È possibile svincolare Lucifero dall’immagine prometeica? Partendo da Demetra e i Misteri Eleusini, ci avvicineremo alla vera natura di Prometeo e anche a quella di Lucifero, guidati dalla domanda: e se il legame tra i due fosse un’eredità lasciataci da Milton con il suo Paradise Lost? Il percorso a ritroso nella mitologia greca giungerà fino a Ecate, la dea infera e luminosa, per scoprirne i legami e le parentele con il Lucifero ebraico-cristiano.
di Mariachiara Valentini
Noi oggi siamo talmente abituati a considerare il Lucifero della tradizione ebraico-cristiana come una figura prometeica al punto da aver smesso da tempo di indagare se questo sia l’unico modo possibile di concepirlo.
Un’eredità, questa, che trova indubbiamente le sue radici nel Paradise Lost di Milton (1608-1674), il quale ci presenta Lucifero come un ribelle, un “anti-Dio” – come lo definì Kerényi nel secolo scorso – che sfida l’ordinamento precostituito e si rifiuta di sottomettersi ad esso. Quando pensiamo al Titano Prometeo, infatti, la prima cosa che ci viene in mente è la sua sfida all’ordinamento olimpico di Zeus, un atto che da una parte segna la ribellione nei confronti delle leggi olimpiche e dall’altra lega indissolubilmente Prometeo all’umanità.
Ma chi era, esattamente, Prometeo? Kerényi (1897-1973) nel suo saggio Prometeo: il mitologema greco dell’esistenza umana ce lo introduce come una figura che ricorda “per analogia e per contrasto […] la concezione cristiana del Redentore”, in quanto da una parte il Titano sembra fare propria la causa degli uomini come nessun altro dio greco, e dall’altra si pone in netta opposizione al padre degli dèi venendo sottoposto per questa ragione a una atroce punizione. È a questa dicotomia che si rifà anche Goethe (1749-1832), che nella sua lirica Prometheus, tratteggia il Titano con modi più biblici-miltoniani che autenticamente greci: il Prometeo goethiano è infatti strettamente ancorato alla dicotomia biblica di mediazione miltoniana, e condensa nella sua personalità quei caratteri tipici del Satana/Prometeo romantico che si riducono a un “immortale prototipo dell’uomo quale il Ribelle simile agli dèi”. Un simile Prometeo non ha dunque nulla a che vedere con il Prometeo classico, che la tradizione greca ci informa essere figlio di Iapetos e della figlia di Okeanos Climene secondo Esiodo, di Iapetos e Chthon o Themis secondo Eschilo, e di Urano e una dea madre non meglio specificata secondo numerose altre tradizioni, con probabile riferimento a Gaia.
Prometheus, Jean DelvillePrometeo appartiene dunque alla generazione preolimpica: egli è più antico di Zeus, anzi è parte di quel mondo che Zeus stesso si preoccuperà di sovvertire. Ed è proprio a questo ordinamento arcaico che dobbiamo riferirci se vogliamo scoprire qualcosa in più non soltanto del Titano Prometeo, ma anche del Lucifero biblico. Già nella prima metà del Novecento tre studiosi hanno dimostrato come questo ordinamento si differenziasse da quello olimpico per un primo, fondamentale aspetto: esso si fondava su una femminilità primordiale nei confronti della quale l’elemento maschile aveva una funzione secondaria e, per certi versi, passiva. Grazie a Robert Graves, Walter F. Otto e Károly Kerényi apprendiamo che la divinità principale di quell’ordinamento arcaico era Demetra, attorno alla quale gravitava tutta la religione preomerica. È con Omero (e dunque, a seguire, con Esiodo) che si fa avanti con forza l’idea di un Olimpo a matrice prettamente maschile con Zeus a capo di tutti gli dèi, un pantheon in cui anche le divinità principali discendenti da Zeus hanno carattere maschile: Apollo, Hermes, e Atena.
