La misura dello stato di degenerazione raggiunto dalla vita politica contemporanea ci è dato da una circostanza singolare e pressoché inedita: l’influenza sempre maggiore che gli attori, soprattutto comici, hanno in essa. Aspetto decisamente anomalo che oltre ad essere un male in sé rappresenta anche un sintomo di più gravi mali.
Quella dell’attore, del teatrante, dell’istrione è stata sempre una figura particolare, unica per la sua complessità, e proprio per questo ha sempre avuto un trattamento speciale, in bilico tra onore e disonore, fortune e miserie, eccezionali confidenze con il Potere e clamorose esclusioni sociali. L’attore è stato sempre relegato ai margini della società a causa di vari motivi (tutti fondati) tra cui la sua alterità rispetto alla popolazione ordinaria, la mancanza di decoro connaturata alla professione ovvero la sua doppiezza, il fingere di essere altro da sé, il simulare emozioni e stati d’animo, il mascherarsi, l’alterare la propria fisionomia. L’attore è letteralmente un ipocrita (ὑποκριτής), un simulatore, ma può essere anche un posseduto, un interprete ispirato che riesce a comunicare verità difficilmente comunicabili altrimenti. Capacità che mettono in mostra anche un ulteriore aspetto della sua natura, la vaga e oscura possibilità di contatto con quella dimensione incerta, magica, dove realtà e irrealtà si confondono. L’attore recita una parte, ma si identifica anche con il personaggio che interpreta, diventa come lui, diventa lui. Agisce come un invasato che, tramite la maschera, il trucco, l’immedesimazione, può veramente impersonare (per-sonare, suonare attraverso) qualcuno o qualcosa(1), facendosi intermediario, strumento di comunicazione, medium. È quindi un individuo particolare, che all’interno della vita civile non può avere lo stesso ruolo degli altri, gli stessi diritti e gli stessi doveri. Ha una componente di sacertà che lo contraddistingue. Sacer è ciò che è dedicato al dio, che è separato dal consorzio umano, ciò che per la sua particolare energia non può entrare in contatto con la realtà ordinaria senza perturbarla. In modo particolare il comico, che con la forza dissacrante del riso può corrodere la serietà che è necessaria allo svolgimento equilibrato delle funzioni del vivere civile, siano esse religiose, politiche o economiche.
Nelle feste carnevalesche questo appare particolarmente evidente, quando la licenza prende il posto della legge, l’arbitrio quello della disciplina: ogni ordine è sovvertito e il tempo sembra fermarsi in una dimensione incerta in cui è sospeso ogni normale sviluppo della vita. Una sorta di rievocazione dell’Età dell’Oro che però ha più le caratteristiche di un caotico tempo senza più riferimenti piuttosto che un armonioso tempo presente. Gli schiamazzi, le lordure, le satire oscene hanno in questo contesto un senso, in quanto, confinate in quel limitato intervallo di tempo, permettono di dare sfogo a forze che altrimenti sarebbero potute irrompere negli altri giorni dell’anno (cosa peraltro oggi ormai avvenuta, con la trasformazione della quotidianità in un “sinistro carnevale perpetuo”) (2).
Discorso analogo per il comico, il giullare, il folle, che ormai non più limitato nei suoi ristretti ed esclusivi ambiti, può entrare, del tutto seriamente e legittimamente, anche in campi con cui nulla dovrebbe avere a che fare. Ne abbiamo il miglior esempio proprio nella politica, cioè in quella dimensione – quella dell’esercizio del potere – dove massima importanza dovrebbero avere la serietà, l’equilibrio, l’autorevolezza.
Il ruolo svolto dalle feste carnevalesche nella società fu riservato nel più ristretto ambito delle corti a quella strana figura del giullare, un individuo che non aveva solo il compito di intrattenere con giochi e facezie, ma aveva anche la facoltà di poter parlare liberamente, senza nulla rischiare, comunicando al sovrano, tramite lo strumento della risata e dello sberleffo, verità che altrimenti con difficoltà si sarebbero potute comunicare. Il buffone di corte in quanto “folle” è libero e senza responsabilità, ispirato dal dio – che tramite lui parla – oppure “voce del popolo” che riferisce verità scomode o spiacevoli a sentirsi. La sua follia lo pone fuori da interessi mondani, dandogli quel distacco che gli permette di guardare con indifferenza le vicende del mondo senza farsi influenzare da queste. La sua sacertà lo rende immune alle ire di tutti coloro i quali sono stati da lui offesi, siano essi chierici, nobili o anche lo stesso sovrano. Con quest’ultimo, peraltro, esiste un rapporto del tutto particolare, unico, fatto di analogie e discordanze. Anche il sovrano è sacer, separato dagli altri, dedito a una funzione unica, un ministerium da svolgere nella solitudine.
