Psicología

Centro MENADEL PSICOLOGÍA Clínica y Tradicional

Psicoterapia Clínica cognitivo-conductual (una revisión vital, herramientas para el cambio y ayuda en la toma de consciencia de los mecanismos de nuestro ego) y Tradicional (una aproximación a la Espiritualidad desde una concepción de la psicología que contempla al ser humano en su visión ternaria Tradicional: cuerpo, alma y Espíritu).

“La psicología tradicional y sagrada da por establecido que la vida es un medio hacia un fin más allá de sí misma, no que haya de ser vivida a toda costa. La psicología tradicional no se basa en la observación; es una ciencia de la experiencia subjetiva. Su verdad no es del tipo susceptible de demostración estadística; es una verdad que solo puede ser verificada por el contemplativo experto. En otras palabras, su verdad solo puede ser verificada por aquellos que adoptan el procedimiento prescrito por sus proponedores, y que se llama una ‘Vía’.” (Ananda K Coomaraswamy)

La Psicoterapia es un proceso de superación que, a través de la observación, análisis, control y transformación del pensamiento y modificación de hábitos de conducta te ayudará a vencer:

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Ansiedad / Angustia
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Adicciones / Dependencias (Drogas, Juego, Sexo...)
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Trastornos de Personalidad...

La Psicología no trata únicamente patologías. ¿Qué sentido tiene mi vida?: el Autoconocimiento, el desarrollo interior es una necesidad de interés creciente en una sociedad de prisas, consumo compulsivo, incertidumbre, soledad y vacío. Conocerte a Ti mismo como clave para encontrar la verdadera felicidad.

Estudio de las estructuras subyacentes de Personalidad
Técnicas de Relajación
Visualización Creativa
Concentración
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Desbloqueo Emocional
Exploración de la Consciencia

Desde la Psicología Cognitivo-Conductual hasta la Psicología Tradicional, adaptándonos a la naturaleza, necesidades y condiciones de nuestros pacientes desde 1992.

miércoles, 23 de octubre de 2024

Dino Campana e l’Ancella della Notte


L’amorosa fusione del poeta con l’ancella ha gettato un ponte sull’infinito che l’eternità può percorrere per manifestarsi in questo mondo, l’unione mistica dell’iniziato con il suo angelo ha sublimato in un sogno salvifico la nostalgia per quel paradiso perduto la cui bellezza si riflette ancora nel fondo degli occhi di ognuno di noi. Un’analisi letteraria e simbolica di un estratto dei Canti Orfici di Dino Campana.

di Eva Colombo

Originariamente pubblicato sul blog dell’Autrice ColchicoMelanconico

Una torre barbarica penetra con il suo cono d’ombra un lungo viale di piani. Qualcosa di oscuro e violento si agita tra le foglie: un mito mistico e selvaggio ha impresso le sue impronte in quel luogo e gli ambulanti sono fatalmente calamitati da quelle impronte come se un’antica maledizione li obbligasse a percorrere quel viale quasi ipnotizzati dal bagliore indistinto che filtra da un’ambita porta molto lontana. Le loro lunghe vesti accarezzano una campagna torpida che scivola dolcemente nella rete ipnotica dei canali. Il profilo affilato di antiche fanciulle affonda in verdi anse.

Qualcosa di vivo traspare dal fondo dei torpidi canali: è un’ombra beffarda, l’ombra del poeta all’inizio del suo percorso iniziatico. È l’ombra di quel fondo fangoso che lo conduce a un confine e a una porta: una matrona barbara e massiccia lo accoglie. L’ombra dietro le sue spalle non nasconde la cameriera color ambra che ansima appesantita da un sonno profondo. La lunga processione degli antichi amanti della matrona sfila monotona alle orecchie del poeta, mentre la cameriera si libera dal carico del sonno e, appoggiandosi sui gomiti, assume un atteggiamento da sfinge. Fuori, giardini verdi tra mura rosse. Il complementare del verde e del rosso placa la paradossalità della condizione del poeta, della matrona e della cameriera: fuori dal mondo e dal tempo ma unici vivi.