Atena, infatti, è l’unica divinità femminile di maggiore importanza nella religione olimpica, ma è anche l’unica dea in cui è esplicitamente eliminato ogni riferimento alla sfera femminile: ella nasce dalla testa del padre e del padre rappresenta il senno, lo spirito, una qualità che per i Greci aveva carattere esclusivamente maschile. Ogni attributo femminile è totalmente escluso dalla sfera di Atena, la quale non soltanto è priva di madre ma è caratterizzata da un tipo di verginità diametralmente opposto a quello che vediamo, ad esempio, in Artemide. La verginità di Atena è quella sì di una guerriera, ma soprattutto quella di un’entità la cui essenza stessa è lo Spirito, e che trova il suo corrispettivo in suo fratello Apollo. Per utilizzare un concetto junghiano, possiamo dire che Atena rappresenta l’archetipo dell’Animus, in cui la femminilità è sì presente come cornice ma totalmente estraniata dal nucleo essenziale, e a dominare è sempre l’archetipo solare di natura maschile: il carattere di fanciulla di Atena esclude per sua stessa essenza la possibilità di cadere in preda ad un uomo, poiché ella rappresenta ciò che di più alto vi è nell’uomo stesso (e non a caso è proprio Atena a guidare e favorire Odisseo, l’uomo dal “multiforme ingegno”) e come tale si situa al di sopra della sfera della sessualità.
Il pantheon arcaico, al contrario, vede una assoluta preminenza del femminile primordiale su ogni carattere maschile, ed è dominato senza eccezione dalla dea Demetra, una dea che possiamo definire come essenzialmente lunare. È in Demetra che sta l’origine di tutte le cose, l’origine della vita e anche quella della morte, è essa che presiede all’ordinamento naturale del cosmo e alla ciclicità inerente ad esso.
Demetra è una dea madre altamente complessa: essa sussume, sotto di sé, la figura della madre e anche quella della figlia Persefone, con la quale sta in uno speciale rapporto di identità. Per comprendere questo passaggio apparentemente oscuro, dobbiamo volgere la nostra attenzione all’elemento principale del culto di Demetra: i Misteri. Possiamo definire i Misteri Eleusini come il più immediato insegnamento greco sull’essenza di Demetra. Fra le notizie certe sui Misteri Eleusini v’è in primo luogo quella secondo cui gli iniziati (donne e uomini) si identificavano con Demetra: l’iniziato entrava nella dea e agiva come la dea adirata e rattristata per la morte della figlia. Il cammino sino al tempio di Eleusi era una processione durante la quale i mystes, gli iniziati, procedevano portando delle fiaccole accese e dei fasci di mirto, una pianta legata al culto dei morti.
È anche probabile, secondo Kerényi, che durante la celebrazione si rievocasse il ratto di Persefone non raccontandolo – il racconto avrebbe significato una banalizzazione del mistero stesso – , ma attraverso una danza accompagnata da fiaccole. Eleusi era non soltanto il luogo in cui si riviveva il ratto di Kore e il suo successivo ritrovamento, ma anche – a fiaccole spente – il momento delle nozze violente di Demetra Brimo con Poseidone. Il nome Brimo significa una forza terrificante, rappresenta l’aspetto primordiale della dea in quanto Demetra-Persefone-Ecate in una sola persona. Il mitologema che annualmente si ripete a Eleusi è allora quello della madre adirata e addolorata (Demetra Brimo) che dà vita alla figlia ripartorita, che in Arcadia era chiamata Despoina. Lo ierofante di Eleusi non annuncia però la nascita di una Kore ma quella di un fanciullo divino, Brimos: segno che il fulcro dei misteri sta nel fatto che Demetra non fa che ripartorire eternamente se stessa. Ogni anno la parte di Brimos veniva affidata indifferentemente a un fanciullo o a una fanciulla; ciò indica allora che il carattere principale del fanciullo divino è l’androginia, non soltanto per una questione di identificazione da parte dei mystes, ma anche perché l’androginia del fanciullo divino è uno dei tratti ricorrenti nella mitologia greca – è esso stesso un mitologema, che ritroviamo ad esempio nella figura di Dioniso.
La suprema visione degli iniziati era quella in cui, in assoluto silenzio, veniva mostrata una spiga recisa: immagine del nascere nel morire e nel partorire, simbolo totale delle sorti di Demetra-Persefone. Il tema fondamentale dei Misteri Eleusini era infatti l’incessante sorgere della vita dalla morte, e la spiga costituiva la sintesi più immediata dell’aspetto-Demetra del mondo. L’iniziato rivedeva nella spiga e riviveva in se stesso quel destino superindividuale della ciclicità della vita e della morte, la perpetuità della vita nel seme del frumento. È proprio il frumento, infatti, a sottolineare e a rendere immediato ai Greci il significato cosmico della triplice Demetra.