Il giullare è un “re a rovescio” un doppio, un corrispettivo antitetico del monarca, che diverte imitando la sovranità. Queste due figure, solitarie, si rispecchiano l’una nell’altra. Entrambi unici, separati dal mondo, con responsabilità e privilegi particolari; entrambi con gli emblemi caratteristici della loro funzione, che mostrano tutta la loro somiglianza: la corona e il cappello a sonagli, lo scettro e la marotta, la porpora regale e l’abito stravagante. Ma il giullare può esistere soltanto come ombra, solo se prima di lui c’è chi esercita il fondamentale ruolo del governante. Il monarca e il suo opposto, uniti dal mistero della sovranità, possono collaborare con successo solo se ognuno ha coscienza del proprio ruolo. Quando questo equilibrio viene rotto entrambe le funzioni ne risentono. Se il sovrano “impazzisce”, perde la dignità, si lascia andare all’istrionismo e diventa in qualche modo un buffone, non potendo più svolgere adeguatamente il suo ruolo (si veda, ad esempio, nei regimi democratici il politico che deve ottenere il consenso con le sue doti comunicative o di simpatia, ha un prestigio e un’autorevolezza quasi nulli, di poco superiori a quelli dei personaggi del mondo dello spettacolo).
Ma le cose assumono tratti decisamente più tragici se è il buffone a voler diventare sovrano. Ci troviamo di fronte a individui completamente privi della qualificazione per l’esercizio del potere e che, portando tutto il loro squilibrio e la loro incapacità ai vertici del comando, non potranno fare altro che diffonderlo ancora di più nella società. Perché la loro natura è quella della finzione: esseri illusori, ombre che mai potranno produrre qualcosa di costruttivo, perché la “scena” non è la “realtà” e le forze con cui si deve interagire necessitano di una controparte in grado di poterle gestire, contrastandole o dominandole ma sempre con saldezza e decisione. Ma il teatrante non può farlo, perché la sua vera natura prima o poi emergerà sempre, con danni vieppiù crescenti a seconda della credibilità che gli era stata accordata. La forza, la fermezza, la serietà che dovrebbero essere le doti caratteristiche di un sovrano sono completamente incompatibili con la labilità, la leggerezza e la cialtroneria tipiche del suo ruolo, che come abbiamo visto ha una sua funzione all’interno della dinamica del Potere, ma che non può pretendere di usurpare le altrui funzioni. La convivenza della figura giullaresca e regale può essere possibile solo per brevi periodi di tempo e in circostanze straordinarie, ma è impossibile e deleteria sul lungo periodo.
Solone non avendo il potere ad Atene si deve travestire in maniera assurda e simulare la follia per perorare la causa della sua patria (rivestendo, sia pure temporaneamente, la funzione del folle); all’opposto l’imperatore Nerone dà scandalo esibendosi pubblicamente nell’indecoroso ruolo del commediante, perdendo l’autorità e il prestigio che alla sua funzione erano connaturati.
Il jolly non è il Re, né mai potrà esserlo.
Nel periodo dei festeggiamenti per le nozze di Enrico IV e Maria de’ Medici vennero invitati a Parigi vari teatranti ad esibirsi, al fine di allietare il popolo e le persone della corte. Durante una delle rappresentazioni private fatte alle presenza di pochi invitati e del re, l’attore che impersonava Arlecchino, approfittando di un attimo di distrazione del sovrano, che aveva lasciato il trono vuoto, se ne impadronì sedendovici sopra. Facendo finta di essere il re, si rivolse al re chiamandolo Arlecchino, lodandolo e promettendogli protezione e ricompense. Il re, pur stando al gioco e non contraddicendo il suo interlocutore, concluse così lo scherzo: “Altolà Arlecchino, avete recitato abbastanza la mia parte, adesso lasciate che la riprenda io”. (3)
I problemi dell’epoca presente sono strettamente legati all’eclissi della sovranità. Venuto meno il principio ordinatore e direttivo non si è potuto avere altro che confusione e disgregazione. In politica si è imposto il democratismo, forma ultima di degenerazione che nega ogni tipo di autorità trascendente. Il politico democratico non ha autorità, non ha prestigio, non ha nulla. Deve perciò letteralmente comprare i consensi, e se da un lato lo fa distribuendo ai suoi sostenitori privilegi e prebende, dall’altro cerca di ottenere una più vasta simpatia tramite gli strumenti della comunicazione di massa, utilizzando l’emotività e il sentimento. E qui si ha una sovrapposizione con l’area di competenza dell’uomo di spettacolo.