Poi la notte avvolge il poeta e la cameriera, ma il buio non riesce a spegnere l’ambra del suo paradossale corpo dorato ma selvaggio, acerbo ma dolce, un corpo chiuso nel recinto di un mistero che è umile: aderente alla terra. In una gelida notte di dicembre il poeta incontra di nuovo la matrona e la cameriera. Nel blocco di nebbia ghiacciata, una nebbia ghiacciata che opprime con la sua ombra arcate ghiacciate, gocce di luce scavano mezzi di fuga — gocce di luce che confluiscono in un’altra luce che irrompe da una porta improvvisamente aperta. Lo sguardo del poeta è subito attratto dal rosso di un’ottomana dove la massiccia matrona sostiene con la mano la sua pesante testa, la giovane matrona dagli occhi antichi come il mondo. Accanto a lei, l’esile cameriera avvolta in una luminosa vestaglia. Sopra la sua testa, una tenda bianca che reca enigmatiche immagini bianche.

Nell’ombra di questa stanza bianca e rossa la cameriera ansima oppressa da sogni oscuri, turbata dalla fusione mistica che sta unificando le parti opposte e complementari del suo essere: giovane e antica, femmina e maschio, animale umano e icona sacra. Un altro incontro, questa volta in una città sul mare. In un giglio d’ombra rosso e ardente, i bianchi ambulanti sognano in un vento che porta il sale purificante del mare verde, mentre la notte mediterranea brilla di stelle e fiamme. La passeggiatrice scelta dal poeta è pura e splendente, alata dal suo vestito leggero. Il rosso, il verde e il bianco sono diventati viola: nella notte viola la fanciulla ha riunito in un’unità armoniosa la sua paradossalità e può ora librarsi senza oneri. Nell’aldilà dello specchio la sua vera identità diventa visibile: è un’epifania divina volatile ma concreta.

Paul Delvaux, The Shadows

Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo. [1]

Una torre barbara penetra con il suo cono d’ombra e di silenzio un lunghissimo viale di platani. Qualcosa di oscuro e violento aleggia in quel luogo: un mito mistico e selvaggio vi ha impresso le sue orme e antiche passeggiatrici sono condannate a ripercorrerle fatalmente calamitate dall’indistinto splendore che intravvedono trapelare da una desiderabile, lontanissima porta. Le loro vesti lunghe e molli accarezzano il torpore di una campagna che scivola dolcemente nell’ipnotica rete dei canali. Il profilo tagliente di antiche fanciulle affonda nel verde che le risucchia dietro gli svolti. Il silenzio cede il suo dominio al rintocco argentino della campana che annuncia il calare della sera e soffia nell’aria il ricordo di una chiesetta solitaria. L’ombra delle sue modeste navate non riusciva a spegnere lo sfavillio degli occhi di una idealizzata Lei.

Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna una porta incisa di colpi, guardata da una giovine femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e corpulenta matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose insieme ad un grazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancella che dormiva colla bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano. [2]

Dal fondo immobile di torpidi canali inspiegabilmente traspare qualcosa di vivo. O, meglio, qualcosa che sembra vivo: è un’ombra irridente, l’ombra del poeta iniziando. È lei che da quel torbido fondo lo guida attraverso strade arroventate che esalano miasmatici canti femminili fino ad un confine e ad una porta ingombrata da una giovane pesante ed incolore, una porta a cui molti hanno già bussato con violenza: nessun ostacolo però si frappone all’ingresso del poeta. Lo accoglie il profilo scultoreo di una massiccia matrona dagli occhi e i capelli neri, barbarica ed animalescamente infantile mentre seduta maneggia un untuoso mazzo di carte. L’ombra alle sue spalle non copre l’ancella ambrata che rantola seminuda gravata da un sonno pesante.