Sappiamo dal mito che Persefone passa un terzo dell’anno negli inferi: una tripartizione, questa, che non va interpretata come una allegoria agricola, in quanto il frumento pertiene, come abbiamo visto, all’aspetto demetrico del mondo. La tripartizione dell’anno è una tripartizione di Demetra stessa in Demetra, Persefone ed Ecate: e infatti, stando a Kerényi, la luna, il frumento e il regno dei morti sono le tre caratteristiche fondamentali e inseparabili della sua figura. Persefone è però l’unico aspetto della triplice dea a divenire effettivamente sposa di una figura maschile, Ade: la violenza subita da Demetra ad opera di Poseidone rappresenta infatti la natura violenta e disturbante dell’elemento maschile. A caratterizzare in maniera precipua l’aspetto-Persefone del mondo è il situarsi della Kore a metà tra l’esistenza e la non-esistenza, il suo appartenere tanto al mondo dei vivi quanto a quello dei morti, l’essere una figura mediatrice tra la ciclicità della vita (Demetra) e il mondo totalmente infero (Ecate). Anche Ade si presenta come una figura indistinta, amorfa, la cui parte essenziale nel mito è il ratto di Persefone: a rappresentare nella sua totalità e complessità il mondo infero è sempre e solo la dea lunare Ecate accompagnata dai suoi cani.
Demetra non è soltanto colei che fonda i Misteri Eleusini. La dea è anche colei che, sotto il nome di Demetra Kabiria, porta i Misteri dei Kabiri a Prometeo, e a suo figlio Aitnaios. Secondo Pausania, infatti, la fondazione del santuario dei Kabiri presso Tebe si deve a uno degli abitanti di quella regione, originariamente popolata da uomini kabirici. Costui è proprio Prometeo, il cui figlio Aitnaios, “l’Etneo”, non può che essere Efesto, che la maggior parte della tradizione greca concorda nel considerarlo come il generatore dei Kabiri “Hephaistoi”, i celebri nani esperti nell’arte del fabbro e caratterizzati dall’attributo del martello. Come ha notato Kerényi, anche qui assistiamo a una identità originaria tra Kabiro-padre e Kabiro-figlio, tant’è che numerosi miti della tradizione greca attribuiscono ora a Prometeo e ora a Efesto le medesime azioni. Scopriamo così che Prometeo racchiude in sé tanto la natura del Titano quanto quella del Kabiro, le quali solo in apparenza possono considerarsi come opposte: entrambi, i Titani e i Kabiri, sono gravati da una colpevolezza mitologica.
I Kabiri sono divinità segrete, e i misteri a essi dedicati sono i primi di cui si fa menzione nella letteratura greca (nelle Storie di Erodoto): di essi non si sa molto, ma fra le poche certe notizie vi è quella della loro appartenenza alla cerchia di quelle divinità servitrici di dee a carattere pronunciatamente maschile (itifallico), come ad esempio i Dattili. Sappiamo anche dei Kabiri che erano considerati empi, proprio come i Titani, e che a essi si sacrificava un animale gravido, con molta probabilità una scrofa, come nel caso del culto di Demetra e dei Misteri Eleusini (e del culto gallese di Cerridwen, la dea-scrofa, un’altra forma della dea lunare Demetra, come ha mostrato Robert Graves in La Dea Bianca). L’essenza del kabirico sta nel rozzo e selvaggio elemento maschile, simboleggiato dal carattere nanico, che solo per mezzo di una femminilità superiore può essere elevato alla dignità di originatore di vita.