Se il politico non ha il potere è sua ferma volontà quella di ottenerlo (essendo il potere fine a se stesso l’unico e vero scopo della politica attuale). Uno dei modi più efficaci è proprio la contestazione di chi comanda, con critiche più o meno veritiere, realistiche o demagogiche, facendo leva sull’insoddisfazione e le recriminazioni sempre presenti in società complesse e piene di contraddizioni. L’importante consiste nell’abbattimento dell’avversario e nella propria elevazione (in questo soprattutto consistono le cosiddette “campagne elettorali”). Poi, una volta conquistato il potere, le parti si potranno anche invertire, fino al successivo e inutile ribaltamento che tutto cambierà lasciando tutto uguale. Ma uno sfaldamento a questo punto è già avvenuto, un cedimento che ha portato aree distinte a compenetrarsi e contaminarsi. La funzione critico-corrosiva del giullare è passata al politico, a sua volta divenuto attore, elemento che pretende (cioè finge) di attaccare il sistema dall’interno, per poterlo cambiare una volta ottenuto il consenso popolare. Specularmente si aprono possibilità anche nell’altra direzione. Il giullare potrà benissimo chiedersi: “se un politico qualsiasi può fare una cosa simile, perché non posso riuscirci io, che sono un professionista?”
Una volta superato il limite, non c’è più nessun ostacolo che possa impedirglielo. E la sua entrata nel mondo della politica sarà molto più facile. La popolarità, l’abilità nel comunicare, nel trovare i paradossi e le ridicolaggini di quell’ambiente gli apriranno la strada per le più alte cariche.
Ma ben presto la realtà presenterà il conto. L’esercizio del potere comporta il possesso di doti che gli sono estranee: travolto dagli eventi potrà soltanto tentare di sopravvivere, ormai resosi conto di essere stato utilizzato, inserito in un gioco molto più grande di lui, che prima o poi lo abbatterà come all’inizio lo aveva esaltato. La concorrenza con il “politico di professione”, suo collega e quasi fratello nei bassifondi del “mondo alla rovescia” (4) è per il momento ancora troppo forte (per il politico si tratta letteralmente di una questione di sopravvivenza, essendo la politica la sua unica fonte di sostentamento) ma non è escluso che anche queste differenze un giorno saranno livellate, stante anche il corso degli eventi, assai favorevole a questo processo, e che un giorno potrà essere chiara a tutti la totale uguaglianza di queste due categorie, entrambe residuali e marginali all’interno della società, ma entrambe, a causa della strana configurazione dell’epoca presente, portate nel posto contemporaneamente più e meno consono a loro, ossia ai vertici della piramide invertita del potere.
Renzo Giorgetti
[1] Cfr. T. Burckhardt, La maschera sacra, in Simboli, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1983, pp.13-20.
2 Espressione utilizzata da René Guénon nel suo articolo Sur la signification des fêtes «carnavalesques», in Études Traditionnelles, dicembre 1945.
3 G. Tallemant de Réaux, Historiettes, tomo I, Parigi, Paulin, 1834, p.16.
4 Per Frithjof Schuon “il saltimbanco, l’attore, il boia”, figure marginali della società, con l’essere capaci di “tutto e niente”, nella loro anomalia e alterità hanno qualcosa che li accomuna a “certi santi”, anche se solo per analogia inversa (Caste e razze, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1979, p.13). Per un approfondimento rimandiamo ai seguenti scritti:
https://www.heliodromos.it/intervento-perche-nelle-democrazie-comandano-sempre-i-peggiori/
https://www.heliodromos.it/il-politico-come-bugiardo-patologico/
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