Paul Delvaux, The Strollers

La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona ai miei orecchi. Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sul tavolo untuoso. L’agile forma di donna dalla pelle ambrata stesa sul letto ascoltava curiosamente, poggiata sui gomiti come una Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra i muri rosseggianti: noi soli tre vivi nel silenzio meridiano. [3]

Gli antichi amori della matrona scorrono lenti sull’impiastrante untuosità del tavolo, invescati nella cornice di untuose carte da gioco. L’ancella si è liberata dal macigno del sonno e si è alzata sui gomiti, impietrando il suo agile corpo in un’attitudine da Sfinge. La complementarietà del verde e del rosso avvolge attutendola la paradossalità della condizione del poeta, della matrona e dell’ancella: fuori dal mondo e dal tempo, eppure gli unici ad essere vivi.

Venne la notte e fu compiuta la conquista dell’ancella. Il suo corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano […] E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo mistero. [4]

Il poeta e la notte avviluppano l’ancella ma l’ambra del suo corpo non viene spenta dal buio; la sua bocca ed i suoi capelli mordono e pungono, i suoi occhi aprono e chiudono ritmicamente finestre rivelatrici affacciate oltre il confine dell’orgasmo, la materia stessa della notte viene riplasmata in un fantasmagorico intreccio modellato dai suoi movimenti. In quella stessa materia il calco della matrona è ancora percettibile ma in modo sempre più fievole: ha i tratti della Notte di Michelangelo, regina marmorea condannata a sostenere immobile il peso di tutto il sogno umano sulla propria nuca reclinata. L’ancella è un’ingenua Maddalena, una santa prostituta la cui paradossalità sprigiona un moto sussultorio che aspira a ricondurre ad una unità superiore la natura contradditoria che si esprime attraverso il suo corpo dorato e selvaggio, crudo e dolce, penetrabile ma chiuso nel recinto di un mistero umile, aderente alla terra.

Paul Delvaux, The Blue Sofa

Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le antiche immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito, apparendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul panorama scheletrico del mondo. [5]

Nel ricordo il poeta viene visitato dalle benevole immagini dei suoi primi amori che si affacciano a sorridergli protettive sporgendosi dalla cornice di paradisiaci cancelli d’argento. Accanto a queste emergono, dal fondo del risucchiante labirinto di specchi del bordello, le rapinose immagini delle cortigiane immobili nella loro attitudine di sfingi, rese pallide dalla poca luce che riesce a liberarsi dall’abisso degli specchi. Queste presenze recano al poeta i semi del loro amore paradossalmente aridi e dolci, apparentemente morti ma in realtà pronti a mutarsi in teneri germogli sul panorama scheletrico del mondo.

Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimi clangori, vedevo le antichissime fanciulle della prima illusione profilarsi a mezzo i ponti gettati da la città al sobborgo ne le sere dell’estate torrida:  volte di tre quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua annunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete a trivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche: ora addolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite di un velo: così come Santa Marta, spezzati a terra gli strumenti, cessato già sui sempre verdi paesaggi il canto che il cuore di Santa Cecilia accorda col cielo latino, dolce e rosata presso il crepuscolo antico ne la linea eroica de la grande figura femminile romana sosta. Ricordi di zingare, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze d’amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altre culla avventurosa di incertezza e di rimpianto: così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama scheletrico del mondo. [6]

Le paradisiache, atemporali fanciulle delle prime illusioni amorose hanno varcato gli eterei cancelli d’argento per stagliarsi nell’aria torrida che incombe sui ponti sospesi nell’attesa di un’infernale esplosione orgiastica: nella sera avvelenata dalla polvere pirica e percossa dal clangore che annuncia il divampare di lingue di fuoco che intendono dare l’assalto al cielo, sono dolci e rosate come una santa che sosta in un crepuscolo senza tempo che cala su sempreverdi paesaggi irrigati dal balsamo del silenzio. I ponti del ricordo vengono improvvisamente invasi dalle zingare il cui amore sapeva trasformare il letto sfatto di una taverna nella culla in cui il poeta assaporava l’indefinitezza del proprio destino. Dai semi aridi e dolci delle fanciulle paradisiache e delle zingare sorgono germogli sul panorama scheletrico del mondo. 