Skyphos con Kabiro, Pais, e altri personaggi, circa 410-400 a.C., TebeIn Prometeo, dunque, coesistono tanto il Titano quanto il Kabiro, ma se il carattere kabirico ne svela l’attaccamento alla terra, l’elemento titanico ci mostra Prometeo nella sua natura astrale. Il furto del fuoco denota in Prometeo una manchevolezza, una incompletezza: soltanto per mezzo di tale furto Prometeo ha la speranza di aspirare alla propria completezza, e questo oltre a farne una sorta di alter ego dell’umanità, che per essenza è imperfetta e manchevole, fa di Prometeo una figura oscura. Questa oscurità, che stiamo collegando al carattere astrale, è propria della natura lunare di Prometeo: egli è l’unico fra i Titani, esseri primordiali che erano già molto prima degli dèi e avevano il loro posto nel cielo in quanto figure di irruenta natura solare, a essere caratterizzato da una natura che pertiene alla sfera di Demetra-Persefone-Ecate. Questo perché Prometeo è sì un essere lunare, ma non luminoso, bensì oscuro: egli porta su di sé quella colpevolezza ed empietà propria e dei Kabiri e dei Titani, e in quanto tale trova la sua migliore espressione nella situazione della luna nuova, che va a costituirne, per così dire, il “posto cosmico”.
Ritorniamo così al nostro tema centrale, e comprendiamo che la figura di Prometeo è indissolubilmente legata a quella di Demetra e, per ciò stesso, a Ecate. Abbiamo gettato uno sguardo sull’oscurità di Prometeo, ma questa non è sufficiente a connetterlo saldamente con la figura di Lucifero. Oscuro, infatti, non significa ancora infero: tant’è che, ad esempio, un dio luminoso come Hermes ha un carattere infero strettamente ancorato alla propria essenza (si pensi all’Hermes Psicopompo), cosa che invece è totalmente estranea all’essenza di Prometeo. Se Prometeo non è sufficiente a fungere da “prototipo” del Satana biblico, è soltanto perché pur appartenendo egli alle divinità arcaiche non è ancora una divinità originaria, in quanto come abbiamo visto l’ordinamento primordiale si fonda sull’elemento femminile, sui vari aspetti della Dea Madre.
Inoltre, anche il filone interpretativo dei Padri della Chiesa i quali hanno assimilato la “Stella del Mattino”/Phosphoros-Lucifero al Satana biblico è decisamente fuorviante: il Phosphoros greco (e dunque il Lucifero latino), letteralmente “portatore di luce”, è nella tradizione greca sempre figlio di un Titano, Astraios (Astreo), occupando così nel pantheon primordiale una posizione ancora secondaria, non sufficiente a spiegare il posto che gli sarà riservato nella tradizione biblica. Curioso è però che, secondo Nonno di Panopoli, è proprio dal Titano Astreo che Demetra si reca per ricevere un responso oracolare sul destino della figlia Persefone.
Questo ci riporta ancora una volta alla triade Demetra-Persefone-Ecate, perché se vi è una divinità primordiale, originaria, che sta prima di Prometeo e Astreo in quanto Titani, prima della stesura dei testi biblici, questa è proprio Ecate, il cui attributo primario è, non a caso, “phosphora”, portatrice di luce.
Da questa prospettiva la nebbia che avvolge l’origine di Lucifero sembra dipanarsi: Ecate, infatti, è uno degli aspetti inferi di Demetra, anzi è l’aspetto più infero di Demetra, ancora più di Persefone. Ecate non soltanto è una dea lunare di per se stessa, ma lo è anche in funzione della sua relazione con Demetra. Nell’inno omerico a Demetra presente nell’Iliade, Demetra, Persefone ed Ecate formano una trinità strettamente connessa, a maggior ragione se notiamo che a tutte e tre le dee viene posta la fiaccola come attributo. In più luoghi della tradizione greca Ecate è semplicemente designata come portatrice di luce, e nel vastissimo mare di fonti che ci raccontano delle dee primordiali sia Demetra che Persefone vengono caratterizzate con tratti che le fanno apparire entrambe quali Ecate. Stando a Kerényi, infatti, i Greci hanno dato il nome Ecate a una dea “che riuniva nella sua figura rapporti con la luna, carattere demetrico e tratti della Kore”.
