaginale di Nietzsche potrebbe dar luogo a un Nuovo Inizio della civiltà d’Europa.
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