Paul Delvaux, Ruins of Selinunte

Ero sotto l’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una porta si era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava nello sfarzo di un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reggendo la testa una matrona, gli occhi bruni vivaci, le mammelle enormi: accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata e fine, i capelli recisi sulla fronte, con grazia giovanile, le gambe lisce e ignude dalla vestaglia smagliante: e sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare le immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei pensierosa negli occhi giovani. Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena. [7]

Nel blocco di nebbia ghiacciata che opprime con la sua ombra i portici intirizziti in una notte di dicembre gocce di luce sanguigna scavano una via di scampo, confluendo nell’alveo di un’altra luce che erompe da una porta improvvisamente aperta. Gli occhi del poeta vengono immediatamente attratti dal rosso di un’ottomana dove una poderosa matrona regge con la mano la propria testa pesante. Accanto a lei, una sottile fanciulla inginocchiata negligentemente avvolta in una vestaglia smagliante che non copre il suo luminoso corpo ambrato. Sopra di lei, una tenda di trina bianca rivela allo sguardo attonito del poeta delle enigmatiche immagini candide.

Già era tardi, fummo soli e tra noi nacque una intimità libera e la matrona dagli occhi giovani poggiata per sfondo la mobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo peccato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per lei di curiosità irraggiungibili. «La femmina lo picchiettava tanto di baci da destra: da destra perché? Poi il piccione maschio restava sopra, immobile?, dieci minuti, perché?». Le domande restavano ancora senza risposta, allora lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato. Fin che la conversazione si era illanguidita, la voce era taciuta intorno, il mistero della voluttà aveva rivestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime agli occhi io in faccia alla tenda bianca di trina seguivo seguivo ancora le fantasie bianche. La voce era taciuta intorno. La ruffiana era sparita. La voce era taciuta. Certo l’avevo sentita passare con uno sfioramento silenzioso struggente. Avanti alla tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle ginocchia ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo. [8]

La matrona antica come il mondo ma dagli occhi giovani, che su di un’ottomana rossa posa immobile aureolata da una mobile tenda bianca, parla. Per tutta la vita è stata devota alla lussuria senza tuttavia riuscire a scioglierne il mistero: il peso della sua esperienza non è sufficiente nemmeno per squarciare l’enigma di un accoppiamento fra piccioni.  Parla, domanda; rievoca il suo ingombrante passato alla ricerca di una risposta. Ma la risposta non arriva, la cappa del mistero cala su di lei imponendole il silenzio. Il poeta contempla la tenda bianca inseguendo le fantasie bianche che vi vede scorrere. Davanti a questa tenda immacolata e gualcita l’ambrata e mascolina fanciulla è ancora inginocchiata.

Paul Delvaux, Night Visit

Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio. Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chioma profusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda. [9]

La tenda bianca con le sue bianche immagini scorrenti evoca il ricordo di un torrente che scorreva tra le nevi delle bianche Alpi. Una salvifica fanciulla presso quel torrente lavava e cantava: i suoi baci non sono riusciti a liberare il poeta dal peso dell’incubo che continua a gravare su di lui. Il gelido torrente bianco scorre tra le rovine del passato confluendo nel presente di un corpo caldo e dorato: quello dell’ancella che distesa nell’ombra della stanza bianca e rossa rantola oppressa da sogni oscuri, travagliata dalla mistica fusione che si sta operando in lei. Lei che è antica e presente, femmina e maschio, animale umano e icona sacra.

Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro l’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti ormai. La notte, la gioia più quieta della notte era calata. [10]

In un’ombra che non è fresca ma ardente si mescolano canti di fanciulli e canti di lussuria, voci dell’innocenza e del peccato che insieme salgono al cielo. Prostitute immacolatamente bianche sognano non alla luce ma all’ombra di lampioni verdi, mentre il vento mescola il purificatore sale bianco del mare verde all’odore lussurioso dei vicoli e la notte mediterranea diventa immacolata come le donne con cui scherza. La fiamma  dei lampioni si dibatte tentando di liberarsi come i cuori in catene celebrati dalle canzoni delle prostitute nella gioia quieta della notte. 

Paul Delvaux, Lunar City

Solitaria troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. [11]

Il regale cielo notturno è inattingibile, isolato com’è da un’impenetrabile cortina di fuoco: non resta che sprofondare nella mostruosa ferita di una via. Ma una scappatoia dall’abisso c’è: le porte che si aprono lungo questa via infernale conducono ad un altro cielo, quello artificiale creato dal sogno delle bianche cariatidi appoggiate agli stipiti. La prescelta dal poeta è pura e splendente, dal profilo e dal portamento regali, alata dalla veste leggera che scivola sulle sue spalle. Un’evanescente cariatide la cui finestra scintilla nell’attesa di congiungersi all’ ombra.

O il tuo corpo! Il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. [12]

Il rosso, il verde e il bianco si sono fusi nel viola: l’ancella, la santa prostituta, ha composto in un’armoniosa unità la propria paradossalità e può finalmente alzarsi da terra liberata definitivamente d’ogni peso. Il suo corpo si sublima in un profumo che vela gli occhi del poeta iniziato: il mystos (l’iniziato ai culti misterici) si vela per poter acquisire un’altra capacità visiva, ben più acuta di quella semplicemente fisica efficace soltanto in questo mondo. E nell’al di là dello specchio si svela la vera identità dell’ancella: l’aereo dono di un dio, una volatile ma concretissima epifania divina. È l’asse portante, la cariatide, di un incantevole ed ignoto cielo notturno. Il suo seno luminoso sostituisce le stelle, le sue mani traducono in una melodia di carezze l’armonia delle sfere celesti. Alata come una colomba si posa leggera sul poeta, lo avviluppa dolcemente con il proprio corpo aereo che asseconda docilmente il corpo di lui. Anche il corpo del poeta ora non ha più peso, non proietta più un’ombra che lo ancora al fondo di melmosi canali: è un soffio, un alito di vento in cui respirare un sentore di felicità e bellezza.

Paul Delvaux, The Great Sirens

Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? [13]

La finestra aperta sul cielo notturno naturale rivela che non c’è più differenza tra questo cielo e quello artificiale creato dal sogno delle cariatidi, che le leggi che reggono il cosmo generato dall’amplesso del poeta e dell’ancella ora reggono il mondo intero. Tutti gli uomini sono divenuti aerei, senza peso né ombra: dolci spettri il cui cadenzato vagare non è una condanna ma un gioioso atto creativo da cui scaturisce la melodia che trasfigura la città in un sogno armonioso. Le parole non sono più necessarie per formulare domande che non necessitano risposta. L’amorosa fusione del poeta con l’ancella ha gettato un ponte sull’infinito che l’eternità può percorrere per manifestarsi in questo mondo, l’unione mistica dell’iniziato con il suo angelo ha sublimato in un sogno salvifico la nostalgia per quel paradiso perduto la cui bellezza si riflette ancora nel fondo degli occhi di ognuno di noi.  


NOTE

[1] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Milano, Garzanti, 1989, p. 7

[2] Ivi, pp. 8 – 9

[3] Ivi, p. 9

[4] Ivi, p. 10

[5] Ibidem

[6] Ivi, pp. 10 – 11

[7] Ivi, p. 12

[8] Ivi, pp. 12 -13

[9] Ivi, p. 14

[10] Ivi, p. 16

[11] Ibidem

[12] Ivi, pp. 16 – 17

[13] Ivi, pp. 17 – 18

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