Uno dei segni precipui che dimostrano come Ecate appartenesse all’ordinamento divino primordiale è la sua essenza triforme, attestata già nella Teogonia di Esiodo, il quale la celebra come sovrana di tre sfere – la terra, il cielo e il mare – e afferma l’antichità di questo dominio facendolo risalire ai tempi titanici (e cioè proprio ai tempi di Demetra). Ecate è anche la signora degli spettri, e questo spiega come mai Zeus, secondo Esiodo, le abbia lasciato il potere antico: accanto al nuovo ordine deve necessariamente sussistere il mondo amorfo primordiale, il mondo infero. Il fatto che a Ecate fosse inerente anche un carattere materno (Esiodo la chiama nutrice di tutti quelli che sono nati dopo di lei) è per Kerényi una ulteriore conferma che originariamente Ecate fosse soltanto un aspetto della Demetra trina. Se Persefone, anche in quanto aspetto-kore di Demetra, si sdoppia in due forme di esistenza, ovvero la fanciulla presso la madre come vita, e la fanciulla presso l’uomo (lo sposo Ade) come morte, l’aspetto-Ecate di Demetra racchiude già in sé l’aspetto totalmente infero, costituisce un intero aspetto della totalità: un altro indizio, questo, dell’antichità di questa dea.
Se dunque con Prometeo non si esaurisce la possibilità di origine del Lucifero giudaico-cristiano, ma si esplora soltanto la sfida all’ordine precostituito comune a entrambi, con Ecate invece ci avviciniamo maggiormente all’essenza luciferina. Ecate è luminosa ma allo stesso tempo infera per sua essenza, costituisce una totalità di cui Zeus, come il dio cristiano, non può semplicemente sperare di liberarsi, ma che deve necessariamente esistere proprio perché l’ordinamento del dio padre possa mantenersi integro. Così come Zeus riconosce a Ecate la sua inattaccabile sovranità, anche il dio cristiano è costretto a riconoscere l’importanza di Lucifero, con la differenza che mentre nel mondo greco il dominio di Ecate apparteneva alla sfera originaria che viene sovvertita da Zeus, nel mondo giudaico-cristiano è l’ordinamento di Dio a essere originario e totale, e quello di Lucifero è un dominio che si origina per mezzo della sua caduta, come dominio dell’esilio e della punizione divina. È questo il tratto più prometeico di Satana, insieme al celebre episodio della tentazione di Eva: un tratto che, evidentemente, avvicina Lucifero alla sfera umana, proprio perché per mezzo di quella caduta rinuncia alla sua essenza totalmente angelica (e quindi divina).
Abbiamo visto come l’immagine esclusivamente prometeica di Lucifero non è altro che un’interpretazione miltoniano-romantica di questa figura, e come anche nel caso di Lucifero (nel cui sincretismo indubbiamente confluiscono innumerevoli altri caratteri che possiamo far risalire anche all’Asia Minore e all’Estremo Oriente) per ciò che riguarda la sua filiazione dalla tradizione greca non è da escludere che, come hanno sostenuto Graves, Otto e Kerényi per altri casi simili, egli non sia altro che il risultato di una maschilizzazione funzionale della figura di Ecate al fine di rispecchiare lo stravolgimento dell’ordinamento del kosmos, che decide di fare a meno delle dee madri e di ritrovare la propria origine in un dio padre.
Al consolidamento di questa immagine “moderna” del Lucifero prometeico hanno certamente contribuito le opere di Madame Blavatsky e la successiva ricezione del pensiero teosofico, fatto che ha impedito anche agli studiosi contemporanei della figura di Satana di riconoscere in esso i caratteri propri dell’Ecate primordiale, finendo così per ricondursi a Prometeo come unico possibile prototipo e riferimento Greco-arcaico di Lucifero. Blavatsky limita la propria visione di Lucifero esclusivamente a quei tratti prometeici che abbiamo evidenziato nel corso di questo studio, non discostandosi dalla linea già tracciata da Milton, Shelley, Byron prima di lei. È anche grazie a Madame Blavatsky che la figura di Satana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, è stata riabilitata come quella del “liberatore” della donna che ha offerto per prima a Eva la possibilità della conoscenza. E tuttavia è proprio questo gesto che mostra quel tentativo così antico di occultare l’originaria posizione predominante della triplice dea madre all’interno della stessa tradizione occidentale, e quella valenza cosmica di cui ancora si possono trovare tracce in quel folklore britannico e gallese medievale a cui Robert Graves ha dedicato il suo prezioso studio La Dea Bianca.
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